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Blog di Antonio Vigilante

Buon anno vecchio

Gli antichi greci vedevamo molte cose diversamente da noi. Tra queste, il tempo. Dicevano che il futuro è dietro le spalle ed il passato è davanti a noi. A pensarci, avevano ragione. Davanti a noi c’è quello che vediamo, alle nostre spalle ciò che ignoriamo: ed il passato è ciò che conosciamo, che rivediamo, cui ripensiamo. Il futuro non è. Ed allora cosa opportuna sarebbe augurarsi buon anno vecchio, più che buon anno nuovo. Perché il senso della nostra vita dipende in larga misura dal modo in cui interpretiamo il passato che abbiamo davanti agli occhi. Se lo vediamo come un paesaggio caotico, la rappresentazione di un pittore particolarmente fantasioso e bizzarro o il paesaggio smorto partorito dalla malinconia di un artista senza troppa voglia di vivere, è difficile che i giorni in cui scivoliamo possano portarci qualcosa di buono - quel po’ di bene in cui incapperemo scorrerà via come vino in un vaso rotto, per usare un’immagine di Lucrezio. Siamo creature di senso, ed il senso ci viene dal passato. Da un passato che può essere anche infelice, travagliato, pieno di errori, ma cui non è mai impossibile dare una forma ed una direzione. Buon anno vecchio, dunque.

Recupero questo post dal mio vecchio blog Minimo Karma, affondato con Blogsome ormai da qualche anno, grazie alla WayBack Machine di Internet Archive.

27 dicembre, domenica

Lui. Loro. Io? Lui: si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere. Si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere: e chiede l'elemosina. Ha un bicchiere in mano, e allunga la mano verso i passanti, cercando di non cadere. Orribilmente deforme. Loro: loro passano, orribilmente euformi, e ridono e parlano e guardano le bancarelle di Natale e le vetrine dei negozi e il grande albero di Natale in fondo al corso, davanti alla villa comunale. Loro vanno: è la loro natura, quella di andare. Io? Io guardo lui e loro. Ed ho voglia di piangere. Lui è una delle comparse della vita. Uno di quelli che conosci, ci sono da sempre, ma non sapresti dire il loro nome: ma ci sono, li conosci, fanno parte della tua vita. Aveva una forma, una volta. Era un essere umano. Parlava poco, per quello che ricordo: ma era un essere umano. Cosa lo ha ridotto così? Che è successo? Quando s'è perso, e come? E perché nessuno lo guarda? Perché nessuno ha voglia di piangere? 
Era da tanto che il Natale non era così bello, dicono. Così luminoso, così festoso. Così.

Gli omosessuali mangiano i bambini: parola di Ida Magli


Gli ebrei amano frequentare ambienti sordidi, sporchi, oscuri, perché meglio si accordano con la loro natura. L'essere ebrei ha molto a che fare con l'antropofagia ed addirittura con la puerofagia. La società umana è letteralmente finita nel momento stesso in cui si è riconosciuto agli ebrei il diritto di essere ebrei. Esiste un piano dei poteri transnazionali per ebraizzare la popolazione mondiale e renderla così docile e malleabile. Se qualcuno scrivesse simili castronerie razzistiche in un libro, con ogni probabilità incontrerebbe grandi difficoltà a pubblicarlo. Riuscirebbe a farlo con qualche piccolissimo editore, di quelli a pagamento, o magari ricorrendo all'autopubblicazione. Nessun grande editore si azzarderebbe a pubblicarlo; e se accadesse, la cosa susciterebbe un grave scandalo nazionale. 
Se sostituiamo agli ebrei gli omosessuali, troviamo tutte le affermazioni succitate nell'ultimo libro di Ida Magli, Figli dell'uomo. Duemila anni di mito dell'infanzia, pubblicato a novembre da Rizzoli. In teoria, e stando alla quarta di copertina, dovrebbe essere un libro di antropologia sulla condizione dell'infanzia nei secoli; in pratica è un libro abbastanza sconclusionato - che termina con un capitolo nel quale si dimostra, o si cerca di dimostrare, la tesi bizzarra che l'attitudine musicale è collegata geneticamente ad una capigliatura folta, che non c'entra molto con il resto del libro - tenuto su soprattutto dall'attacco agli omosessuali. L'infanzia è sempre stata una brutta faccenda; ovunque i bambini sono stati sottoposti a forme terribili di violenza: è una cosa vera, e Magli fa bene a ricordarcelo, benché lo faccia senza andare granché a fondo anche dal punto di vista della documentazione (la bibliografia è striminzita per un libro che ha la pretesa di raccontare "duemila anni di mito dell'infanzia"). E che c'entrano gli omosessuali? Seguiamo, per quanto possibile, il ragionamento dell'antropologa. Esistono alcuni organismi sovranazionali - Onu, Oms, Unione Europea - che incitano all'omosessualità. Ora, essere omosessuali significa non procreare; e se non si procrea, la società muore. Dunque incitare i maschi "a vedere come un ideale la condizione degli omosessuali, perdendo la fiducia nella propria identità sessuale, è simile all'antropofagia" (p. 34). Naturalmente con lo stesso rigore logico si potrebbe associare all'omosessualità qualsiasi cosa. Il secondo passaggio è il seguente: omosessualità e antropofagia sono analoghe, almeno simbolicamente; "per quanto riguarda i bambini lo è molte volte in concreto la pedofilia, anche se gli storici dell'antichità non ne hanno mai parlato" (p. 46). Di più: dopo aver evocato la pedofilia, Magli passa alla puerofagia, il mangiare i bambini. Ci si aspetterebbe qualche pagina di chiarimento, una analisi approfondita dei legami tra omosessualità e puerofagia, ma Magli si lancia in un excursus non troppo rigoroso sulla pratica dei sacrifici infantili, senza dimostrare alcun legame con l'omosessualità. Del resto, la sua tesi si partenza è che l'antropofagia è un atto antropologico originario. L'uomo, dotato di denti, percepisce l'altro primariamente come colui che può essere mangiato; e ad essere mangiato sarà per primo il bambino, colui che non ha denti. La tesi si dimostra facilmente: è sufficiente pensare che nel 1729 Jonathan Swift ha pubblicato la Modesta proposta, nella quale proponeva di commercializzare la carne di bambino. Così come basta una intervista di Jean Genet nella quale si definisce "frocio" per dimostrare che gli omosessuali hanno a che fare con tutto ciò che è sporco. "L'omosessualità sembrerebbe appartenere a un mondo che cerca ciò che d'abitudine non piace a nessuno: gli esseri sconosciuti, il buio, lo sporco, i cattivi odori, i luoghi miseri e abbandonati come se fossero gli unici stimoli adatti a richiamare l'analità del rapporto sessuale" (p. 36). Come se il rapporto "secondo natura" profumasse invece di violetta. 
I duemila anni di storia del bambino che narra un po' frettolosamente vanno dall'antichità fino al 25 luglio 2014, "data che ha segnato in maniera inequivocabile la fine della società" (p. 11). Che è successo di così grave il 25 luglio del 2014? Qualche omosessuale ha mangiato un bambino in piazza? Peggio: Banca Intesa San Paolo ha deciso di riconoscere ai suoi dipendenti omosessuali il diritto a quindici giorni retribuiti in caso di matrimonio. Ida Magli ha novant'anni. Per alcuni è l'età della saggezza, per altri evidentemente no. In passato ha scritto cose interessanti. Da qualche anno è diventata paladina dell'identità italiana, con l'antieuropeismo ed anti-islamismo che ne conseguono. La fragilità delle sue tesi fa sorridere; è evidente, solo per fare un esempio, la contraddizione di una antropologa che da un lato sostiene che in tutte le culture i bambini sono stati vittime di terribili violenze, compresa la puerofagia, e dall'altra contro il riconoscimento dei diritti degli omosessuali usa come argomento il fatto che esso "si scontra con le norme tanto religiose quanto civili della maggior parte delle popolazioni" (p. 15). Delle due l'una: o il fatto antropologico è aberrante, e va giudicato, mandando all'aria l'avalutatività weberiana e lo sguardo emico degli antropologi, ed allora conta poco che le norme civili e religiose delle popolazioni dicano questo o quest'altro, oppure esso è valido e vincolante, ed allora è giustificabile anche la violenza sull'infanzia, proprio perché è un fatto antropologicamente ricorrente e culturalmente codificato. 
Il problema non è che Ida Magli pensi queste cose. Il problema è che Rizzoli le pubblichi. Se il libro fosse stato pubblicato da un altro editore, lo si sarebbe passato sotto silenzio, come merita. Ma Rizzoli è uno dei maggiori editori italiani, e il libro è in tutte le librerie. L'autrice è presentata nella quarta di copertina come autorevole "antropologa e saggista", i cui libri sono tradotti in numerosi paesi. Le atrocità omofobiche di questo libro si presentano al lettore meno avvertito sostenute da una duplice garanzia: da una parte quella della scienza (l'autrice è un'antropologa), dall'altra quella dell'editoria. La domanda dunque è: perché Rizzoli pubblica un libro pieno di gravissime affermazioni omofobiche?

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

I rischi dell'homeschooling


La pratica dell'homeschooling, o scuola parentale - istruire i propri figli a casa, rifiutando l'istituzione scolastica - si sta rapidamente diffondendo anche in Italia, benché non sia facile ottenere numeri sulla esatta entità del fenomeno. L'impressione è che si tratti di un realtà che coinvolge ancora poche famiglie ma che si sta rapidamente espandendo. Le ragioni sono piuttosto facili da individuare: la crescente insoddisfazione verso la scuola pubblica da un lato, l'esigenza di vivere nel modo più pieno possibile la genitorialità dall'altro. Homeschooling di Erika Di Martino, pubblicato in proprio lo scorso anno, ne è il manifesto nel nostro paese. L'autrice ha lasciato l'insegnamento per dedicarsi all'istruzione dei figli ed ha creato il network www.educazioneparentale.org ed il blog www.controscuola.it, che sono diventati punti di riferimento per le famiglie che decidono di seguire questa via. Nel suo libro presenta l'esperienza scolastica come una violenza cui si sottopongono i bambini, sradicandoli dall'ambiente familiare e dalle relazioni con i genitori e i fratelli per inserirli in un ambiente freddo ed artificiale, nel quale vivono emozioni negative e stress che avranno effetti devastanti sulla loro vita adulta. Per Di Martino la scuola pubblica, non più elitaria dopo il '68, è una scuola di massa che educa essenzialmente al consumo ed all'accettazione del sistema socio-economico in cui siamo ("l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com'è", per dirla con l'Ivan Illich in Descolarizzare la società). Ricorrere, per dimostrare la tesi, ad una affermazione del ministro Baccelli datata 1894 ("Non devono pensare, altrimenti sono guai": affermazione che si riferiva in verità solo all'istruzione femminile, non all'istruzione in generale) non è granché come argomento, così come è ingenuo sostenere che lo Stato "ieri come oggi, ha bisogno di una popolazione docile e ignorante da manovrare a proprio piacimento". Una popolazione ignorante è tutto fuori che facilmente governabile. Proprio perché chi è ignorante può essere facilmente manovrato, indottrinato, plagiato, dove c'è ignoranza attecchiscono facilmente fenomeni preoccupanti per la stabilità dello Stato: il fanatismo, il fondamentalismo religioso, l'antipolitica rozza, il fascismo. Piuttosto, è vero che la scuola rende canonica ed ufficiale un certo tipo di cultura, che è quella delle classi dominanti, e così facendo giustifica e rafforza le differenze di classe: una osservazione che dev'essere attentamente rimeditata, in tempi di cultura di massa e di crisi della classe media, ma che mi pare che abbia ancora una qualche validità. 
Ci sono molte buone ragioni per criticare la scuola pubblica, ma è lecito dubitare che l'homeschooling sia la soluzione. Provo a spiegare per quali ragioni. 
Uno. Per dedicarsi a tempo pieno all'istruzione dei propri figli occorre avere molto tempo. Può farlo chi vive di rendita o, come appunto Erika Di Martino, ha rinunciato al proprio lavoro per questa missione. Ma c'è il rischio evidente che si finisca per attribuire nuovamente alla donna il compito di badare alle faccende domestiche, aggiungendo il ruolo di maestra a quelli di moglie e madre, mentre l'uomo si occupa di portare il pane a casa (il male breadwinner della tradizione). Nulla, si dirà, impedisce che i ruoli si inventano, e sia il padre a fare da maestro, ma non mi pare che questa inversione sia molto diffusa nel nostro paese. In ogni caso, uno dei due coniugi deve sacrificare la propria vita lavorativa per la missione domestica ed educativa
Due. In questo voler trattenere con sé i propri figli c'è una concezione totalizzante della genitorialità che può essere pericolosa. E' cosa buona e giusta che molti genitori vogliano vivere in modo più intenso il proprio essere genitori. E' cosa meno buona, se vogliono sostituirsi a qualsiasi altra figura, negando a chiunque il diritto di contribuire all'educazione dei loro figli. Marcello Bernardi parlava, in Educazione e libertà, del pericolo rappresentato da quelle madri che vogliono essere Madri con la maiuscola. 
Tre. Di Martino ritiene che la socializzazione di massa della scuola si accordi pienamente con le esigenze dell'economia neoliberista. L'argomento di può rovesciare: negare alla scuola ed alla comunità il diritto di educare, riconoscendo questo diritto solo alla famiglia, significa opporsi all'idea stessa di un legame sociale, e concepire la società come un insieme di atomi familiari. Il pubblico ed il politico cedono al privato: ma non è proprio questo che vuole l'economia liberista? Non escludo che vi siano, tra le famiglie che praticano homeschooling o ne sono affascinate, anche famiglie sinceramente anticapitaliste: famiglie senza televisore, ad esempio, o alla ricerca di stili di vita alternativi. Famiglie che temono, per dire, che i loro figli nella scuola pubblica imparino a desiderare i giocattoli pubblicizzati dalla televisione. E' un timore condivisibile. Ma sottrarsi allo spazio pubblico non è la soluzione. La soluzione è rivendicare uno spazio pubblico che sia critico: esigere una scuola che ragioni sui consumi ed educhi fin da piccoli a riconoscere i bisogni necessari da quelli indotti. 
Quattro. Gandhi non mandò a scuola i suoi figli: si assunse il compito di educarli da sé. Ma lo fece malissimo, ed uno dei suoi figli lo rimproverò per tutta la vita di non avergli dato un'istruzione. I docenti possono essere preparatissimi ed avere sensibilità educativa o avere una cultura passabile ed una sensibilità educativa pessima: ma sono sottoposti ad una selezione ed a più valutazioni, non ultima quella dei genitori. I quali, se proprio trovano inaccettabili i metodi del maestro o dei maestri, possono chiedere di cambiare classe o scuola. Un bambino che abbia dei genitori-maestri incapaci non può cambiare famiglia. 
Cinque. La scuola, come ho detto, è uno spazio pubblico. La porta dell'aula non è mai davvero chiusa. Di quello che accade in aula gli studenti parlano con i genitori: un errore, una uscita infelice, una osservazione politicamente scorretta diventano motivo di discussione tra i docenti, quando non facile pretesto per miserabili campagne politico-giornalistiche. La strumentalizzazione è un male, il controllo è un bene. Un errore educativo può essere corretto, una persona inadeguata allontanata. Non si può dire lo stesso di una famiglia. Quello che vi accade è chiuso allo sguardo pubblico. 
Sei. Uno dei non pochi gruppi Facebook dedicati in Italia all'homeschooling si chiama Homeschooling Famiglie Cristiane. In uno degli ultimi post si legge: "In questo periodo difficile è certamente l'unione che fa la forza. E se si alza la voce (e non solo) per idee malate che vogliono propinarci come giuste e buone per i nostri Figli, noi non dobbiamo mai abbassare la guardia e rinunciare ai valori grandi e nobili, da cui passa anche l'educazione culturale". In occasione di Halloween scrivono: "Questo è il giorno in cui il male trova "pieno sfogo", il giorno più pericoloso dell'anno. Ma non gli si da importanza o non ci si crede o solo ci si girà di là . Come se tutto quello che succede, riguardasse solo i cristiani. Anche nelle scuole, così come per il gender e tante altre cose, non c'è possibilità di scelta. Questo è uno dei tantissimi motivi, per cui abbiamo scelto l'educazione familiare". Quello che si rivendica, qui, è il diritto ed educare i propri figli all'omofobia, al dogmatismo, al rifiuto dell'altro. Cosa che, sia chiaro, avviene in moltissime famiglie, cristiane e non cristiane; ma almeno con la possibilità, per i bambini, di ascoltare un punto di vista diverso, di incontrare una persona portatrice di una diversità, di confrontarsi. 
La scuola non sta simpatica a molti; spesso nemmeno a quelli che la fanno. E' affetta da una insopportabile arroganza: nonostante i suoi evidenti, disperanti insuccessi, è sinceramente convinta di essere una istituzione salvifica. Extra Scholam nulla salus. C'è una vera e propria religione della scuola, con i suoi dogmi ed i suoi rituali. Una religione che, come tutte le religioni, va demistificata. Ma non è una buona idea sostituirla con la religione della famiglia. 

L'immagine è ripresa da http://www.catholicallyear.com.

Articolo apparso su Gli Stati Generali.

Adeste, fideles!

Quello che sta accedendo in questi giorni non è soltanto il vergognoso attacco mediatico-politico ad un preside la cui unica colpa è stata quella di aver adoperato un po’ di buon senso e di non aver dimenticato il sacrosanto principio della laicità della scuola pubblica. Quello che sta accadendo è un più generale attacco alla autonomia della scuola pubblica, di cui si vorrebbe fare uno strumento docile al servizio delle fobie identitarie di un popolo la cui unica, vera identità da gran tempo è fragilmente abbarbicata alla pratica del consumo ed a vacui rituali televisivi. Quella che si vorrebbe è la scuola rassicurante e prona nella quale si rende omaggio a tutte le autorità, si esaltano tutti i buoni valori, si accoglie il diverso ma a condizione che non rompa le scatole e non pretenda di essere riconosciuto realmente come diverso. Quella che si vuole è una scuola cattolica, nazionalpopolare, appiattita sugli pseudo-valori dominanti, che riproduce la miseria culturale, morale e politica attuale, invece di essere il posto nel quale si potrebbe cercare, pur tra mille difficoltà, una società migliore, la via d’uscita dal pantano nel quale il paese è finito da qualche decennio. Quello che si vuole è togliere al paese la speranza già flebile che la scuola possa cambiare qualcosa. Quella che si vuole è una scuola non solo sottomessa docilmente agli umori della politica – un politico serio, chiamato a dire la sua su una qualsiasi decisione di una scuola, dovrebbe semplicemente rispondere: “rispetto l’autonomia di quella scuola” -, ma anche ridotta ai capricci delle famiglie. 
Il buon Comenio, tra i fondatori della scuola moderna, pubblica e gratuita per tutti, faceva un ragionamento semplice. E’ solo attraverso l’educazione, diceva, che si diventa realmente esseri umani, come dimostra il fatto che bambini abbandonati e cresciuti nei boschi hanno tratti più animaleschi che umani. Se capita di nascere in una famiglia che non è in grado di dare una buona educazione, non si avrà dunque la possibilità di diventare pienamente umani. Occorre allora che ci sia una istituzione apposita per l’educazione, e che questa istituzione sia aperta a tutti, perché tutti hanno il diritto di diventare pienamente umani. Un discorso, dunque, che ha come premessa una certa sfiducia nei confronti della famiglia: ed è su questa sfiducia che si è costruita la scuola moderna. Ora, è una sfiducia che si può criticare, ed è un gran bene che si sia giunti, invece, a considerare la scuola e la famiglia come due istituzioni che operano insieme, in modo paritario, per l’educazione dei bambini e dei ragazzi. Ma quello che sta avvenendo adesso è il rovesciamento del discorso di Comenio. Si sta diffondendo l’idea che la famiglia offre al bambino le prime cure e gli dà la prima educazione, gli trasmette i valori e l’identità, affidandolo poi ad una istituzione diseducativa, nella quale impara cose sbagliate, smarrisce la propria identità, viene affidato a docenti che non sono veri professionisti dell’educazione. Lo Stato crea la scuola perché non ha fiducia nei genitori e nelle famiglie; ora sono i genitori che, non avendo fiducia nella scuola, la attaccano: ed i rappresentanti dello Stato danno loro voce. Si è spezzato il necessario rapporto di fiducia reciproca tra scuola e famiglia, e questo è uno dei problemi più gravi ed urgenti della società italiana. Questo rapporto di fiducia si può ricostruire in due modi: in alto o in basso. In alto, se famiglie e scuole, insieme, si fermano a riflettere sui loro modelli educativi e si impegnano a cercare un’educazione rispettosa della personalità di bambini e ragazzi, chiedendosi anche in che modo e per quali vie, educando, si possa costruire una società migliore. In basso, se la scuola, timorosa delle reazioni isteriche di qualche genitore, pronto a scatenare una canea mediatica e politica, si mette al servizio della peggiore pseudo-identità catto-fascista-leghista di tante famiglie. Le scuole si riempiranno di crocifissi, di presepi, di canti natalizi, forse anche di buoni sentimenti deamicisiani: ma non avrà più molto a che fare con l’educazione, e si giungerà a dover chiedere l’autorizzazione dei genitori anche per studiare lo scandaloso Freud. 
Adeste fideles è il canto natalizio che i genitori avrebbero voluto insegnare agli studenti nella scuola di Rozzano. Adeste fideles læti triumphantes: venite fedeli, lieti e trionfanti. Le parole, oggi, hanno un suono sinistro. No, fedeli, mi dispiace. Credete in quello che vi pare, celebrate il vostro Natale, il vostro Ramadan, il vostro Vesak, massacrate gli agnelli a Pasqua in onore del vostro Dio, mettetevi il velo se vi piace o rapatevi la testa, fate il pellegrinaggio alla Mecca o alla santa casa di Loreto: ma lasciate in pace la scuola pubblica.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.