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blog di antonio vigilante

Georges Lapassade, ancora

Quando ho cominciato a insegnare, ormai vent’anni fa, non avevo molti libri nel mio bagaglio leggero di giovane docente. L’università mi aveva formato soprattutto sulla fenomenologia, l’ermeneutica e il personalismo, ma nessuna di queste teorie mi persuadeva. Presa la laurea, ho cominciato da zero o quasi il lavoro di farmi una cultura filosofica e pedagogica adeguata al mio sentire; un lavoro che non è ancora finito.
Tra i pochi libri che portavo idealmente con me, il giorno in cui per la prima volta ho messo piede in un’aula scolastica, c’era L’analisi istituzionale di Georges Lapassade. Avevo incontrato le idee e la prassi di Lapassade durante uno dei lavori tentati alla ricerca di una mia via: pedagogista in una cooperativa educativa. Una cooperativa che era seguita da Lapassade e ne adoperava il metodo dell’autogestione: ragazzini anche molto piccoli (di quelli che si definiscono difficili) erano chiamati alla gestione condivisa della comunità educativa. La prima volta che misi piede come docente in un’aula scolastica lo feci con quel modello educativo, e ben presto sperimentai quanto l’istituzione scolastica sia chiusa non tanto alla sperimentazione in sé, quanto a sperimentazioni che ne mettano in discussione realmente, e non solo retoricamente, i rapporti di potere.

Lapassade è stato uno dei protagonisti più vivaci, anche se non tra i più noti, del Sessantotto. E chi ha provato a portarne a scuola la pratica sa quanto sia superficiale, sciocca, storicamente arbitraria la diffusa analisi che attribuisce i mali attuali della scuola italiana a una presunta influenza nefasta del Sessantotto. A distanza di cinquant’anni c’è da interrogarsi piuttosto su quanta istanze pedagogiche del Sessantotto rappresentino ancora una sfida per la scuola; quanto, cioè, autori come Lapassade siano ancora attuali. Per questo risulta prezioso un libro come Educazione e pedagogia autogestionaria. Una ricerca su Georges Lapassade di Carla Gueli (Sensibili alle foglie, Roma 2018). Un libro che nasce appunto dalla necessità e dall’urgenza di affrontare il nonsenso quotidiano della scuola, interrogando dal di dentro l’istituzione attraverso la voce delle persone che la costituiscono quotidianamente. Si parla molto, a scuola, di educazione al pensiero critico, ma pare che l’istituzione stessa sia escluda da questa analisi critica: non accade mai, o quasi, che studenti e docenti si fermino ad analizzare il senso, l’origine, la direzione, la natura e la struttura, i fini evidenti e quelli latenti dell’istituzione scolastica. Non è difficile comprenderne le ragioni. Chi analizza criticamente la scuola giunge ben presto alla questione del potere. E se si critica il potere scolastico, l’istituzione crolla. O si trasforma profondamente. In uno dei suoi libri più potenti, L’entrée dans la vie (1963), tradotto in italiano con il titolo Il mito dell’adulto, Lapassade mette in discussione uno dei capisaldi della concezione pedagogico-scolastica. Gli adulti hanno il diritto/dovere di educare i giovani, e di farlo con un giusto ricorso all’autorità ed alla disciplina, perché rappresentano l’umano giunto a compiutezza. Ma ciò che caratterizza la specie umana, osserva Lapassade, è una costante incompiutezza, l’essere sempre in formazione, senza che si possa individuare un momento in cui il processo è compiuto e l’educazione ha raggiunto la sua fine. Si tratta di tesi che all’epoca risultavano fortemente provocatorie e lo sono per molti versi anche oggi, ma in fondo, ricorda Gueli, anticipano quella esigenza di una educazione permanente che oggi è universalmente riconosciuta. Senza che se ne traggano, però, tutte le conclusioni pedagogiche, perché se anche l’adulto è in formazione, allora scompare la distinzione netta tra insegnante e alunno, e bisogna parlare piuttosto di una comunità di soggetti in formazione. Che è ciò che Lapassade cercava con la pratica dell’autogestione, che rappresenta anche un modo per riscoprire la relazione umana oltre il sistema burocratico. “Il solo modo di proteggersi dalla relazione umana è di sopprimerla, non bisogna che l’altro continui ad essere l’origine di una relazione, bisogna che egli non ne costituisca più che il termine”, scriveva ne L’analisi istituzionale (Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1974, p. 126). Lo avvertono ogni giorno gli studenti: ciò che chiedono più di ogni altra cosa è una relazione umana reale. Quello che ottengono, quotidianamente, è un sistema relazionale freddo, con ruoli rigidi, nel quale l’ossessione per le regole, la disciplina, il controllo si esprime in forme che altrove sarebbero bizzarre: un problema relazionale è risolto non con un confronto umano, magari anche acceso, ma con il ricorso al testo scritto del rapporto disciplinare. Un sistema che ha conseguenze anche sull’apprendimento, poiché l’apprendimento reale è sempre un fatto sociale, nasce dal confronto, dalla discussione e ricerca comune, non dalla serialità dello studio individuale, in competizione con l’altro, centrato sul protocollo lezione-manuale-interrogazione.
Pensatore rivoluzionario, Lapassade non si accontenta di mezze soluzioni. Seguendo Sartre, interpreta il passaggio dal gruppo alla istituzione come caratterizzato dal giuramento, che rende stabile il gruppo e gli garantisce il futuro, ma solo a costo di una fase di terrore, che è dunque all’inizio dell’istituzione. Non è sufficiente qualche intervento per democratizzare l’istituzione: occorre che i gruppi la analizzino criticamente e ne ribaltino la struttura, smettendo di esserne gestiti e passando alla autogestione. Una azione che, afferma, “sarà sempre, almeno in parte, allo stato di progetto, perché la rivoluzione non sarà mai definitivamente compiuta” (p. 67, citazione da Processo all’Università, del 1969). In questa proposta le istanze libertarie esistenti da tempo nella pedagogia europea e nordamericana, da Freinet a Rogers, da Neill a Illich, sono espresse con la piena consapevolezza del significato politico di una rivoluzione pedagogico-istituzionale, ed è qui la loro forza, ma anche la loro debolezza, nel momento in cui la società smarrisce lo slancio rivoluzionario.
Rileggere oggi Lapassade può sembrare impresa disperata, se si considera la spoliticizzazione attuale degli studenti, la loro scarsa propensione a discutere ruoli, poteri, dinamiche sociali, il ripiegamento sul privato; se si considera, ancora, il disorientamento degli stessi docenti, sempre più in difficoltà, anzi in imbarazzo in una istituzione che, non più attraversata da fremiti rivoluzionari, appare poco credibile anche come strumento della conservazione sociale. E’ invece un atto di speranza. E di ribellione. Attingendo a Lapassade a più in generale alla pedagogia istituzionale, scrive Gueli concludendo il suo libro, “si potrebbe forse trovare un terreno fertile per coltivare una nuova possibilità creativa e immaginifica, per elaborare modelli educativi resistenti a quelli del mercato, per immaginare i luoghi educativi come comunità dinamiche di ricerca e sperimentazione. Potrebbero forse così generarsi esplorazioni collettive generatrici di forme di educazione volte a costruire una rinnovata, benchè incompiuta, umanità” (p. 101). Resistenza è, qui, la parola chiave. Non è il tempo della rivoluzione, è il tempo della resistenza. E in campo educativo vuol dire non dimenticare che un’alternativa è possibile. Realizzabile? Si vedrà. Ma intanto importa sapere che è necessaria.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 28 settembre 2018.

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Georges Lapassade, ancora

Quando ho cominciato a insegnare, ormai vent'anni fa, non avevo molti libri nel mio bagaglio leggero di giovane docente. L'università mi aveva formato soprattutto sulla fenomenologia, l'ermeneutica e il personalismo, ma nessuna di queste teorie mi persuadeva. Presa la laurea, ho cominciato da zero o quasi il lavoro di farmi una cultura filosofica e pedagogica adeguata al mio sentire; un lavoro che non è ancora finito.
Tra i pochi libri che portavo idealmente con me, il giorno in cui per la prima volta ho messo piede in un'aula scolastica, c'era L'analisi istituzionale di Georges Lapassade. Avevo incontrato le idee e la prassi di Lapassade durante uno dei lavori tentati alla ricerca di una mia via: pedagogista in una cooperativa educativa. Una cooperativa che era seguita da Lapassade e ne adoperava il metodo dell'autogestione: ragazzini anche molto piccoli (di quelli che si definiscono difficili) erano chiamati alla gestione condivisa della comunità educativa. La prima volta che misi piede come docente in un'aula scolastica lo feci con quel modello educativo, e ben presto sperimentai quanto l'istituzione scolastica sia chiusa non tanto alla sperimentazione in sé, quanto a sperimentazioni che ne mettano in discussione realmente, e non solo retoricamente, i rapporti di potere.

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Quant'è falso (e pericoloso) Dio

Superati i settant’anni Sergio Givone, che conosciamo come uno dei massimi filosofi italiani, s’accorge d’aver sbagliato mestiere e ci consegna un’enciclica: Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018). Il titolo è azzeccato, e davvero rincresce che non sia venuto in mente a qualcuno degli ultimi papi, ai quali non si può rimproverare, tuttavia, di non aver pensato quello che si trova oltre il frontespizio. La tesi è semplice semplice, ed è tutta nel sottotitolo: non possiamo fare a meno della religione, perché se neghiamo Dio finiamo per negare anche l’uomo. Sì, Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso. Poiché centottanta pagine bisogna pur riempirle, Givone aggiunge Berdiaev, Pareyson. Agamben e perfino un po’ di Habermas. Fosse stato più audace, avrebbe aggiunto anche un Ferdinando Tartaglia, e il discorso forse sarebbe diventato più interessante. Così com’è, non è che una stanca, piatta, inutile variazione su uno dei temi più stantii della pubblicistica cattolica degli ultimi decenni.
Primo compito d’un filosofo dovrebbe essere il rigore: rigore nell’argomentazione, rigore nella definizione dei termini. Che cosa vuol dire che non possiamo fare a meno della religione? Noi chi? Noi esseri umani, noi europei? E cos’è la religione? E cos’è Dio? Quale Dio? Non uno di questi concetti è scontato. Esistono religioni senza Dio, come il buddhismo. Givone sostiene che dopo duemila e cinquecento anni i buddhisti non possono, ora, fare a meno di Dio? Ma lo stesso buddhismo è poi una religione? Il concetto indiano di dharma solo molto approssimativamente può essere ricondotto a quello occidentale di religione. Di cosa abbiamo allora bisogno?

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Quant'è falso (e pericoloso) Dio


Superati i settant'anni Sergio Givone, che conosciamo come uno dei massimi filosofi italiani, s'accorge d'aver sbagliato mestiere e ci consegna un'enciclica: Quant'è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018). Il titolo è azzeccato, e davvero rincresce che non sia venuto in mente a qualcuno degli ultimi papi, ai quali non si può rimproverare, tuttavia, di non aver pensato quello che si trova oltre il frontespizio. La tesi è semplice semplice, ed è tutta nel sottotitolo: non possiamo fare a meno della religione, perché se neghiamo Dio finiamo per negare anche l'uomo. Sì, Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso. Poiché centottanta pagine bisogna pur riempirle, Givone aggiunge Berdiaev, Pareyson. Agamben e perfino un po' di Habermas. Fosse stato più audace, avrebbe aggiunto anche un Ferdinando Tartaglia, e il discorso forse sarebbe diventato più interessante. Così com'è, non è che una stanca, piatta, inutile variazione su uno dei temi più stantii della pubblicistica cattolica degli ultimi decenni.
Primo compito d'un filosofo dovrebbe essere il rigore: rigore nell'argomentazione, rigore nella definizione dei termini. Che cosa vuol dire che non possiamo fare a meno della religione? Noi chi? Noi esseri umani, noi europei? E cos'è la religione? E cos'è Dio? Quale Dio? Non uno di questi concetti è scontato. Esistono religioni senza Dio, come il buddhismo. Givone sostiene che dopo duemila e cinquecento anni i buddhisti non possono, ora, fare a meno di Dio? Ma lo stesso buddhismo è poi una religione? Il concetto indiano di dharma solo molto approssimativamente può essere ricondotto a quello occidentale di religione. Di cosa abbiamo allora bisogno?

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Poesia della natura offesa

Seduto su un colle, il poeta si abbandona a considerazioni sull’infinito contemplando una siepe, oppure interroga la luna, che si staglia in un cielo intatto. Ma che accade se, dando uno sguardo alla siepe, vi trova impigliato un sacchetto di plastica, oppure al di là di essa scorge una discarica? Che accade se il suo solitario colloquio con la luna è disturbato dal passaggio di un volo di linea? Non ha che due possibilità. Può fingere di non vedere, rattristandosi magari per la sfortuna di essere nato in tempi in cui la pura contemplazione della natura e del paesaggio è contrastata da elementi cosi prosaici e antiestetici, oppure può fare poesia della siepe e del sacchetto di plastica, della luna e dell’aereo. E questo realismo poetico – perché dire il reale oggi significa dire la discarica non meno del bosco – può prendere provocatoriamente la direzione della ricerca di una nuova bellezza, che nasca dall’incontro della siepe con il sacchetto di plastica (si pensi alla scena del sacchetto di plastica, appunto, nel film American Beauty di Sam Mendes) oppure farsi strumento di denuncia e di cambiamento.
E’ quest’ultima la via della ecopoesia, nata sul finire del secolo scorso nel mondo anglosassone. Naturalmente non sono mancati, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, poeti in grado di interpretare la crisi ecologica: si pensi a Gary Snyder oppure all’ultimo Danilo Dolci e, in tempi più recenti, all’impegno di Marcia Theophilo per la difesa dell’Amazzonia, ma si è trattato della sensibilità di singoli, mentre l’ecopoesia intende essere un movimento poetico-politico-pedagogico con un suo preciso programma. Nel Manifesto dell’ecopoesia italiana, scritto nel 2005 dalla biologa Maria Ivana Trevisani Bach, l’ecopoeta appare come colui che “testimonia i diritti di quei viventi che non hanno diritti”. Si tratta naturalmente di qualcosa di più di una testimonianza: il passaggio dal non avere diritti all’averne avviene grazie al cambiamento nella sensibilità pubblica, ed è un cambiamento nel quale l’arte – la poesia, ma anche la pittura, la fotografia e il cinema – può avere un ruolo decisivo. Mentre la filosofia morale si sfinisce in discussioni teoriche – come dimostrare il valore di una vita animale? – la fotografia di un animale sottoposto a vivisezione può suscitare quel disgusto da cui parte il cambiamento. E lo stesso può dirsi per la poesia. Non è un caso che in passato, quando i mezzi tecnologici non consentivano di riprodurre la sofferenza animale, si ricorresse alla poesia ed all’arte come completamento della riflessione filosofica. Ne è un esempio The Cry of Nature di John Oswald, piccolo classico dell’etica del non umano  scritto da un pensatore vicino a Thomas Paine morto in Francia combattendo per gli ideali rivoluzionari, che nei momenti decisivi del suo discorso ricorre alla voce dei poeti – in particolare Le Stagioni di James Thomson – per suscitare emozione, oltre la riflessione.
C’è il rischio di intellettualismo, di fare della poesia a tema (qualcuno direbbe: ideologica), ma rettamente intesa l’ecopoesia non fa nulla di diverso dalla poesia tout court: fa attenzione. Fa attenzione agli esseri, alle cose; all’esteriorità, all’interiorità; ed al legame che unisce esseri e cose, esterno ed interno. Ciò che cambia è la direzione dello sguardo, la dimensione dell’attenzione. Nell’ecopoesia ciò che normalmente fa da sfondo passa in primo piano. Un esempio riuscito di questa disciplina dello sguardo è Intatto. Intact, di Massimo D’Arcangelo, Anne Elvey e Helen Moore (La Vita Felice, Milano 2017; prefazione di Serenella Iovino, cura e traduzione dall’inglese di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, traduzione dall’italiano di Todd Portnowitz). Gli autori provengono da mondi culturali diversi: pugliese d’origine, D’Arcangelo vive a Siena; poeticamente proviene dal Realismo Terminale di Guido Oldani, una delle correnti più innovative della poesia italiana contemporanea; Anne Elvey, australiana, oltre che di poesia si occupa della intersezione tra teologia, politica ed ambiente; Helen Moore, scozzese, è autrice di Ecozoa, uno dei testi fondamentali dell’ecopoesia, espressione poetica della ricerca di un’Era Ecozoica come alternativa all’Antropocene, un nuovo equilibrio tra comunità umana e mondo naturale. Il loro sguardo, lo sguardo dell’ecopoesia, si posa su ciò da cui il nostro sguardo è costantemente distratto: il rifiuto, lo scarto, il residuo, “il lato oscuro del progresso” (D’Arcangelo), ma anche la sofferenza animale, il camion carico di animali da condurre al macello (“Pigiati / insieme e ammassati, i manti delle pecore / erano intrisi di benzina”: Anne Elvey; “[…] il ventre della bestia squartato / mentre gli zoccoli possenti, amputati, suoneranno sordi / sulle mattonelle del macello in un oceano miasmatico di sangue / in u tumulto crepitante di bava bianca ondeggiante”: Massimo D’Arcangelo). Oppure i fiori che spuntano ai margini della strada presso una piazzola di sosta, la celidonia, le campanule, le stellarie assediate mozziconi di sigaretta e bicchieri di plastica, ritratti con sensibilità competente da Helen Moore in Sonnet of the Verge (Sonetto al margine). O ancora il fior di vespa minacciato dal trattore: “Come possono queste creature sviluppare / un mimetismo così ingegnoso / e apparire tuttavia ignare / della nemesi che incombe?” (Helen Moore). Ma è anche poesia della stessa sofferenza umana, perché (scrive Elvey): “C’è a malapena un grado di separazione / quando la lama penetra, quando il mortaio / azzanna”.
E’ una poesia dei margini, non della natura venduta dalle agenzie di viaggi, ma di quella che ci passa accanto ogni giorno, la natura che resiste accanto all’umano, o che quotidianamente soccombe. E’ una poesia che ci pone una domanda nuova: cos’è il non umano? Cos’è l’animale? Cos’è la pianta? E’ solo il non, il negativo che si contrappone al positivo dell’umano? Ha qualche valore? “Né persone né cose” è il titolo di una poesia di Anne Helvey. Persona è un concetto chiave di una corrente della filosofia contemporanea. Una filosofia che afferma la dignità dell’essere umano, l’unico che possa considerarsi, appunto, persona, un essere in dialogo con Dio. Non essendo persone, gli esseri non umani finiscono inevitabilmente per diventare cose: strumenti, oggetti, cibo, quando non ornamento. Siamo pienamente consapevoli di quanto questa visione del mondo sia portatrice di morte non solo per la vita non umana, poiché la riduzione a cosa (la considerazione del mondo come un esso e non come un tu, per dirla con Martin Buber) finisce presto per colpire lo stesso essere umano, condotto al macello non meno dell’animale se è un nemico, reso strumento docile di sfruttamento intensivo se è un lavoratore, risorsa umana. Occorre, e la filosofia lo sa da tempo (perfino la teologia cerca di aggiornarsi), un nuovo sguardo, che tuttavia fa fatica ad affermarsi contro la ripetizione ossessiva e mediatica l’imperativo della società dei consumi: usare il mondo.  Questa poesia “solidale con il mondo” (così Serenella Iovino nella bella prefazione), in dialogo con altre forme artistiche (l’incrocio e la reciproca fecondazione dei linguaggi è una caratteristica del movimento ecopoetico) e con la stessa filosofia può tentare ciò che sembra impossibile: il balzo oltre la sindrome ossessivo-compulsiva del dominio-consumo.
Nell’immagine: Meggs & Phibs, Message in a Bottle. Murale realizzato a Napier (Nuova Zelanda) per sensibilizzare sul tema rispetto dell’ecosistema. Fonte: https://art-facto.today/eng-pangeaseeds-sea-walls/
Gli Stati Generali, 2 settembre 2018.

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La caccia è un pericolo per tutti

Non sapevo che fosse cominciata la stagione della caccia. Me lo hanno annunciato, questa mattina alle sette, le fucilate intorno a casa. Abito in una delle ultime case di un borgo sui colli senesi, in una via che si inoltra nella campagna, che la gente del luogo chiama “strada dei caprioli”: non è infrequente che un capriolo ti attraversi la strada. Quando vi portavo la mia cagna bisognava fare attenzione, perché l’istinto la portava ad inseguirli ed a perdersi con loro nei campi. La mia cagna, che non c’è più da quasi un anno, era una meticcia che aveva molto del segugio. Era stata abbandonata da un cacciatore perché poco abile. Il giorno prima che morisse le abbiamo fatto dei raggi: aveva – chissà da quanto – dei pallini nella gola, residuo di una fucilata.
Nel pomeriggio c’è stato un acquazzone, ora è tornato il sole. E sono tornate le fucilate.
Mentre loro sparano, io rifletto un po’. Lascio da parte ogni considerazione sugli animali. Credo che gli animali abbiano diritto alla vita, e che ucciderli per divertimento sia un atroce insulto alla vita, ma non è di questo che voglio parlare ora. Mi interrogo sul rischio che la caccia rappresenta per le persone e sulle contraddizioni singolari di questo paese. Non è difficile trovare dati sulla pericolosità della caccia. L’ultima stagione venatoria ha fatto 84 feriti e 30 morti. Dei morti, dieci erano persone estranee alla caccia. Dieci persone che hanno perso la vita perché altre persone volevano divertirsi andando in giro a sparare. Tra i morti c’è anche un minore. Ed è il dato sui minori il più agghiacciante: tra il 2007 e il 20015 sono stati uccisi dai cacciatori undici minori. Undici. Undici vite di bambini e adolescenti stroncate.

Dicevo delle contraddizioni. Viviamo in un paese ossessionato dalla sicurezza. Un paese in cui, nonostante tutti i dati dicano che da molto tempo ormai i reati più gravi, a partire dagli omicidi, sono in calo verticale, la gente ha una paura terribile. Una paura che esige poliziotti di quartiere, videocamere, uno spazio pubblico sempre più blindato, fogli di via sempre più facili per chiunque sia percepito come un pericolo, con il rischio sempre maggiore di violazioni. Una paura su cui si costruisce il successo politico. Ma come si spiega che gli stessi politici che alimentano l’ossessione per la sicurezza siano favorevoli alla caccia? Poco più di un mese fa Salvini ha difeso a spada tratta i cacciatori: “Giù le mani dalle nostre tradizioni, dalla nostra storia dalla nostra cultura. Se non ci fossero nei nostri boschi coloro che i nostri animali li amano e li curano sarebbero problemi per tutti”. E’ un esempio particolarmente efficace di quella offesa aperta, sfacciata alla verità che è propria del linguaggio dei regimi totalitari: chi insegue, stana ed uccide degli animali diventa uno che gli animali li ama e li cura. Ma, ripeto, qui non voglio parlare di animali. Mi interessano le vittime umane. Mi interessano le decine di bambini e ragazzi uccisi dai cacciatori. Mi interessa sapere che, quando avrò un figlio, tra quelle vittime potrebbe esserci anche lui. Tradizioni, storia, cultura? La caccia? Qualcuno dovrebbe informare Salvini che l’umanità è uscita dalla fase di caccia e raccolta da qualche millennio, e che legare la cultura italiana alla caccia è una delle offese più grandi che si possa fare a un paese che ha espresso ben altro, sul piano culturale. Ma soprattutto dovrebbe chiedergli quale risposta dà, “da ministro e da padre”, a chi per quella tradizione e cultura (più probabilmente: per qui volgarissimi interessi) ha perso un figlio.

Gli Stati Generali, 1 settembre 2018.

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Cosa dovrebbe dire un ministro dell'istruzione (e cosa non dirà)

Credevamo che, per qualche accordo interno al governo, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti avesse delegato (non diversamente dal premier Conte) le sue funzioni al ministro dell’Interno, dal quale sono venute, negli ultimi tempi, precise e preziose indicazioni pedagogiche, che vanno dal prendere a sberle i ragazzi al mandarli in caserma per farsi educare dai soldati. Ci sbagliavamo, perché Bussetti qualche idea l’ha. E la comunica al Corriere della Sera. Ecco: “Dobbiamo cambiare impostazione della didattica; usare le nuove tecnologie, insegnare a relazionarsi con i social media, valorizzare il public speaking e il debate, puntare sulle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Il tablet sarà il nuovo quaderno tra pochi anni, possiamo usare meglio investimenti fatti.”

Prima di diventare ministro Bussetti è stato insegnante, e questo è un buon segno, perché con l’aria che tira rischiavamo di trovarci come ministro un generale, ma viene da chiedersi in quale scuola abbia insegnato. Perché un discorso sulle nuove tecnologie forse poteva essere una proposta sensata cinque anni fa: oggi dà l’impressione di una assoluta cecità alla realtà scolastica. Sulle nuove tecnologia c’è stato sui docenti un martellamento prossimo all’indottrinamento, in particolare nell’era renziana, che qualche effetto l’ha ottenuto. LIM, tablet, cellulari, piattaforme di social classroom sono strumenti quotidiani del nostro lavoro. Ci hanno detto che questo avrebbe cambiato radicalmente la scuola. Oggi sappiamo che non è vero, o è vero solo in parte. Non c’è nessuna reale rottura, nessun cambiamento strutturale, nessun miglioramento negli apprendimenti. Non è quella tecnologica, la rivoluzione che la scuola attende.
C’è un grave errore di valutazione nel ritenere che sia rivoluzionario togliere il quaderno e dare un tablet a studenti che già si relazionano con lo schermo per il resto della loro giornata. E’, se non altro, una diminuzione di esperienza, una riduzione sensoriale, e la scuola dovrebbe moltiplicare le esperienze, non ridurle. Lo dico senza alcun astio anti-tecnologico. Con il computer, il tablet e il cellulare si possono fare in classe molte cose interessanti. Perfino divertenti. Quando invito gli studenti a una partita su Kahoot!, è difficile farli smettere. E spesso vengono a protestare dalla classe vicina, perché il loro divertimento è rumoroso. Ma ci sono altri momenti in cui stiamo bene in classe. Sono le ore che passiamo a discutere seduti in cerchio. Uno fa una domanda, gli altri riflettono e poi provano a rispondere. Poi intervengono gli altri, le idee si raffinano, si intreccia il dialogo. Si giunge a una conclusione o si constata la divergenza. Si rimanda ad una discussione successiva: il dialogo continua. Non sono momenti divertenti, a volte ci può essere anche tensione. Ma sono momenti intensi. Momenti in cui il sapere si fa riflessione, decisione, confronto. E in cui si impara una cosa essenziale per la nostra democrazia: riconoscere l’altro, saper stare in una situazione dialogica. Una cosa che ha poco a che fare con la tecnologia, pochissimo con gli investimenti: basta mettersi in cerchio e parlare. Una rivoluzione dialogica della scuola a costo zero.
Non manca, Bussetti, di richiamare due metodologie che hanno a che fare con la parola: il Debate e il Public Speaking. Il debate consiste nel dividere la classe in due fazioni e farla discutere su uno dei temi che dividono. Vince chi è più bravo. Il public speaking è saper parlare in pubblico. Due metodologie che seguono una logica attivo/passivo, vincente/perdente. Non sorprende che abbiano successo, mentre la Maieutica Reciproca (la metodologia dialogica di cui ho accennato) resta quasi sconosciuta nel paese in cui è nata (e del resto il fatto che sia italiana è un punto a suo sfavore: vuoi togliere ad un ministro o a un dirigente scolastico il piacere di riempirsi la bocca con parole inglesi?).
Mi chiedo che succederebbe se un ministro dell’Interno cominciasse il suo mandato dicendo che occorre che i poliziotti la finiscano di fare i poliziotti come hanno sempre fatto, che si diano una mossa e imparino un po’ come si fa il loro mestiere, magari grazie a qualche nuova tecnologia. Mi chiedo che succederebbe se lo dicesse ai medici un ministro della Salute. E’ normale invece che lo dica un ministro dell’Istruzione. Da molti anni, ormai, i ministri dell’istruzione non fanno che dire questo. Qualsiasi discorso sulla scuola parte da una premessa: i docenti italiani non sanno fare il loro lavoro. E questa narrazione, diffusa nella società, ha una parte tutt’altro che secondaria nei problemi della scuola.
Sogno il giorno in cui un ministro dell’Istruzione, appena insediatosi, dichiari: “Ho fiducia nei docenti italiani, so che sanno fare il loro lavoro. Girerò le scuole italiane per ascoltarli ed imparare da loro e inseme a loro”. Questo, forse, cambierebbe radicalmente la scuola.
Gli Stati Generali, 31 agosto 2018.

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Poesia della natura offesa


Seduto su un colle, il poeta si abbandona a considerazioni sull'infinito contemplando una siepe, oppure interroga la luna, che si staglia in un cielo intatto. Ma che accade se, dando uno sguardo alla siepe, vi trova impigliato un sacchetto di plastica, oppure al di là di essa scorge una discarica? Che accade se il suo solitario colloquio con la luna è disturbato dal passaggio di un volo di linea? Non ha che due possibilità. Può fingere di non vedere, rattristandosi magari per la sfortuna di essere nato in tempi in cui la pura contemplazione della natura e del paesaggio è contrastata da elementi cosi prosaici e antiestetici, oppure può fare poesia della siepe e del sacchetto di plastica, della luna e dell'aereo. E questo realismo poetico - perché dire il reale oggi significa dire la discarica non meno del bosco - può prendere provocatoriamente la direzione della ricerca di una nuova bellezza, che nasca dall'incontro della siepe con il sacchetto di plastica (si pensi alla scena del sacchetto di plastica, appunto, nel film American Beauty di Sam Mendes) oppure farsi strumento di denuncia e di cambiamento.

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La caccia è un pericolo per tutti

Non sapevo che fosse cominciata la stagione della caccia. Me lo hanno annunciato, questa mattina alle sette, le fucilate intorno a casa. Abito in una delle ultime case di un borgo sui colli senesi, in una via che si inoltra nella campagna, che la gente del luogo chiama "strada dei caprioli": non è infrequente che un capriolo ti attraversi la strada. Quando vi portavo la mia cagna bisognava fare attenzione, perché l'istinto la portava ad inseguirli ed a perdersi con loro nei campi. La mia cagna, che non c'è più da quasi un anno, era una meticcia che aveva molto del segugio. Era stata abbandonata da un cacciatore perché poco abile. Il giorno prima che morisse le abbiamo fatto dei raggi: aveva - chissà da quanto - dei pallini nella gola, residuo di una fucilata.
Nel pomeriggio c'è stato un acquazzone, ora è tornato il sole. E sono tornate le fucilate.
Mentre loro sparano, io rifletto un po'. Lascio da parte ogni considerazione sugli animali. Credo che gli animali abbiano diritto alla vita, e che ucciderli per divertimento sia un atroce insulto alla vita, ma non è di questo che voglio parlare ora. Mi interrogo sul rischio che la caccia rappresenta per le persone e sulle contraddizioni singolari di questo paese. Non è difficile trovare dati sulla pericolosità della caccia. L'ultima stagione venatoria ha fatto 84 feriti e 30 morti. Dei morti, dieci erano persone estranee alla caccia. Dieci persone che hanno perso la vita perché altre persone volevano divertirsi andando in giro a sparare. Tra i morti c'è anche un minore. Ed è il dato sui minori il più agghiacciante: tra il 2007 e il 20015 sono stati uccisi dai cacciatori undici minori. Undici. Undici vite di bambini e adolescenti stroncate.

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Cosa dovrebbe dire un ministro dell'istruzione (e cosa non dirà)

Credevamo che, per qualche accordo interno al governo, il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti avesse delegato (non diversamente dal premier Conte) le sue funzioni al ministro dell'Interno, dal quale sono venute, negli ultimi tempi, precise e preziose indicazioni pedagogiche, che vanno dal prendere a sberle i ragazzi al mandarli in caserma per farsi educare dai soldati. Ci sbagliavamo, perché Bussetti qualche idea l'ha. E la comunica al Corriere della Sera. Ecco: "Dobbiamo cambiare impostazione della didattica; usare le nuove tecnologie, insegnare a relazionarsi con i social media, valorizzare il public speaking e il debate, puntare sulle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Il tablet sarà il nuovo quaderno tra pochi anni, possiamo usare meglio investimenti fatti."

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