Blog di Antonio Vigilante

Separare il grano dal loglio

Immaginetta della
Madonna di Siponto.
Mi è stata chiesta qualche riflessione in occasione della festa patronale. Il mio è il punto di vista di un non cristiano fortemente critico nei confronti dell'aspetto istituzionale di tutte le religioni e fortemente interessato, invece, all'esperienza mistica ed eretica (due cose, misticismo ed eresia, che spesso coincidono). Avverto sin d'ora il lettore cattolico che nelle righe che seguono troverà pertanto cose sgradevoli: si regoli come meglio crede.
Per riflettere sul senso religioso di una cosa come la festa patronale bisogna prima porsi qualche domanda. Che cos'è la religione? Cosa vuol dire essere religiosi? Quali pratiche sono religiose, e quali no? Cosa distingue il religioso dal non religioso, e il profondamente religioso dal superficialmente religioso?
La risposta più ovvia a questa domanda sembra essere la seguente: religione è entrare in rapporto con Dio o con un Ente trascendente. Che può chiamarsi Yhwh o Allah, Ahuza Mazda o Shiva, essere Uno o molteplice, vicino o lontano, incarnato o disincarnato: ma è il Divino, distinto dall'umano. In realtà le cose non sono così semplici, perché esistono anche religioni, come il jainismo ed il buddhismo, che prescindono dalla divinità. Per un buddhista non si tratta di credere in Buddha ("Se incontri il Buddha per strada, uccidilo", diceva il grande maestro zen Lin Chi), ma di diventare un Buddha. Fino a quando il Buddha è altro da noi, vuol dire che siamo ancora lontani dalla meta della nostra vita religiosa. Qualcosa di simile avviene anche in certa mistica speculativa cristiana, per la quale bisogna diventare Dio, più che venerare Dio (si pensi a Meister Eckhart), così come nel sufismo di Al-Hallaj, il Cristo dell'Islam, mandato a morte perché affermava di essere diventato la Verità, ossia Dio.

C'è poi la spiritualità, che si può caratterizzare come presa di contatto con sé stessi. Tutte le religioni hanno elaborato quelle che Foucault chiamava tecnologie del sé: dalla confessione all'esicasmo, dallo yoga alla meditazione vipassana dei buddhisti. La persona religiosa si riconosce per la capacità di conoscersi, di raccogliersi, di stabilirsi per così dire in sé stessa, analizzando i moti interiori, le passioni, le emozioni, le inquietudini. Da ciò discende la tendenza di molte persone religiose a chiudersi nella ricerca della perfezione spirituale, allontanandosi dalle cure mondane, ma può anche scaturire una nuova forma di prassi, un impegno più puro.
Se la spiritualità porta al contatto con sé stessi, l'etica ci conduce al cospetto dell'altro. Tutte le religioni predicano la comprensione, il rispetto, l'amore dell'altro. Una persona religiosa - profondamente, autenticamente religiosa - si riconosce per questo: vive intensamente il suo rapporto con l'altro; ha reciso in sé le radici dell'odio ed è capace di un amore che giunge fino agli animali.
Un ultimo aspetto fondamentale della religione è l'aspirazione ad un mondo libero dal male e dalla sofferenza. C'è al fondo della religione una ribellione umanissima contro il dolore che segna l'esistenza umana e tutto il mondo naturale, il rifiuto di considerarli normali, la ricerca di una finale pacificazione universale. E' l'aspirazione dei profeti ebrei ad una dimensione in cui il lupo possa pascolare con l'agnello, il Regno dei cristiani, l'auspicio buddhista di un mondo in cui i ciechi vedono, i sordi ascoltano, i nudi vengono vestiti e gli affamati trovano cibo.
Essere religiosi significa tutte queste cose. Ma può significate, e spesso significa, anche il contrario di queste cose. In nome della religione, che predica l'amore e la pace, ci si uccide. Succede perché l'altro da amare diventa il membro della propria comunità religiosa; la sfera etica si restringe fino a racchiudere solo i propri correligionari (la umma musulmana, l'ecclesia cristiana, il sangha buddhista), mentre chi ne resta fuori diventa l'infedele, il nemico da combattere. In nome della religione si giustificano le più gravi forme di oppressione dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sulla natura.
E' chiaro, dunque, che quando si parla di religione è importante distinguere, passare al vaglio, separare il grano dal loglio.
Fatta questa lunga premessa, possiamo chiederci: una cosa come la festa patronale cos'è, grano o loglio? La risposta è: loglio. Provo a spiegare perché.
In religione la cosa importante non è, come credono molti, credere o non credere. Quello che conta è la concezione che si ha di Dio o del Divino: in quale Dio si crede. Anche qui bisogna dividere e distinguere il grano dal loglio. C'è un Dio che non è null'altro che la stampella del nostro io, il sostegno metafisico del nostro egoismo, il volto che ci rassicura, che ci dice che siamo il centro dell'universo, che tutto andrà bene perché Dio stesso, l'origine dell'universo, si prende cura delle nostre vicende. All'estremo opposto dell'esperienza religiosa c'è una concezione del Divino che ci costringe ad uscire da noi stessi, a deporre il nostro io come un peso e ad aprirci ad altro. E' quella che Albert Einstein chiama "religiosità cosmica". Così la caratterizza in Come io vedo il mondo: "L'individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per contro, riconosce l'impronta sublime e l'ordine ammirabile che si manifestano tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L'esistenza individuale gli dà l'impressione di una prigione e vuol vivere nella piena conoscenza di tutto ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso profondo". E' una religiosità che non appartiene alle chiese, quanto agli eretici; qui il credente Francesco d'Assisi sta accanto all'ateo Spinoza.
E' chiaro che, da questo punto di vista, nulla appare più lontano dalla religiosità autentica del concetto di patrono. Cos'è un patrono? Un personaggio religioso che ha una cura particolare di una comunità ristretta. C'è qualche traccia, in ciò, della predilezione del Dio biblico per il popolo ebraico. Dio, che si vuole creatore di un universo di miliardi di galassie, ognuna delle quali ha un miliardo di stelle, non solo si preoccupa della sorte di una delle infinite specie che vivono su un pianeta periferico di una di queste infinite galassie, ma addirittura elegge, chissà perché, uno solo di questi popoli (e, presentandosi come Dio degli eserciti, lo spinge a combattere e sterminare altri popoli). Difficile immaginare qualcosa di più assurdo. I cattolici ci sono riusciti. Per loro il Divino non si occupa soltanto di un popolo, ma addirittura di una città, di un paese, di un borgo. Non basta credere nella Madonna: occorre che la Madonna si moltiplichi all'infinito, diventando ora bianca ora nera, soccorrendo ora questa ora quella comunità.
I cattolici sono molto sensibili all'idolatria altrui, poco alla propria. In che modo portare in giro una icona, un simulacro del Divino, sia cosa diversa dall'idolatria, è un mistero della fede. E, certo, c'è emozione durante una processione o durante una festa religiosa di questo genere. Ma di che emozione si tratta? Ha a che fare con la religione? Non molto. E', invece, quella sorta di contagio emotivo che si prova in tutte le manifestazioni collettive, quando si è immersi in una folla e quasi trascinati da essa. In questo caso si esce da sé stessi soltanto per chiudersi in un io più grande, quello della folla. E' qualcosa di non troppo diverso da ciò che accadeva durante le adunate oceaniche dei regimi totalitari: e non a caso esisteva anche una mistica fascista. Da sempre il potere (o meglio: il dominio) si sostiene anche grazie alla capacità di suscitare emozioni collettive, la cui crescita è direttamente proporzionale alla diminuzione delle capacità riflessive e critiche. L'autentico sentimento - non emozione - religioso è qualcosa di diverso. E purtroppo non è così a buon mercato.

Editoriale per Stato Quotidiano