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blog di antonio vigilante

I social network e la scuola

Sorprende non poco leggere la petizione lanciata da Daniele Novara, uno dei più influenti pedagogisti italiani, e dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti da lui fondato, per chiedere che si vieti fino ai quattordici anni l’uso di uno smartphone personale e fino ai sedici la possibilità di creare un profilo sui social network; e non meno sorprende trovare tra i firmatari persone stimabili, come Federica Lucchesini o Anna Oliverio Ferraris (il testo della petizione si può leggere qui). Poiché si tratta di una petizione promossa e firmata da pedagogisti (anche se non mancano personalità del mondo dello spettacolo, che evidentemente hanno poca competenza sul tema, ma sono mediaticamente più efficaci di qualunque pedagogista), non si può fare a meno di notare due cose.

La prima è che una cultura del divieto si concilia poco con quella pedagogia progressista alla quale appartengono senz’altro Novara e non pochi dei firmatari della petizione, mentre è in piena continuità con le posizioni del ministro Valditara e del governo Meloni. La seconda è che l’argomentazione della petizione, appena embrionale, è centrata interamente sul ricorso alle neuroscienze: “La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica – si legge – ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale”. Ed è evidentemente una fallacia. Sia perché ricorrendo alle neuroscienze si possono affermare molte cose in campo pedagogico, e non siamo sicuri che piacerebbero tutte ai firmatari della petizione (per dirne una: non è poi così certo, alla luce delle neuroscienze, che esista una cosa come il libero arbitrio, e anche lo stesso io personale vacilla), sia perché non è affatto vero che le neuroscienze giustifichino un tale allarme.

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Agostino

Agostino era operaio presso una piccola azienda che si occupava di idrocarburi. Il suo padrone – così lo chiamava, così era – era impegnato in politica, per metterla su un piano nobile. Consigliere comunale del Movimento Sociale. Ebbe un brutto quarto d’ora quando a qualcuno venne la bizzarra idea di indagarlo per l’assassinio del direttore dell’Ufficio del Registro, Franco Marcone. Fu scagionato.

Benché il suo padrone fosse benevolo, di soldi non ne arrivano troppi. L’operaio Agostino viveva con la moglie e i tre figli in un basso di trentotto metri quadri in via Maria Grazia Barone. Non ebbe mai la casa popolare, e questa fu forse l’unica fortuna della sua vita.

Al momento di andare in pensione, l’operaio Agostino ebbe l’impressione che il suo benevolo padrone gli avesse dato meno di quello che gli spettava, di liquidazione. Gli fece dunque causa. La perse. Sì impegnò poi in una causa con l’avvocato che aveva perso la causa. E perse anche quella causa. Vincere le cause non era nelle sue corde. Pare che sia un difetto degli operai.

Si è goduto la pensione per qualche anno, l’operaio Agostino, girellando per la città su una vecchia bicicletta Bianchi, facendo il solitario con le carte – spesso imbrogliava – guardando Rete 4 e spaventandosi di tutto. Poi ha avuto un infarto. Poi un tumore alla parotide. Poi un tumore ai polmoni. Poi un tumore al fegato.

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Scuola e violenza culturale


    Ho scritto questo articolo, su richiesta, per una rivista che si occupa di educazione. Ho chiesto di non pubblicarlo perché il numero della rivista, dedicato alla pace, sarebbe stato legato alla terza marcia mondiale per la pace e la non violenza. Marcia che non condivido, come non condivido le posizioni della maggior parte dell’area della cosiddetta nonviolenza, per ragioni che ho ampiamente illustrato su questo blog.

    1. Un bambino si avvicina a un pozzo. Gira intorno, poi vi sale su. E rischia di cadervi dentro. È la scena immaginata dal filosofo cinese Mencio per uno degli esperimenti mentali più efficaci della storia della filosofia. Nessuno osservando la scena, affermava Mencio, resterebbe impassibile; chiunque proverebbe una forte angoscia, e tale angoscia sarebbe assolutamente indipendente da qualsiasi altra circostanza, come l’essere osservato da altri. Agli italiani della mia generazione questo esperimento mentale richiama immediatamente alla mente la tragedia di Alfredino, il bambino caduto nel pozzo a Vermicino nel 1981. L’intero Paese guardò per diversi giorni con indicibile angoscia quella scena, fino al terribile esito finale. Verrebbe dunque da fare ragione a Mencio. E condividere la sua conclusione: “Tutti gli uomini hanno un cuore-mente (心) che non sopporta di vedere le sofferenze degli altri” (Mencio, Gong Sun Chou I, 6).

    Sappiamo purtroppo che le cose non stanno così. O meglio: non stanno solo così. Può succedere che qualcuno osservi la scena senza restare scosso. Ma può anche succedere che qualcuno getti un bambino nel pozzo. Anzi, può succedere che più persone gettino uno o più bambini nel pozzo. E che altre persone – milioni di altre persone – osservino la scena approvandola. O perfino festeggiando per la morte di quei bambini.

    Mentre scrivo le vittime del genocidio in atto sulla popolazione palestinese della striscia di Gaza sono più di trentacinquemila. Migliaia sono i bambini. Ma scriverlo non rende l’idea. Bisognerebbe chiamarli per nome uno ad uno, uno dopo l’altro, e arrivare a dieci, poi a cento, poi a mille, duemila, tremila. E sentire tutto lo strazio di queste migliaia di vite innocenti spezzate.

    Sappiamo, sentiamo tutti che Mencio ha ragione. Sentiamo di avere un cuore sensibile al dolore di qualunque altro essere umano. Perché allora migliaia di bambini finiscono nel pozzo? La risposta è in un altro filosofo cinese: Mozi. Che ha fondato una scuola filosofica che era anche una squadra di carpentieri specializzati nella costruzione di fortificazioni per le città assediate. Era il Periodo degli Stati Combattenti e il lavoro certo non mancava. Da cosa nasce la violenza? Perché uno Stato fa guerra a un altro Stato? Perché i forti opprimono i deboli? Per l’odio, certo. Ma Mozi fa un passo oltre. Da dove nasce l’odio? Da una visione errata delle cose. Odiamo perché abbiamo una percezione del mondo che segna confini tra noi e loro. Perché siamo parziali e non universali. E dunque per vincere l’odio e la violenza che da esso scaturisce dobbiamo cambiare la nostra visione del mondo: “Se ognuno considerasse le città degli altri come la propria, chi si impadronirebbe delle città degli altri? Gli altri sarebbero considerati come sé stessi. Se ognuno considerasse le case degli altri come le proprie, chi disturberebbe le case degli altri? Gli altri sarebbero considerati come sé stessi” (Mozi, 16.2).

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    Il cattolicesimo queer di Michela Murgia

    Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=54421

    Femminista e cattolica, Michela Murgia ha cercato di rovesciare il patriarcato attraverso una reinterpretazione radicale del dogma centrale del cristianesimo: la Trinità. Non “due uomini e un uccello”, come nella tradizione occidentale, ma tre figure asessuate, in una posizione aperta, orizzontale, non gerarchica, come nell’icona di Andrej Rublev. Il cui significato profondo è che l’amore autentico è quello che include il terzo. Una reinterpretazione nella quale tuttavia permane la tendenza cattolica, e violenta, di dire cos’è il vero amore, e dunque come bisogna amare.

    Una diversa interpretazione

    Otto marzo del 2009. In un piccolo paese della Barbagia la sindaca chiama alcune donne a ragionare di Donne e Chiesa: un risarcimento possibile? Al tavolo c’è anche il giovane parroco del paese, che alla fine prende la parola per dire che sì, ha apprezzato l’intervento delle relatrici, ma quanto detto non riguarda la sua parrocchia, nella quale – lo rivendica con orgoglio – c’è ben altro clima, come dimostra il fatto che molte donne collaborano nell’attività parrocchiale. Ma una voce – una voce di donna – si leva dalla platea: “Per pulire, don Marco!”

    È la scena, esilarante, con cui comincia Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna (Einaudi, 2011) di Michela Murgia, che è un brillante e, per una donna cattolica, coraggioso atto di accusa nei confronti di una Chiesa che non riesce a pensare le donne se non come addette alle pulizie delle parrocchie o madri amorevoli e spose sottomesse. Si tratta di una analisi dura, senza sconti. E leggendo ci si chiede quando arriverà il momento in cui l’autrice spiegherà perché essere cattolici, appartenere a quella istituzione così violentemente maschilista, sia comunque sensato per una donna, anzi per un essere umano. Il momento arriva, ma non convince, per ragioni che proverò a spiegare. Vediamo intanto l’analisi critica di Murgia.

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    La Progettazione didattica condivisa: valutazione finale

    Era un’esperienza nuova per tutti, sia per noi alunni che per il professore, ma devo dire che non mi aspettavo riuscissimo a lavorare così bene. Ci sono stati dei momenti in cui abbiamo rallentato o lavorato meno ma penso che siano legati soprattutto alla nostra inesperienza con una didattica di questo tipo. Complessivamente l’esperienza è stata positiva e sarò contento se la continueremo anche l’anno prossimo. (Dalle risposte anonime al questionario finale.)

    La sperimentazione della Progettazione didattica condivisa (https://www.academia.edu/104584462/Proposta_di_progettazione_didattica_condivisa), proposta nell’anno scolastico 2023-2024 alla classe 4A del Liceo “Piccolomini” di Siena, sezione Liceo delle Scienze Umane, prevedeva una valutazione intermedia, alla fine del primo quadrimestre,  per decidere se proseguire con la sperimentazione o tornare alla prassi tradizionale, e una valutazione finale.

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    Vogliamo una storia

    Non vogliamo essere felici. Vogliamo stare in una storia: individuale, collettiva, cosmica.

    Nulla disgusterebbe più di un romanzo i cui protagonisti fossero, dall’inizio alla fine, felici; e così la nostra vita. La felicità arriverà alla fine, dopo mille avventure; e allora il romanzo cesserà. Terminata la storia, i personaggi escono di scena. Se li si riporta in scena, occorre che accadano altre avventure: nell’Odissea di Nikos Kazantzakis Odisseo dovrà rimettersi in viaggio per non morire di noia accanto a Penelope. Vogliamo una storia. La felicità iniziale, poi la caduta, mille sofferenze, l’esilio, la lotta, la conquista, e poi ancora la perdita, e ancora la lotta, e la speranza, e la riconquista, e la vittoria finale, che sarà domani, non oggi – e un domani che non arriva — non deve arrivare mai.

    Religione è ridurre il cosmo intero ad una narrazione, sottoporre tutto al potere di una storia. Bereshit è la parola che apre la prospettiva di senso della religione, che è sempre una prospettiva narrativa. E poiché all’altro capo c’è la liberazione finale, ogni religione è minacciata dal non senso: perché non c’è nulla che spaventi di più di una felicità priva di storia. Il Paradiso è anche peggio della morte. Il Paradiso è la dimensione nella quale appare il non senso di Dio stesso, in cui riaffiora la domanda che in realtà nemmeno la storia può tacitare: perché? Ecco, ora siamo ricondotti a Dio, ora siamo con Dio leholam. Ma: perché? Perché è Dio e non piuttosto il nulla? Cos’è questo Dio di diverso dall’essere stesso, da questo enigma per sfuggire al quale ci gettiamo nella storia?

    La nostra visione del mondo è, oggi, astorica. Il cosmo che ci mostra la scienza non è riducibile a nessuna narrazione. Di qui l’importanza delle filosofie che fin dall’antichità hanno indicato la via di abitare il mondo, piuttosto che ridurlo a una narrazione: le filosofie ellenistiche, Lucrezio, Spinoza ecc. Ma sono filosofie della felicità: e noi non vogliamo essere felici.



    Picchiare i fascisti

    Durante il fascismo Aldo Capitini perse il posto di segretario alla Normale di Pisa e finì in galera, alle Murate di Firenze, in quanto teorico, insieme a Guido Calogero, del Movimento liberalsocialista. Dopo la fine del fascismo gli capitò, in corso Vannucci nella sua Perugia, di assistere a questa scena: dei poliziotti portavano in Questura un picchiatore fascista, dei più feroci; e degli antifascisti gli si gettarono addosso, lo isolarono e lo picchiarono. E non rimase a guardare, ma intervenne per pregare gli antifascisti di smetterla. Il risultato fu che venne preso lui stesso per fascista e ricevette la sua porzione di percosse.

    Ha raccontato l’episodio – che oggi fa tenerezza, ma che fu doloroso (“sebbene non fu ricoverato in ospedale, stette male e stette anche molto a disagio”) – Francesco Innamorati al convegno di Perugia dell’11-12 ottobre del 2019 (si vedano ora gli atti: Aldo Capitini compresente: ripartendo dai suoi temi, a cura di Giuseppe Moscati, Ledizioni, Milano 2023).

    Pur senza aver preso mazzate, devo ammettere che qualche disagio l’ho provato anch’io sentendo le affermazioni di Christian Raimo sulla necessità di picchiare i neonazisti. Conoscendo Raimo, sono assolutamente certo che si tratta di una uscita infelice che non rappresenta realmente il suo pensiero.

    Poiché si parlava di Ilaria Salis, bisogna ricordare alle persone di destra che ora useranno in modo strumentale quelle parole – e lo faranno anche, naturalmente, per attaccare Raimo in quanto docente – che mentre Salis è in Ungheria in condizioni di detenzione durissime, portata in tribunale con i ferri ai polsi come una pericolosissima criminale, e rischia fino a undici anni di carcere, in Italia Gianluca Iannone è stato condannato a soli quattro anni di reclusione per aver picchiato un carabiniere: cosa che non gli ha impedito e non gli impedisce di godere tutte le libertà democratiche, compresa quella di essere il leader di CasaPound, il movimento dei “fascisti del terzo millennio”, e di candidarsi alle elezioni.