Gli altri comandamenti
Scrive sul suo profilo Facebook il teologo Vito Mancuso: "Benigni sui Dieci comandamenti. Ho spento la tv. Predicatorio, scontato, non fa né ridere né pensare. Mi spiace."
A differenza di Mancuso, non ho spento la tv dopo aver constatato che Benigni che parla di dieci comandamenti non fa né ridere né pensare: ho semplicemente evitato di accenderla. Perché non mi piacciono i telepredicatori, anche quando intendono proporsi come la versione riveduta, corretta ed aggiornata del caro vecchio maestro Manzi.
Sono sicuro che più di qualcuno, in seguito alla suggestione dello spettacolo di Benigni, si sarà deciso ad aprire la Bibbia: e questa è senz'altro una buona cosa. Il problema, però, è che la Bibbia, quando ti decidi a leggerla, appare tutt'altra cosa rispetto a quello che credi che debba essere. Da un libro sacro ti aspetti che sia edificante, che dica parole di verità, che possa farti da guida. Ora, nel caso della Bibbia, tolti pochi libri, di edificante c'è ben poco.
Prendiamo questi dieci comandamenti. In realtà, nella Bibbia non esistono. Nella Bibbia c'è un corpus di comandamenti, dai quali la Chiesa ha estratto in modo arbitrario quelli che chiama dieci comandamenti. Interpretandoli, peraltro, a modo suo. Fingendo di non vedere, ad esempio, il comandamento "Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra" (Esodo 20, 4), in base al quale dovrebbero scomparire dalle chiese tutte le statue di madonne e santi (e in qualche chiesa non manca la statua del Padreterno). O reinterpretando il comandamento di " Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo" come un più generico "non mentire", che è un'altra cosa. O ancora spezzando in due il comandamento che dice
Soprattutto, ciò di cui il nuovo lettore della Bibbia potrà accorgersi, se avrà la pazienza di leggere al di là dei percorsi già segnati, è che i cosiddetti dieci comandamenti fanno corpo con prescrizioni che oggi non possiamo che considerare inaccettabili. Nel capitolo 21 dell'Esodo, ossia quello immediatamente successivo a quello che contiene i cosiddetti dieci comandamenti, ci sono le norme da seguire se si intende vendere la propria figlia come schiava. In quello successivo ancora si legge che bisognerà ammazzare tutti quelli che avranno un culto diverso, o le donne che praticano la magia, o i figli che maledicono i genitori. Il Levitico aggiunge altri orrori: saranno messi a morte gli adulteri (20, 10), gli omosessuali (20, 13), i bestemmiatori (24, 16) e tutti coloro che saranno destinati ai sacrifici umani in onore del Signore (27, 29).
"Credo non ci sia storia più bella, il racconto dell'Esodo è un esempio rivoluzionario, è d'ispirazione per qualsiasi moto di libertà", ha detto Benigni durante il suo spettacolo. Passata la suggestione televisiva, spero che il nuovo lettore della Bibbia si accorga che la storia biblica (Esodo compreso) è, invece, una storia orribile. La storia di un popolo che, convinto di avere un mandato divino, invade il territorio di altri popoli e li stermina senza pietà, massacrando anche donne e bambini (secondo le precise di Mosè, che oggi sarebbe considerato un criminale di guerra).
Nell'immagine: Marc Chagall, Mosè riceve le tavole della legge (particolare).
Non desiderare la casa del tuo prossimo.Un comandamento che considera la donna alla stessa stregua degli animali e delle cose, quali proprietà del maschio padrone. "Non commettere atti impuri" ha rovinato la vita a milioni di adolescenti, al punto tale che "atti impuri" è diventato sinonimo di masturbazione, mentre nella Bibbia indica tutt'altro: qualsiasi atto compiuto non rispettando le leggi divine riguardanti la purezza- Ad esempio, è un atto impuro, secondo la Bibbia, sedersi su una sedia su cui si sia seduta una donna con le mestruazioni.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo. (Esodo 20, 17)
Soprattutto, ciò di cui il nuovo lettore della Bibbia potrà accorgersi, se avrà la pazienza di leggere al di là dei percorsi già segnati, è che i cosiddetti dieci comandamenti fanno corpo con prescrizioni che oggi non possiamo che considerare inaccettabili. Nel capitolo 21 dell'Esodo, ossia quello immediatamente successivo a quello che contiene i cosiddetti dieci comandamenti, ci sono le norme da seguire se si intende vendere la propria figlia come schiava. In quello successivo ancora si legge che bisognerà ammazzare tutti quelli che avranno un culto diverso, o le donne che praticano la magia, o i figli che maledicono i genitori. Il Levitico aggiunge altri orrori: saranno messi a morte gli adulteri (20, 10), gli omosessuali (20, 13), i bestemmiatori (24, 16) e tutti coloro che saranno destinati ai sacrifici umani in onore del Signore (27, 29).
"Credo non ci sia storia più bella, il racconto dell'Esodo è un esempio rivoluzionario, è d'ispirazione per qualsiasi moto di libertà", ha detto Benigni durante il suo spettacolo. Passata la suggestione televisiva, spero che il nuovo lettore della Bibbia si accorga che la storia biblica (Esodo compreso) è, invece, una storia orribile. La storia di un popolo che, convinto di avere un mandato divino, invade il territorio di altri popoli e li stermina senza pietà, massacrando anche donne e bambini (secondo le precise di Mosè, che oggi sarebbe considerato un criminale di guerra).
Nell'immagine: Marc Chagall, Mosè riceve le tavole della legge (particolare).
Una teoria
Žižek e il buddhismo
Slavoj Žižek |
Nel suo ultimo libro tradotto in italiano, Evento (Utet, Torino 2014), Slavoj Žižek ripropone la tesi, già presentata in Credere (Meltemi, Roma 2005) del Buddhismo come "perfetto supplemento ideologico del capitalismo" (p. 75). Il mondo, spiega, va troppo veloce, ed è difficile tenersi al passo. "Il ricorso al Taoismo o al Buddismo offre una via d'uscita da questa difficile situazione, più efficace di un disperato rifugiarsi nelle vecchie tradizioni: anziché cercare di fronteggiare il ritmo accelerato del progresso tecnologico e dei mutamenti sociali, si dovrebbe piuttosto rinunciare allo sforzo di mantenere il controllo su ciò che accade, rigettandolo come espressione della moderna logica di dominazione" (ibidem). La meditazione buddhista è il modo migliore per vivere nel mondo capitalistico salvaguardando la salute mentale (ivi, p. 76).
Ora, chiunque conosca un po' il pensiero buddhista, sa che più che di buddhismo occorre parlare di buddhismi - esattamente come, parlando di cristianesimo, occorre distinguere non solo il cattolicesimo dal protestantesimo o dai Testimoni di Geova, ma anche Tommaso d'Aquino da Eckhart, Müntzer da Calvino. Žižek invece non solo ignora la complessità del pensiero e delle scuole buddhiste, ma addirittura considera equivalenti buddhismo e taoismo, evidentemente accomunati dall'essere tradizioni orientali.
Una approssimazione non minore, nel ragionamento di Žižek, riguarda il capitalismo. Cos'è il capitalismo? Si può ricondurre davvero ai mutamenti tecnologici ed al mutamento sociale? Non c'è altro? La base del capitalismo è il consumismo. Il sistema capitalistico si regge sull'acquisto di beni di consumo. L'acquisto si basa a sua volta sul desiderio. Una società capitalistica è una società nella quale le persone desiderano beni di consumo e li acquistano. Senza questi soggetti desideranti, il capitalismo crollerebbe.
Come è noto, il buddhismo parte da una diagnosi della condizione umana, considerata piena di sofferenza e di disagio (dukkha). Questo disagio, nell'analisi del Buddha, nasce esattamente dal desiderio. La liberazione dalla sofferenza è possibile solo se ci si libera dal desiderio, incluso il desiderio stesso di ottenere il nirvana. Il soggetto buddhista è un soggetto non desiderante, e come tale poco utile al sistema capitalistico.
Affermare, come fa Žižek, che l'illuminazione buddhista è "il completo distacco interiore dalla realtà materiale" (p. 74) - per cui l'atto sessuale di un "illuminato" non sarebbe troppo diverso dall'osservare l'amplesso tra due sex toys - significa avere una percezione molto approssimativa di quella pratica centrale nel buddhismo che è la meditazione. Che non consiste nel distacco dal mondo materiale, ma al contrario proprio nel contatto costante con sé stessi ed il mondo. La meditazione vipassana si propone di condurre alla costanza presenza mentale: qualunque cosa faccia, un buddhista dev'essere pienamente presente, ed a questo lo abitua la meditazione.
Žižek continua notando la convergenza tra la dottrina buddhista del non-sé ed i risultati delle neuroscienze, che "ci stanno dicendo che la nozione di 'Sé' come soggetto libero e autonomo è una mera illusione di prospettiva" (p. 76). E' vero, ed è la dimostrazione che, per quanto sia anch'esso pieno di superstizioni (o cose che appaiono tali ad uno sguardo superficiale), il buddhismo resta la religione che meglio si accorda con la scienza. Ma per Žižek la rinunzia ad un sé "libero e responsabile" (p. 84) è impossibile, e costringe il buddhismo ad una serie di vicoli ciechi. Il nirvana cambia solo il nostro atteggiamento verso la realtà, o cerca di trasformare la realtà in modo che gli esseri siano davvero felici? Come si conciliano la concezione del non-sé e l'azione etica in favore dell'altro? Se l'altro è un non-sé, perché provare compassione verso di lui? Come distinguere l'illuminazione raggiunta attraverso la meditazione dalla felicità raggiunta attraverso "pillole magiche (che si tratti di false credenze o di surrogati chimici)" (p. 83)?
Il primo apparente vicolo cieco nasce dall'ignoranza dei rapporti che, nel buddhismo, esistono tra processi mentali e realtà fenomenica. Secondo la dottrina della genesi interdipendente (o coproduzione condizionata), la sofferenza, la vecchiaia e la morte sono gli ultimi anelli di una catena che si origina dall'ignoranza (avidya), ossia da un'errata percezione della realtà. Superare l'ignoranza, vedere la realtà per quello che è, significa dunque cambiare la realtà stessa. E' per questo che i buddhisti, dopo aver meditato, esprimono l'augurio che la loro pratica possa contribuire al risveglio ed alla liberazione dalla sofferenza di tutti gli esseri viventi. Il buddhismo cerca dunque di cambiare effettivamente il mondo affinché tutti gli esseri siano felici; per usare un'espressione di Shantideva (Bodhicaryavatara, III, 32), esso imbandisce "il banchetto della felicità, che sazia tutti coloro che vi convengono" (trad. Claudio Cicuzza).
L'altra questione è più complessa. Perché agire in favore di un essere vivente, se la sua esistenza è vuota? Dal punto di vista della vacuità, il dolore non esiste, perché non esiste il soggetto sofferente. Perché allora dovremmo provare compassione? Per rispondere bisogna considerare la distinzione, che Žižek sembra ignorare, tra verità assoluta e verità relativa, propria del buddhismo mahayana. Il punto di vista assoluto è quello della vacuità: e da questo punto di vista nulla esiste di sostanziale. Con il linguaggio della scienza contemporanea potremmo dire che, da un punto di vista assoluto, nessuna delle forme che osserviamo quotidianamente esiste. Non esistono i corpi, ma un fluttuare di atomi e di particelle subatomiche. E tuttavia noi viviamo in un mondo fatto di corpi. Se confondessimo i due piani, e pretendessimo di muoverci nel mondo come se i corpi non esistessero, la vita diventerebbe molto difficile. Sul piano della verità relativa i corpi esistono, e bisogna tenerne conto. E lo stesso vale per la sofferenza. Il Dhammapada, il testo fondamentale dell'etica buddhista, dice che non bisogna uccidere nessun essere vivente perché ognuno di essi, come noi, ha paura della sofferenza e della morte. "Tutti temono il bastone / tutti sono atterriti dalla morte. / Considerando gli altri come se stesso, / un uomo non dovrà né uccidere né far uccidere" (Dhammapada, X, 1; trad. Claudio Cicuzza). Un'etica altissima, che fonda il rispetto dell'altro (e qui si tratta non dell'altro umano, ma di qualsiasi essere vivente) sulla reciprocità. Ma il presupposto di questo discorso è che, appunto, esiste l'altro, che è come me, che cerca la felicità ed incontra la sofferenza.
La vacuità, afferma Nagarjuna, uno dei più grandi pensatori del buddhismo mahayana, è come un serpente: se lo si afferra male, uccide. Commentando queste parole, Candrakirti spiega che chi conosce realmente la vacuità evita i due errori di sostanziarla, ossia di concepire la vacuità come un essere, e di rifiutare la verità relativa del mondo, passando dal percepire l'esistenza del mondo (posizione dell'uomo comune) al percepirne l'inesistenza. "Non rifiutando poi la verità relativa del mondo - paragonabile a un'immagine riflessa - non rifiuta nemmeno l'atto e il suo frutto, il bene e il male morali ecc." (Prasannapada, XXIV, 11, trad. Raniero Gnoli).
Quello che si perde è il valore metafisico dell'etica. Il pensiero occidentale ha tentato per secoli di fondare metafisicamente l'etica: di dimostrare, cioè, che la nostra azione morale ha profonde rispondenze nel seno dell'universo; che chi fa il bene si ricongiunge, con il suo atto, all'origine stessa del mondo. Questo tentativo è entrato in crisi nel pensiero post-hegeliano. A credere che al fondo dell'essere ci sia il Bene sono ormai solo i credenti, e con difficoltà sempre maggiori. Per il buddhismo, l'essere è vuoto: e sul vuoto è difficile costruire un'etica.
In filosofia morale possiamo distinguere due questioni: quella della determinazione del bene morale e quella della giustificazione del bene morale. Il primo problema consiste nel capire cosa è bene e cosa è male. Nel caso del buddhismo, il bene è rispettare ogni forma di vita, evitando di compiere violenza nei suoi confronti. E' l'etica dell'amore universale (metta). Ma perché rispettare ogni forma di vita? Come abbiamo visto, il Dhammapada risponde che occorre farlo perché ogni essere vivente, come noi, cerca la felicità. Ma questo è il punto di vista relativo. Dal punto di vista assoluto, non ci sono né io, come cercatore di felicità, né quell'essere. L'etica ha dunque un valore relativo; al tempo stesso, però, essa è una via che conduce verso la visione della vacuità. Nella interpretazione buddhista, che mi sembra vera, il male nasce dall'io. E' l'ego che, guidato dal proprio istinto di autoconservazione, sottomette a sé ogni alterità e ne fa un semplice strumento. Del resto, dopo Nietzsche e Freud lo stesso pensiero occidentale non nutre molta fiducia nei confronti del soggetto. Il soggetto "libero e responsabile" di Žižek è invece pronto a qualsiasi crudeltà pur di affermare sé stesso. Quando compie il bene, è perché un soggetto più grande di lui - Dio o lo Stato o il Padre - lo costringe.
Nell'ottica buddhista, il bene nasce quando l'ego molla la presa. Man mano che esso si fa evanescente, viene superata anche la radice del male. Il bene non ha alcuna sostanzialità, non si sottrae al vuoto, come tutto il resto; di per sé, è un concetto come gli altri, mentre la conoscenza assoluta è al di là di ogni distinzione concettuale. Nella realtà relativa in cui gli esseri soffrono, riconoscere e rispettare la loro sofferenza vuol dire fare un passo oltre l'ego, ossia oltre la realtà relativa stessa. L'etica è quella pratica che, ancorata nel relativo, ci conduce oltre la verità relativa nella quale tutto sembra assoluta, verso quella verità assoluta nella quale tutto è relativo.
L'ultima questione che inquieta Žižek è, dal punto di vista buddhista, un falso problema. Come distinguere l'illuminazione autentica da un'illuminazione provocata da false credenze o sostanze chimiche?, chiede. In realtà, il buddhismo stesso fa ricorso a "false credenze", o a qualcosa di molto simile. Nella terminologia buddhista si chiamano upaya, "mezzi abili". Nel Sutra del loto la loro funzione viene spiegata con l'apologo del padre di famiglia che convince i figli ad abbandonare la loro casa in fiamme dicendo loro che fuori dalla casa li aspettano dei giochi bellissimi. Se venisse inventata una pillola che conduce rapidamente all'illuminazione, essa potrebbe rientrare senz'altro in questi "mezzi abili".
17 ottobre, venerdì
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un'ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c'è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l'ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.
Dodici tesi per una scuola conviviale
Vorrei dare il mio contributo alla discussione sulla possibilità di una scuola diversa, avviata da Paolo Mottana (25 idee per una scuola diversa), presentando dodici tesi che costituiscono il nucleo di un libro che sto scrivendo, ed il cui titolo sarà La scuola conviviale. L’aggettivo conviviale fa riferimento da un lato al Convivio platonico e dall’altro alla convivialità di Ivan Illich (La convivialità). Si tratta, in breve, di ripensare la scuola – la scuola pubblica - mettendo al centro due cose: le relazioni, che devono essere aperte, simmetriche, dialogiche, ed il rapporto tra scuola e mondo economico-sociale, che non deve essere di riproduzione, ma di ripensamento critico, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di realizzazione umane.
Sarò grato a chi vorrà discutere le tesi.
Prima tesi
La scuola conviviale è fondata sul dialogo non solo tra studenti e docenti, ma degli studenti tra loro. Studenti e docenti costituiscono una comunità che apprende, studia, ricerca e cresce insieme.
Sul terrore di Dio
Impacchettando i libri per il trasloco, vien fuori una vecchia edizione Newton Compton della Nascita della tragedia di Nietzsche, ormai rovinata dall'umidità. Nell'antiporta la mia firma, ancora con le maiuscole (dall'età di diciassette anni firmo con le iniziali minuscole) e la data: 1988. Sedici anni.
Nell'ultima pagina trovo una annotazione sicuramente posteriore, che per quello che riesco a ricordare rientra nel progetto post-adolescenziale di un libro che doveva intitolarsi Sul terrore di Dio. Eccola.
Più profondo d'ogni rito e d'ogni preghiera, più prossimo all'essenza del reale d'ogni contemplazione, è quello sguardo sconsolato sul maestoso dolore degli enti che si concreta nel presentimento d'un Dio capriccioso e terribile. Io non sono, qui, il padrone dell'Essere; io non sono che un ospite, uno che deve prendere congedo; mi fanno compagnia il dolore e la gioia, la fuga e la mancanza: così parla l'uomo che vive e soffre in sé quel momento originario della religione che chiamo "terrore di Dio". L'uomo religioso è l'antitesi dell'uomo dell'età della tecnica: se quest'ultimo pensa alla realtà come producibilità, fa dipendere da sé la natura e le cose, orgoglioso della sua capacità di dare ordine a tutto, l'altro, il sofferente Giobbe, conosce i propri limiti, osserva lo scorrere degli eventi con calma e rassegnazione, conosce il Dio che non domina e travaglia.
Israele nel deserto
Con ogni probabilità, il passo più terribile della Bibbia - una raccolta di testi in cui non mancano i passi terribili: violenti, atroci, osceni - è quello del libro dei Numeri (in ebraico Be-Midbar, "Nel deserto") in cui Mosè comanda di sterminare donne e bambini. Consideriamo il contesto. Il popolo del Signore è accampato nel deserto, in una località chiamata Sittim. Qui gli ebrei si mettono a "trescare con le figlie di Moab", partecipando ai loro sacrifici religiosi ed adorando i loro dèi. Il Signore si arrabbia ed ordina a Mosè di far impiccare tutti i capi del popolo, per placare la sua ira. E' singolare che i cristiani, che lamentano (ed a ragione) le persecuzioni cui in diverse parti del mondo sono sottoposti coloro che si convertono al cristianesimo, ritengano sacro un libro in cui si parla di impiccare chi pratica la libertà religiosa - perché di questo si tratta. Ma procediamo. Un certo Fineas, sommo sacerdote, scopre che un ebreo ha portato nella sua tenda una moabita, e non ci pensa due volte: prende una lancia e li uccide. Il Signore è talmente contento per il suo gesto - l'assassinio di due innocenti - che fa cessare la sua ira su Israele. Non prima, però, di aver massacrato 24.000 persone (Numeri, 25, 1-9). L'edizione che sto citando, quella curata da Bernardo Boschi per le Edizioni Paoline, spiega in nota che questo Fineas "testimonia la radicale ed esemplare fedeltà della sua classe allo Jahvismo nello spirito della Tradizione Sacerdotale". Un gran brav'uomo, insomma.
La storia non finisce qui. Gli ebrei hanno tradito Dio, e la carneficina non è sufficiente. Occorre la vendetta. Di cosa siano colpevoli i poveri moabiti non è ben chiaro: usando lo stesso criterio, oggi, i seguaci di qualsiasi religione si potrebbero ritenere in diritto di muover guerra e massacrare chiunque faccia proselitismo presso di loro, a cominciare dai cristiani. Mosè manda contro i madianiti un esercito di dodicimila uomini, che massacrano tutti i maschi, incendiano le città, depredano tutto. Ma i capi dell'esercito risparmiano i bambini e le donne. Per umanità, immagino. Mosè tuttavia si arrabbia: "Avete lasciato in vita tutte le femmine? Furono esse, per suggerimento di Balaam, a stornare dal Signore i figli d'Israele nel fatto di Peor e ad attirare il flagello sulla comunità del Signore. Ora uccidete ogni maschio fra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si sono unite con un uomo le lascerete vivere per voi" (Numeri, 31, 15-17). Tralasciamo quest'ultima notazione, anch'essa terribile (è facile immaginare la fine delle ragazze vergini), e chiediamoci: di cosa sono davvero colpevoli le donne? Cosa hanno fatto, per essere uccise? Hanno seguito la loro religione, esattamente come gli ebrei seguono la loro. Il massacro di queste donne, a battaglia vinta, è un semplice crimine di guerra. Ma soprattutto la domanda è: cosa hanno fatto i bambini? Cosa? Perché massacrarli? Non esiste nessuna ragione. Se il massacro delle donne è un crimine di guerra, il massacro dei bambini è un crimine di guerra al quadrato.
Mi è tornato in mente questo passo guardando un video raccapricciante, disponibile su Internet, nel sito di OummaTv, la televisione dei musulmani francesi. Il video riprende una manifestazione di ebrei, felici per gli attacchi contro i palestinesi. Cantano cori da stadio. A un certo punto intonano: "Il n'y aura pas d'école demain, on a tué tous les enfants". Non ci sarà scuola domani, abbiamo ucciso tutti i bambini.
E', questa, la cosa più spaventosa che ho visto e sentito da gran tempo. Sono sicuro che non sono molti gli ebrei felici per il massacro dei bambini palestinesi, e tuttavia il fatto che una simile barbarie sia possibile, sia pure presso pochi esaltati, dà da pensare. Chi ha letto la Bibbia, sa che c'è un filo rosso che unisce questi cori alla storia sacra di un popolo che ha dovuto strappare con la violenza ad altri popoli la terra promessa dal suo Dio.
Prima che mi si accusi di antisemitismo (una accusa sempre pronta contro chiunque metta in discussione le politiche sioniste), aggiungo che il massacro palestinese mi ha fatto venire in mente un altro testo che appartiene alla tradizione dell'ebraismo. Si tratta di un libretto di Chaim Nachman Bialik, lo scrittore ucraino considerato il poeta nazionale di Israele. Nel 1903 avviene un terribile pogrom a Kishinev, attuale capitale della Moldavia. In due giorni vengono uccisi quarantanove ebrei, mentre cinquecento sono i feriti. Di fronte ad una tale devastazione si resta senza parole. Ma Bialik è un poeta, un grande poeta. E le parole le trova. Nella città del massacro, il poemetto scritto per raccontare, per piangere, per denunciare il pogrom, è poesia pura, vibrante, che tocca le corde più intime e commuove profondamente. Comincia con queste parole, Bialik: "Un cuore di ferro e acciaio, freddo, duro e muto, / batte in te, vieni uomo! / entra nella città del massacro, devi vedere con i tuoi occhi, / toccare con le tue mani..." (trad. R. A. Cimmino). E nel resto del poemetto il lettore in effetti vede con i suoi occhi e tocca con le sue mani l'orrore.
I versi più intensi dell'opera sono quelli nei quali Bialik descrive la Shekinah, "nera, stanca, disperata", che piange in silenzio. Quella di Shekinah è una delle concezioni più affascinanti della teologia e della mistica ebraica. Il termine deriva dal verbo shakan, abitare: indica dunque la presenza, la dimora di Dio sulla terra. Una manifestazione di Dio che ha i caratteri del mistero e della gloria, nella tradizione. Ma con Bialik avviene un cambiamento importante. La Shekinah, la gloriosa manifestazione di Dio, ora si limita a stare accanto alle vittime. Subisce la loro stessa sofferenza, accetta su di sé il dolore degli afflitti. Il pensiero va anche a quella pagina memorabile de La Notte in cui Elie Wiesel racconta di un bambino impiccato ad Auschwitz. "Dov'è Dio?", chiede qualcuno. E Wiesel scrive: "E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: - Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca".
C'è una straordinaria rivoluzione teologica in queste parole. Dio non è più nei cieli, non si manifesta più nella distanza e nella potenza, ma sta accanto a chi soffre. Chi soffre in questo caso è il popolo eletto, ma il passo verso un Dio che sta con chiunque soffra è breve. E' una intuizione - questa di un Dio dei poveri, dei deboli, degli afflitti - che si affaccia in diverse tradizioni religiose: dal cristianesimo (e non a caso alcuni cabalisti troveranno affinità tra la Shekinah e il Cristo) allo hinduismo, con l'idea del Daridranarayana, "Dio nei poveri", che si trova in Vivekananda en Gandhi. La considero la più alta concezione religiosa dopo quella del Dio-non Dio di Meister Eckhart.
Le parole di Bialik si potrebbero leggere, in questi giorni, come un canto che dice la tragedia delle migliaia di palestinesi massacrati dall'esercito israeliano. Un ebreo ha trovato le parole per dire l'indicibile, ed ora quelle parole non gli appartengono più, come non appartengono più al solo popolo ebraico. Rappresentano il contributo del popolo ebraico alla comune umanità: dire la tragedia, raccontare l'orrore, pensare un Dio che sta con la vittima. La concezione della Shekinah, liberata da ogni nazionalismo, può mettere gli ebrei in condizione di avvertire l'umanità offesa dalle bombe, di percepire il Divino negli occhi delle vittime. Di superare quella etnolatria, quella esaltazione violenta dell'identità nazionale che esige lo sterminio del nemico, che si esprime in quel passo del libro dei Numeri.
In una guerra non sempre colui che ha vinto è il vincitore effettivo. Le conseguenze di una vittoria possono essere devastanti. Credo che sia questo il rischio attuale per Israele. Potrà continuare a sterminare la popolazione civile palestinese, con il tacito assenso della comunità nazionale. Ma il prezzo da pagare sarà un imbarbarimento di cui i cori di cui ho detto sono un indizio tangibile e preoccupante, insieme ad altri. A prevalere sarà il Dio degli Eserciti, violento e capriccioso, che esige lo sterminio di donne e bambini. Sarà quella demonizzazione biblica dell'altro che nella storia occidentale ha agito al di fuori dell'ebraismo, e di cui gli stessi ebrei sono stati vittime. Sarà quella crisi religiosa che sempre precede e causa la crisi e la decadenza generale (civile, morale, politica) di un popolo. Che lo conduce nuovamente be-midbar, nel deserto.
L'immagine è tratta da Footnotes in Gaza di Joe Sacco.
Editoriale per Stato Quotidiano.
L'immagine è tratta da Footnotes in Gaza di Joe Sacco.
Editoriale per Stato Quotidiano.
I matrimoni su Mercurio
Una mattina che osserva Mercurio, il misteriosissimo cavaliere di Béthune s’imbatte in un uomo che gli porge un microscopio filosofico, col quale riesce ad osservare la vita degli abitanti sul pianeta. L’uomo è un Rosacroce che gli propone di entrare nell’Ordine. Dopo una singolare iniziazione, gli affida la Relazione sul mondo di Mercurio, che il cavaliere dovrà tradurre dall’arabo (lingua che lo stesso Rosacroce gli ha insegnato con le sue arti magiche). Apprendiamo così dall’ignoto autore arabo e dal suo traduttore Béthune che Mercurio è abitato da uomini alti come ragazzini di quindici anni, che sono governati da un imperatore inviato dal Sole, che curano con la massima attenzione la propria spiritualità, considerando degni di servire solo coloro che non hanno sviluppato a sufficienza i loro talenti (colpa grave anche perché sul pianeta i talenti possono essere acquistati come da noi i gioielli, o anche solo frequentando e diventando allievi di coloro che li possiedono), che parlano con gli animali usando la lingua dei segni: e che hanno un sistema matrimoniale particolarmente efficace ed intelligente. Poiché amano la diversità, mai potrebbero legarsi per tutta la vita ad una persona. Per questo i matrimoni hanno una durata limitata. Nelle case in cui vi sono ragazze in età da marito, esiste una appartamento ben arredato, che si chiama Sphinx. Quando due giovani si piacciono, chiedono ai genitori di lei l’uso dell’appartamento per conoscersi fisicamente. All’uscita dall’appartamento, possono dire di essersi sbagliati, o stipulare il contratto che segue.
Traduco da: Béthune (chevalier de), Relation du monde de Mercure, Barillot et fils, Genève 1750, t. 1, pp. 113-117.
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I contratti sono sempre composti da pochissimi articoli. Il primo concerne gli abiti, i gioielli, i mobili che si mettono in comune: regola anche i vantaggi che uno fa all’altro, e che ognuno di loro deve ritirare alla contratto.
Il secondo stabilisce un arbitro, uomo o donna a scelta delle due parti, davanti al quale si porteranno le contestazioni domestiche o altri piccoli fastidi matrimoniali: questo arbitro è giudice sovrano, è condanna all’ammenda o a qualche pena usitata chi gli sembra che abbia torto.
Il terzo regola il numero di piccole scappatelle coniugali o di vere e proprie infedeltà, che sono obbligati a perdonarsi l’un l’altro per conservare la pace nel ménage: durante i primi tre mesi non è gran cosa, ed è più per precauzione che per necessità che se ne fa menzione nel contratto; ma in seguito ciascuno fa uso del suo diritto, e soprattutto le dame, anche se fosse solo, dicono, per non far prescrivere un privilegio che considerano il fiore più bello della loro corona.
Oltre a queste bricconerie autorizzate, ne scappano altre, durante un matrimonio di due anni, non previste dal contratto: ma in genere non vi si bada più che ad errori di ortografia.
In ragione di ciò, fin dal giorno dopo le sue nozze, una donna può civettare, far moine, parlare a bassa voce, provocare, uscire sola, tornare tardi, farsi riaccompagnare e anche, in caso di bisogno, dormire fuori casa: le basta dare ragioni plausibili della sua assenza, come, ad esempio, “mi sono divertita”, “il divertimento mi ha trattenuta”, “mi sono lasciata trascinare dal piacere”. Ciò è normalmente ben accettato, ma quando si trova un marito stizzoso, la donan è libera di fare il broncio e dire: “Oh! ecco come siete, non si può fare nulla che voi non troviate cattivo, e per farvi contento bisognerebbe farsi seppellire in una camera e non vedere nessuno per tutta la vita. Raramente si giunge a tanto, ma male che i bisticci domestici non vanno oltre ciò.
Il quarto articolo esorta i coniugi a non mostrarsi mai trascurati l’uno all’altro, nemmeno a letto: anche l’estrema nudità, dicono, è suscettibile di essere adeguatamente ornata con qualche oggetto semplice e di buon gusto.
Quando il termine del contratto, vale a dire i due anni di matrimonio, sono passati, le due famiglie si riuniscono accompagnate da un Giudice di Polizia. Questo pubblico ufficiale si presenta per dar atto ai coniugi della libertà reciproca che essi hanno di stipulare tra loro un nuovo contratto o di separarsi: è odrinariamente quello che accade. Allora per are una forma materiale alla dissoluzione del contratto si presenta all’uomo e alla donna una pagliuzza e gli si ordina di spezzarla per marcare la loro volontà di separarsi. A quanto pare è da lì che Moliere ha tratto il suo proverbio:
Una paglia spezzata tra gente d’onore conclude un affare.
Immagine 1: particolare del frontespizio.
Immagine 2: illustrazione all'antiporta.
Immagine 2: illustrazione all'antiporta.
Da un'altra parte
Ho ottenuto il trasferimento a Siena. Da settembre si ricomincia da un'altra parte.
Ci sono due tipi di persone che, in genere, vanno via da Foggia: quelli che lo fanno per necessità e quelli che lo fanno per scelta. I primi sono per lo più proletari e vanno via per lavoro: e partono con profonda nostalgia, e pensano ogni giorno a come tornare; ed in genere tornano, dopo qualche anno, e si sentono felici di essere tornati in quella che non ha mai smesso di essere la propria casa. Quelli che partono per scelta sono per lo più figli della buona borghesia, e vanno via per studiare, e non provano per la città che disprezzo e vergogna; e se tornano, lo fanno con il senso di sconfitta di chi non è riuscito a realizzarsi in posti migliori.
Poi ci sono quelli che vanno via per tristezza.
Molti anni fa discutevo di Foggia con un'amica, oggi affermata scrittrice a Roma, in una circolare (il bus cittadino). Parlavamo di questo: andare o restare. Lei, che studiava a Milano, diceva di Foggia tutto il male possibile; io difendevo le ragioni del restare qui, nonostante tutto. Un ragazzino ci ascoltava, attento. La sua fermata arrivò a Candelaro, uno dei quartieri più infelici di una città infelice. Prima di scendere ci lanciò uno sguardo intenso, poi sorrise e disse: "Comunque Foggia è forte". Lo disse in italiano, perché noi stavamo parlando in italiano - ma si capiva che la frase avrebbe acquistato il suo senso pieno solo in dialetto.
Per molto tempo ho pensato allo sguardo, al sorriso, alle parole di quel ragazzino. Ho pensato che sì, Foggia è forte: più forte della mafia che la soffoca, più forte della politica che la umilia, più forte della povertà, dell'ignoranza, della cialtronaggine che la consumano. E' forte, pensavo, di una forza difficile da comprendere, forse misteriosa, certo sfuggente. Ed ho cercato di farmi forte di questa forza. Consideravo Foggia come un bambino fragile, malato, che però ce la farà, perché vuole vivere con tutto sé stesso: e che bisogna aiutare con tutte le cure possibili perché quel suo telos, che è bene, non sia travolto e spento dal male. Oggi penso di non poter fare nulla per quel bambino, e che anzi il prendermene cura o il semplice preoccuparmi per lui finirebbero per uccidere anche me e chi mi sta accanto.
Molti anni fa un anziano stava in un bar. Era il suo compleanno, stava festeggiando con gli amici. Nulla di che: un caffè, qualche pasticcino. Davanti al bar ci fu un agguato mafioso; l'anziano fu colpito da una pallottola vagante: e morì. Il sindaco - che era un fascista, e nell'indifferenza di tutti aveva fatto costruire due enormi fasci nella piazza principale della città - si disse indignato, ed annunciò una grande manifestazione pubblica di protesta. Che non ci fu mai. Mai.
Imparai allora due cose, ampiamente confermate da quello che è successo poi. La prima è che Foggia è una città in cui puoi morire per caso, per una pallottola vagante. La seconda è che questo, a Foggia, è naturale: rientra nell'ordine delle cose che un foggiano è disposto ad accettare senza inquietarsi troppo.
La mafia a Foggia si chiama società. Non è un caso.
Amo Foggia profondamente. L'amo come si ama la città in cui si è nati, in cui vivono le persone che si amano, in cui ci si è innamorati. Ma è un amore ferito, ormai: e rischia di incancrenire, e diventare qualcosa di peggio dell'odio. E' l'amore disperato, angosciato, doloroso che si prova per una donna che ci ha traditi: e che - lo sappiamo - lo farà ancora, e ancora, e ancora.
I ragazzi dello Scurìa dicono che le città sono di chi le ama. Hanno ragione, anche se sui manifesti elettorali qualche mese fa si leggevano cose non troppo diverse. Hanno ragione: le città sono di chi le ama. Anzi: di chi sa amarle. Come le donne. Non basta amarle, o volerle amare. Bisogna saperle amare, essere in grado di renderle felici, ed essere felici con loro. Un amore ferito non serve a nessuno: né a loro (le città e le donne), né a noi.
L'angelo della buona borghesia
Il romanzo di Righini Ricci è la storia di un gruppo di ragazzini in età da scuola media in una metropoli del nord. Vero protagonista è Lorenzo, un immigrato meridionale - ed all'immigrazione rimanda l'immagine di copertina, la foto di una donna con un bambino alla stazione, ingombra di valigie: lo stereotipo del meridionale con la valigia di cartone. E' un bravo ragazzo, questo Lorenzo, ma parecchio disadattato, con una inopportuna nostalgia per il paesello natale da cui si libererà solo dopo aver scoperto, durante una breve vacanza, che anch'esso ha subito le trasformazioni imposte dalla modernità
Il messaggio del libro è naturalmente positivo, progressivo, rassicurante. Questi ragazzetti, che parlano come un libro stampato (anche Lorenzo e la sua famiglia proletaria), sono bravi giovani, alle prese con l'incomprensione dei genitori, le difficoltà di costruirsi una personalità, la città anonima e tutti gli altri problemi attuali degli anni Settanta (e Ottanta). Prendiamo Lorenzo. Si imbatte, un giorno, in una banda di teppisti che lo malmenano e gli strappano il giacca; ma il giorno dopo fa un incontro più piacevole: una ragazzetta più piccola di lui che a scuola lo vede così conciato e, come nulla fosse, tira fuori dalla borsa ago e filo e si mette a rammendargli la giacca. Questa ragazzina, che si chiama Rossella, è uno dei personaggi positivi del romanzo. E' ancora una bambina, ma è già molto religiosa, e riesce a trascinare il riluttante Lorenzo ad un incontro spirituale, momento importante della sua maturazione personale.
Quando la piena del fiume travolge la case dei poveri, questi ragazzetti costituiscono una squadra di volontari e si adoperano per liberare dal fango la tipografia del quartiere, mentre le proteste della gente ottengono la costruzione di uno scolmatore che impedirà nuovi allagamenti. La fabbrica in cui lavorano i genitori di Lorenzo chiude i battenti, ma anche qui si tratta di una crisi solo momentanea: grazie all'intervento dei politici, e probabilmente all'interessamento del ricco e potente padre di uno dei ragazzetti, la fabbrica viene rilevata da un'altra azienda, e tutti i posti di lavoro sono salvi.
L'apoteosi si ha nel finale. Il nostro Lorenzo è travagliato dal dubbio di non aver collaborato con le forze dell'ordine nella soluzione di un caso che riguarda il fidanzato della sorella. Per sgravarsi la coscienza, va dal commissario e vuota il sacco. E trova un uomo buono e paterno, che gli fa la lezione di vita: "Devi imparare ad avere un po' più fiducia in te stesso, in noi, nel tuo prossimo, nella bontà della legge, nella vita insomma!". Parole sante: Lorenzo esce dal commissariato che è un altro: positivo, fiducioso, con voglia di fare. Certo, spiega l'autrice in nota, quando Lorenzo sarà più maturo capirà che "le istituzioni umane hanno anche delle carenze", ma per il momento è importante "uscire dalle nebbie del dubbio, trovare il proprio posto nel mondo" (corsivo dell'autrice).
Il nostro Lorenzo lo trova, alla fine, il suo posto nel mondo. Vince il dubbio e guarda con fiducia al futuro: "Fra un mese ci sono gli esami. Se tutto va bene, forse potrò iscrivermi a un Istituto Professionale. L'insegnante di italiano mi ha comunicato che posso concorrere per una borsa di studio e non è detto che non ce la faccia: in fondo l'italiano è il mio forte".
Tra le cose che colpiscono di più, in questo libro, è la rappresentazione della vita scolastica. Nella classe di Lorenzo nessun professore fa lezione; tutti coordinano civilissimi dibattiti su tematiche di attualità. Bello, ma falso. E' la scuola come dovrebbe essere, ma non come è stata ed è. Cosa è stata ed è la scuola italiana ce lo dice invece la conclusione. Benché sia forte in italiano, il nostro Lorenzo non potrà aspirare al liceo, ma solo - e forse - ad un istituto professionale. Lui, immigrato meridionale e figlio di operai, è un proletario, ed il liceo è per la buona borghesia. Il posto nel mondo degli uni e degli altri è diverso. Dev'essere grazie alla lettura di questo libro se non mi sono meravigliato molto quando, alla fine degli esami delle medie, benché come il nostro Lorenzo fossi abbastanza forte in italiano, lessi sul diploma la raccomandazione di frequentare l'istituto professionale.