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Blog di Antonio Vigilante

Perché siamo razzisti

Foto Ansa
Trentuno persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l'Italia. Morti annegati davanti alle coste della Libia. Tra loro nove donne. Provenivano per lo più dalla Nigeria, un paese nel quale la nostra Eni occupa 40.625 chilometri quadrati con i suoi pozzi petroliferi che stanno devastando il delta del Niger, costringendo alla fame pescatori e contadini. Leggo su Facebook i commenti alla notizia data da la Repubblica: "affondassero tutti sti gommoni.............zozzi schifosi, sostegno agli abitanti di lampedusa, che quotidianamente devono sopportare questo schifo..........." (riporto pari pari, chilometrici punti sospensivi compresi); "Tra poco li andremo a prendere nel loro paese per farci invadere!!"; "31 voti in meno per il pdmenoelle".
Non mancano i commenti tutt'altro che razzistici, ma bisogna considerare che la Repubblica non è Il GiornaleLa Padania. Si prenda una qualsiasi notizia che riguarda gli immigrati e si leggano i commenti: non mancheranno mai, qualunque sia il sito Internet, espressioni gravissime di razzismo, che diventeranno numericamente prevalenti nei siti di destra.
Cosa sta accadendo nel nostro paese? Perché si giunge a chiamare "rozzi schifosi" delle persone morte in modo terribile, ed a rallegrarsi della loro morte? Perché un vicepresidente del Senato giunge ad insultare pubblicamente un ministro, solo perché di pelle nera? Perché siamo diventati così spaventosamente razzisti? Perché l'Italia non è, come scriveva qualche giorno fa John Foot su The Guardian, un paese non razzista in cui però il razzismo è tollerato. Se una persona come Calderoli giunge a diventare vicepresidente del Senato, se una forza politica razzista come la Lega Nord va al governo, vuol dire che il razzismo non è solo tollerato, ma serve a fare carriera politica. Le prove non mancano. Si pensi, ad esempio, all'isterismo collettivo seguito, nel 2007, all'omicidio di Giovanna Reggiani. Si scatenò allora una vera caccia al rom ed al romeno, alimentata dai giornali e dalle forze politiche di destra; ma è bene ricordare che lo stesso Walter Veltroni, leader dell'appena nato Partito Democratico, si affrettò ad attaccare la Romania ed a chiedere iniziative straordinarie sul piano della sicurezza, proprio come un qualsiasi leader di una forza xenofoba. Si era, del resto, in campagna elettorale.
Perché, dunque, siamo razzisti?

La questione delle regole

F. Hundertwasser,
Blobs Grow in Beloved Gardens, 1975
Molti ritengono che le regole non solo abbiano a che fare con l'educazione, ma ne siano l'aspetto centrale, il nucleo, la ragione prima. Per loro una definizione accettabile di educazione è: dare regole. O meglio: imporre regole. Sono, in genere, quelli che lamentano l'assenza di regole nella società attuale, segno sicuro di decadenza e disordine sociale. E' abbastanza sorprendente che non pochi adolescenti, coloro che maggiormente dovrebbero essere insofferenti delle regole, la pensino allo stesso modo.
C'è qualche ragione in questo ragionamento. E' vero che una società senza regole va alla deriva (ma meglio sarebbe dire che semplicemente una società che non abbia regole non può sussistere). E' vero anche che le regole hanno qualcosa a che fare con l'educazione. Ma è ancora più vero che un eccesso di regole può bloccare una società e trasformare l'educazione in qualcosa di diverso.
Che la regola abbia a che fare con l'educazione sembra confermato dall'etimologia: regola viene da regere, ossia reggere, guidare, governare, dominare. Regula in latino è sia la legge che il regolo, la riga che si usa per tracciare linee diritte. Il senso della regole è appunto questo: fare in modo che ciò che è contorto diventi lineare; ricondurre la complessità delle cose alla semplicità della linea retta. Una semplicità che però non è priva di pericoli. Diceva il pittore ed architetto Friedensreich Hundertwasser: "Vi sono milioni di linee, ma una sola è portatrice di morte: quella tracciata con la riga".

E se il digitale fosse analogico?

www.cinquequotidiano.it
Il ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza ha posto un freno all’innovazione, che fino ad ieri pareva inarrestabile, consistente nella sostituzione dei libri scolastici cartacei con libri digitali. “L’accelerazione sui libri digitali – ha dichiarato – non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche”. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo: le case editrici, senz’altro, ma anche molti docenti, tutt’altro che entusiasti di questo passaggio epocale, affezionati alla cara vecchia carta ed ai tomi che con il loro peso sembrano additare l’importanza della cultura e dello studio e la necessità del sacrificio anche fisico. Molti altri invece si dicono preoccupati. Sono quelli per i quali l’introduzione dei libri digitali rappresenta l’avvio di un cambiamento reale che per la scuola non è più rimandabile.
Non voglio entrare nel merito delle parole di Carrozza, ossia indagare se davvero manca una “validazione pedagogica” e se i dispositivi di lettura digitale possono avere ricadute sulla salute dei bambini. Vorrei invece provare a dissipare un equivoco a proposito dell’uso dell’aggettivo “digitale”. In tutto questo dibattito, digitale è sinonimo di elettronico ed informatico. I libri digitali sono gli ebook, in formato Pdf ed ePub, mentre per scuola digitale si intende una scuola nella quale sono presenti e vengono adoperati molti dispositivi elettronici ed informatici (computer, lavagna elettronica, tablet eccetera). Ma l’aggettivo digitale, nelle scienze umane, ha un significato più complesso. Nella Pragmatica della comunicazione umana, pubblicata nel 1967 da Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson si legge, tra l’altro, che ogni comunicazione può essere analogica o digitale. Una comunicazione si può considerare analogica quando esiste, appunto, una analogia tra i segni e ciò che i segni indicano. Se disegno un cane, si tratta di comunicazione analogica, perché c’è somiglianza tra il cane disegnato ed il cane reale. Se, per indicare che ho fame, mi porto la mano alla bocca mimando l’atto di mangiare, sto comunicando ancora in modo analogico. Se invece scrivo o dico “cane”, non c’è alcuna somiglianza tra il segno e la cosa indicata. Quelle quattro lettere non hanno un rapporto evidente con ciò che indicano, e lo dimostra il fatto che chi non conosce la lingua non sarà in grado di capire cosa sto dicendo. Nella comunicazione numerica o digitale il rapporto tra il segno ed il suo significato è il risultato di una associazione convenzionale.

Dove vogliamo andare?

Il centro commerciale Mongolfiera di Foggia
Settant'anni fa i bombardamenti che rasero al suolo Foggia, facendo migliaia di vittime (il numero esatto è controverso, ma certo si tratta di diverse migliaia). A chi chiedeva le ragioni dell'accanimento sulla nostra città degli anglo-americani, questi rispondevano, pare, con l'argomento del compasso. Si punti un compasso su Foggia, dicevano; si traccerà intorno un'area che comprende l'Italia meridionale ed i Balcani: ossia una zona di altissima importanza strategica per le operazioni militari.
A distanza di sessant'anni l'argomento del compasso torna nelle parole di Bernardo Marinelli, amministratore delegato della Genera Consulting. Intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, dice: "Fissate un compasso su Foggia e allargate il raggio, vi renderete conto che la grande ricchezza di questa città è la sua posizione geografica". Da un lato, il Foggiano è facilmente raggiungibile dal Barese, ma anche da parte della Lucania e della Campania; dall'altro, si tratta di una zona interessata da un forte flusso legato alle attrattive turistiche del Gargano ed a quelle più o meno religiose di San Giovanni Rotondo. E' la zona ideale, insomma, per sistemare una impresa economica ambiziosa. E quella della Genera Consulting, gruppo marchigiano, è ambiziosissima: più di duecentocinquanta milioni di investimento e mille e cinquecento posti di lavoro per un grande parco acquatico, con ipermercato, hotel, terme eccetera. Il progetto prevede anche un parco archeologico che ingloberebbe l'area della tomba della Medusa, attualmente in stato di abbandono.

La relazione educativa

Una scuola ad Islamabad. Foto di Muhammad Muheisen
Una delle convinzioni più radicate in chi educa è che la relazione educativa debba essere inevitabilmente asimmetrica: l'educatore in alto (il padre, il professore), l'educando in basso (il figlio, lo studente). Certo, i segni esteriori di questa asimmetria - le tante cattedre con la pedana che ancora esistono nelle nostre scuole, ad esempio - suscitano qualche disagio, ma la struttura mentale, per così dire, è ancora ben salda. Da chi è nella posizione di figlio o di studente ci si aspetta un atteggiamento di sottomissione più o meno palese. A scuola il professore dà del tu allo studente, il quale darà del lei o addirittura (soprattutto al sud) del voi al docente. Uno degli affronti che i docenti tollerano meno è quando lo studente "risponde", vale a dire quando tenta di porre il confronto con il docente su un piano di parità. I docenti ne parlano come di un azzardo inaudito, che bisogna rintuzzare prontamente; e quando si tratta di attribuire il voto di condotta, a fine anno, non si mancherà di tener conto di questi azzardi. L'alunno da nove o dieci in condotta è per definizione l'alunno che "non risponde".
Una delle lamentele più diffuse nella pubblicistica pedagogica di largo consumo riguarda l'assottigliarsi reale o presunto di questa asimmetria. I genitori, si dice, oggi non vogliono più fare i genitori. Accorciano le distanze con i loro figli: vogliono essere loro amici. Non solo non sono più autoritari, non sanno essere nemmeno autorevoli. C'è qualcosa di vero in queste lamentele. E' vero, mi sembra, che oggi non vi sia in giro molta voglia di impegnarsi in una relazione educativa, vale a dire in una relazione profonda, impegnativa, anche destabilizzante. E' una conseguenza della deriva generale delle nostre relazioni umane, legata al tipo di società che abbiamo creato - o che abbiamo lasciato che altri creassero. Da un lato c'è l'individualismo, il mito dell'io, che ostacola (ma non sempre) la dedizione all'altro senza la quale non c'è educazione; dall'altro c'è il consumismo che brucia il tempo della relazione, erode la calma necessaria per un incontro significativo, mercifica tutto quello che può mercificare, rendendo sempre più esigui gli spazi - umani, sociali, esistenziali - per essere oltre sé stessi.