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Blog di Antonio Vigilante

Buon anno vecchio

Gli antichi greci vedevamo molte cose diversamente da noi. Tra queste, il tempo. Dicevano che il futuro è dietro le spalle ed il passato è davanti a noi. A pensarci, avevano ragione. Davanti a noi c’è quello che vediamo, alle nostre spalle ciò che ignoriamo: ed il passato è ciò che conosciamo, che rivediamo, cui ripensiamo. Il futuro non è. Ed allora cosa opportuna sarebbe augurarsi buon anno vecchio, più che buon anno nuovo. Perché il senso della nostra vita dipende in larga misura dal modo in cui interpretiamo il passato che abbiamo davanti agli occhi. Se lo vediamo come un paesaggio caotico, la rappresentazione di un pittore particolarmente fantasioso e bizzarro o il paesaggio smorto partorito dalla malinconia di un artista senza troppa voglia di vivere, è difficile che i giorni in cui scivoliamo possano portarci qualcosa di buono - quel po’ di bene in cui incapperemo scorrerà via come vino in un vaso rotto, per usare un’immagine di Lucrezio. Siamo creature di senso, ed il senso ci viene dal passato. Da un passato che può essere anche infelice, travagliato, pieno di errori, ma cui non è mai impossibile dare una forma ed una direzione. Buon anno vecchio, dunque.

Recupero questo post dal mio vecchio blog Minimo Karma, affondato con Blogsome ormai da qualche anno, grazie alla WayBack Machine di Internet Archive.

27 dicembre, domenica

Lui. Loro. Io? Lui: si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere. Si trascina, orribilmente deforme, faticando per non cadere: e chiede l'elemosina. Ha un bicchiere in mano, e allunga la mano verso i passanti, cercando di non cadere. Orribilmente deforme. Loro: loro passano, orribilmente euformi, e ridono e parlano e guardano le bancarelle di Natale e le vetrine dei negozi e il grande albero di Natale in fondo al corso, davanti alla villa comunale. Loro vanno: è la loro natura, quella di andare. Io? Io guardo lui e loro. Ed ho voglia di piangere. Lui è una delle comparse della vita. Uno di quelli che conosci, ci sono da sempre, ma non sapresti dire il loro nome: ma ci sono, li conosci, fanno parte della tua vita. Aveva una forma, una volta. Era un essere umano. Parlava poco, per quello che ricordo: ma era un essere umano. Cosa lo ha ridotto così? Che è successo? Quando s'è perso, e come? E perché nessuno lo guarda? Perché nessuno ha voglia di piangere? 
Era da tanto che il Natale non era così bello, dicono. Così luminoso, così festoso. Così.

Gli omosessuali mangiano i bambini: parola di Ida Magli


Gli ebrei amano frequentare ambienti sordidi, sporchi, oscuri, perché meglio si accordano con la loro natura. L'essere ebrei ha molto a che fare con l'antropofagia ed addirittura con la puerofagia. La società umana è letteralmente finita nel momento stesso in cui si è riconosciuto agli ebrei il diritto di essere ebrei. Esiste un piano dei poteri transnazionali per ebraizzare la popolazione mondiale e renderla così docile e malleabile. Se qualcuno scrivesse simili castronerie razzistiche in un libro, con ogni probabilità incontrerebbe grandi difficoltà a pubblicarlo. Riuscirebbe a farlo con qualche piccolissimo editore, di quelli a pagamento, o magari ricorrendo all'autopubblicazione. Nessun grande editore si azzarderebbe a pubblicarlo; e se accadesse, la cosa susciterebbe un grave scandalo nazionale. 
Se sostituiamo agli ebrei gli omosessuali, troviamo tutte le affermazioni succitate nell'ultimo libro di Ida Magli, Figli dell'uomo. Duemila anni di mito dell'infanzia, pubblicato a novembre da Rizzoli. In teoria, e stando alla quarta di copertina, dovrebbe essere un libro di antropologia sulla condizione dell'infanzia nei secoli; in pratica è un libro abbastanza sconclusionato - che termina con un capitolo nel quale si dimostra, o si cerca di dimostrare, la tesi bizzarra che l'attitudine musicale è collegata geneticamente ad una capigliatura folta, che non c'entra molto con il resto del libro - tenuto su soprattutto dall'attacco agli omosessuali. L'infanzia è sempre stata una brutta faccenda; ovunque i bambini sono stati sottoposti a forme terribili di violenza: è una cosa vera, e Magli fa bene a ricordarcelo, benché lo faccia senza andare granché a fondo anche dal punto di vista della documentazione (la bibliografia è striminzita per un libro che ha la pretesa di raccontare "duemila anni di mito dell'infanzia"). E che c'entrano gli omosessuali? Seguiamo, per quanto possibile, il ragionamento dell'antropologa. Esistono alcuni organismi sovranazionali - Onu, Oms, Unione Europea - che incitano all'omosessualità. Ora, essere omosessuali significa non procreare; e se non si procrea, la società muore. Dunque incitare i maschi "a vedere come un ideale la condizione degli omosessuali, perdendo la fiducia nella propria identità sessuale, è simile all'antropofagia" (p. 34). Naturalmente con lo stesso rigore logico si potrebbe associare all'omosessualità qualsiasi cosa. Il secondo passaggio è il seguente: omosessualità e antropofagia sono analoghe, almeno simbolicamente; "per quanto riguarda i bambini lo è molte volte in concreto la pedofilia, anche se gli storici dell'antichità non ne hanno mai parlato" (p. 46). Di più: dopo aver evocato la pedofilia, Magli passa alla puerofagia, il mangiare i bambini. Ci si aspetterebbe qualche pagina di chiarimento, una analisi approfondita dei legami tra omosessualità e puerofagia, ma Magli si lancia in un excursus non troppo rigoroso sulla pratica dei sacrifici infantili, senza dimostrare alcun legame con l'omosessualità. Del resto, la sua tesi si partenza è che l'antropofagia è un atto antropologico originario. L'uomo, dotato di denti, percepisce l'altro primariamente come colui che può essere mangiato; e ad essere mangiato sarà per primo il bambino, colui che non ha denti. La tesi si dimostra facilmente: è sufficiente pensare che nel 1729 Jonathan Swift ha pubblicato la Modesta proposta, nella quale proponeva di commercializzare la carne di bambino. Così come basta una intervista di Jean Genet nella quale si definisce "frocio" per dimostrare che gli omosessuali hanno a che fare con tutto ciò che è sporco. "L'omosessualità sembrerebbe appartenere a un mondo che cerca ciò che d'abitudine non piace a nessuno: gli esseri sconosciuti, il buio, lo sporco, i cattivi odori, i luoghi miseri e abbandonati come se fossero gli unici stimoli adatti a richiamare l'analità del rapporto sessuale" (p. 36). Come se il rapporto "secondo natura" profumasse invece di violetta. 
I duemila anni di storia del bambino che narra un po' frettolosamente vanno dall'antichità fino al 25 luglio 2014, "data che ha segnato in maniera inequivocabile la fine della società" (p. 11). Che è successo di così grave il 25 luglio del 2014? Qualche omosessuale ha mangiato un bambino in piazza? Peggio: Banca Intesa San Paolo ha deciso di riconoscere ai suoi dipendenti omosessuali il diritto a quindici giorni retribuiti in caso di matrimonio. Ida Magli ha novant'anni. Per alcuni è l'età della saggezza, per altri evidentemente no. In passato ha scritto cose interessanti. Da qualche anno è diventata paladina dell'identità italiana, con l'antieuropeismo ed anti-islamismo che ne conseguono. La fragilità delle sue tesi fa sorridere; è evidente, solo per fare un esempio, la contraddizione di una antropologa che da un lato sostiene che in tutte le culture i bambini sono stati vittime di terribili violenze, compresa la puerofagia, e dall'altra contro il riconoscimento dei diritti degli omosessuali usa come argomento il fatto che esso "si scontra con le norme tanto religiose quanto civili della maggior parte delle popolazioni" (p. 15). Delle due l'una: o il fatto antropologico è aberrante, e va giudicato, mandando all'aria l'avalutatività weberiana e lo sguardo emico degli antropologi, ed allora conta poco che le norme civili e religiose delle popolazioni dicano questo o quest'altro, oppure esso è valido e vincolante, ed allora è giustificabile anche la violenza sull'infanzia, proprio perché è un fatto antropologicamente ricorrente e culturalmente codificato. 
Il problema non è che Ida Magli pensi queste cose. Il problema è che Rizzoli le pubblichi. Se il libro fosse stato pubblicato da un altro editore, lo si sarebbe passato sotto silenzio, come merita. Ma Rizzoli è uno dei maggiori editori italiani, e il libro è in tutte le librerie. L'autrice è presentata nella quarta di copertina come autorevole "antropologa e saggista", i cui libri sono tradotti in numerosi paesi. Le atrocità omofobiche di questo libro si presentano al lettore meno avvertito sostenute da una duplice garanzia: da una parte quella della scienza (l'autrice è un'antropologa), dall'altra quella dell'editoria. La domanda dunque è: perché Rizzoli pubblica un libro pieno di gravissime affermazioni omofobiche?

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

I rischi dell'homeschooling


La pratica dell'homeschooling, o scuola parentale - istruire i propri figli a casa, rifiutando l'istituzione scolastica - si sta rapidamente diffondendo anche in Italia, benché non sia facile ottenere numeri sulla esatta entità del fenomeno. L'impressione è che si tratti di un realtà che coinvolge ancora poche famiglie ma che si sta rapidamente espandendo. Le ragioni sono piuttosto facili da individuare: la crescente insoddisfazione verso la scuola pubblica da un lato, l'esigenza di vivere nel modo più pieno possibile la genitorialità dall'altro. Homeschooling di Erika Di Martino, pubblicato in proprio lo scorso anno, ne è il manifesto nel nostro paese. L'autrice ha lasciato l'insegnamento per dedicarsi all'istruzione dei figli ed ha creato il network www.educazioneparentale.org ed il blog www.controscuola.it, che sono diventati punti di riferimento per le famiglie che decidono di seguire questa via. Nel suo libro presenta l'esperienza scolastica come una violenza cui si sottopongono i bambini, sradicandoli dall'ambiente familiare e dalle relazioni con i genitori e i fratelli per inserirli in un ambiente freddo ed artificiale, nel quale vivono emozioni negative e stress che avranno effetti devastanti sulla loro vita adulta. Per Di Martino la scuola pubblica, non più elitaria dopo il '68, è una scuola di massa che educa essenzialmente al consumo ed all'accettazione del sistema socio-economico in cui siamo ("l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com'è", per dirla con l'Ivan Illich in Descolarizzare la società). Ricorrere, per dimostrare la tesi, ad una affermazione del ministro Baccelli datata 1894 ("Non devono pensare, altrimenti sono guai": affermazione che si riferiva in verità solo all'istruzione femminile, non all'istruzione in generale) non è granché come argomento, così come è ingenuo sostenere che lo Stato "ieri come oggi, ha bisogno di una popolazione docile e ignorante da manovrare a proprio piacimento". Una popolazione ignorante è tutto fuori che facilmente governabile. Proprio perché chi è ignorante può essere facilmente manovrato, indottrinato, plagiato, dove c'è ignoranza attecchiscono facilmente fenomeni preoccupanti per la stabilità dello Stato: il fanatismo, il fondamentalismo religioso, l'antipolitica rozza, il fascismo. Piuttosto, è vero che la scuola rende canonica ed ufficiale un certo tipo di cultura, che è quella delle classi dominanti, e così facendo giustifica e rafforza le differenze di classe: una osservazione che dev'essere attentamente rimeditata, in tempi di cultura di massa e di crisi della classe media, ma che mi pare che abbia ancora una qualche validità. 
Ci sono molte buone ragioni per criticare la scuola pubblica, ma è lecito dubitare che l'homeschooling sia la soluzione. Provo a spiegare per quali ragioni. 
Uno. Per dedicarsi a tempo pieno all'istruzione dei propri figli occorre avere molto tempo. Può farlo chi vive di rendita o, come appunto Erika Di Martino, ha rinunciato al proprio lavoro per questa missione. Ma c'è il rischio evidente che si finisca per attribuire nuovamente alla donna il compito di badare alle faccende domestiche, aggiungendo il ruolo di maestra a quelli di moglie e madre, mentre l'uomo si occupa di portare il pane a casa (il male breadwinner della tradizione). Nulla, si dirà, impedisce che i ruoli si inventano, e sia il padre a fare da maestro, ma non mi pare che questa inversione sia molto diffusa nel nostro paese. In ogni caso, uno dei due coniugi deve sacrificare la propria vita lavorativa per la missione domestica ed educativa
Due. In questo voler trattenere con sé i propri figli c'è una concezione totalizzante della genitorialità che può essere pericolosa. E' cosa buona e giusta che molti genitori vogliano vivere in modo più intenso il proprio essere genitori. E' cosa meno buona, se vogliono sostituirsi a qualsiasi altra figura, negando a chiunque il diritto di contribuire all'educazione dei loro figli. Marcello Bernardi parlava, in Educazione e libertà, del pericolo rappresentato da quelle madri che vogliono essere Madri con la maiuscola. 
Tre. Di Martino ritiene che la socializzazione di massa della scuola si accordi pienamente con le esigenze dell'economia neoliberista. L'argomento di può rovesciare: negare alla scuola ed alla comunità il diritto di educare, riconoscendo questo diritto solo alla famiglia, significa opporsi all'idea stessa di un legame sociale, e concepire la società come un insieme di atomi familiari. Il pubblico ed il politico cedono al privato: ma non è proprio questo che vuole l'economia liberista? Non escludo che vi siano, tra le famiglie che praticano homeschooling o ne sono affascinate, anche famiglie sinceramente anticapitaliste: famiglie senza televisore, ad esempio, o alla ricerca di stili di vita alternativi. Famiglie che temono, per dire, che i loro figli nella scuola pubblica imparino a desiderare i giocattoli pubblicizzati dalla televisione. E' un timore condivisibile. Ma sottrarsi allo spazio pubblico non è la soluzione. La soluzione è rivendicare uno spazio pubblico che sia critico: esigere una scuola che ragioni sui consumi ed educhi fin da piccoli a riconoscere i bisogni necessari da quelli indotti. 
Quattro. Gandhi non mandò a scuola i suoi figli: si assunse il compito di educarli da sé. Ma lo fece malissimo, ed uno dei suoi figli lo rimproverò per tutta la vita di non avergli dato un'istruzione. I docenti possono essere preparatissimi ed avere sensibilità educativa o avere una cultura passabile ed una sensibilità educativa pessima: ma sono sottoposti ad una selezione ed a più valutazioni, non ultima quella dei genitori. I quali, se proprio trovano inaccettabili i metodi del maestro o dei maestri, possono chiedere di cambiare classe o scuola. Un bambino che abbia dei genitori-maestri incapaci non può cambiare famiglia. 
Cinque. La scuola, come ho detto, è uno spazio pubblico. La porta dell'aula non è mai davvero chiusa. Di quello che accade in aula gli studenti parlano con i genitori: un errore, una uscita infelice, una osservazione politicamente scorretta diventano motivo di discussione tra i docenti, quando non facile pretesto per miserabili campagne politico-giornalistiche. La strumentalizzazione è un male, il controllo è un bene. Un errore educativo può essere corretto, una persona inadeguata allontanata. Non si può dire lo stesso di una famiglia. Quello che vi accade è chiuso allo sguardo pubblico. 
Sei. Uno dei non pochi gruppi Facebook dedicati in Italia all'homeschooling si chiama Homeschooling Famiglie Cristiane. In uno degli ultimi post si legge: "In questo periodo difficile è certamente l'unione che fa la forza. E se si alza la voce (e non solo) per idee malate che vogliono propinarci come giuste e buone per i nostri Figli, noi non dobbiamo mai abbassare la guardia e rinunciare ai valori grandi e nobili, da cui passa anche l'educazione culturale". In occasione di Halloween scrivono: "Questo è il giorno in cui il male trova "pieno sfogo", il giorno più pericoloso dell'anno. Ma non gli si da importanza o non ci si crede o solo ci si girà di là . Come se tutto quello che succede, riguardasse solo i cristiani. Anche nelle scuole, così come per il gender e tante altre cose, non c'è possibilità di scelta. Questo è uno dei tantissimi motivi, per cui abbiamo scelto l'educazione familiare". Quello che si rivendica, qui, è il diritto ed educare i propri figli all'omofobia, al dogmatismo, al rifiuto dell'altro. Cosa che, sia chiaro, avviene in moltissime famiglie, cristiane e non cristiane; ma almeno con la possibilità, per i bambini, di ascoltare un punto di vista diverso, di incontrare una persona portatrice di una diversità, di confrontarsi. 
La scuola non sta simpatica a molti; spesso nemmeno a quelli che la fanno. E' affetta da una insopportabile arroganza: nonostante i suoi evidenti, disperanti insuccessi, è sinceramente convinta di essere una istituzione salvifica. Extra Scholam nulla salus. C'è una vera e propria religione della scuola, con i suoi dogmi ed i suoi rituali. Una religione che, come tutte le religioni, va demistificata. Ma non è una buona idea sostituirla con la religione della famiglia. 

L'immagine è ripresa da http://www.catholicallyear.com.

Articolo apparso su Gli Stati Generali.

Adeste, fideles!

Quello che sta accedendo in questi giorni non è soltanto il vergognoso attacco mediatico-politico ad un preside la cui unica colpa è stata quella di aver adoperato un po’ di buon senso e di non aver dimenticato il sacrosanto principio della laicità della scuola pubblica. Quello che sta accadendo è un più generale attacco alla autonomia della scuola pubblica, di cui si vorrebbe fare uno strumento docile al servizio delle fobie identitarie di un popolo la cui unica, vera identità da gran tempo è fragilmente abbarbicata alla pratica del consumo ed a vacui rituali televisivi. Quella che si vorrebbe è la scuola rassicurante e prona nella quale si rende omaggio a tutte le autorità, si esaltano tutti i buoni valori, si accoglie il diverso ma a condizione che non rompa le scatole e non pretenda di essere riconosciuto realmente come diverso. Quella che si vuole è una scuola cattolica, nazionalpopolare, appiattita sugli pseudo-valori dominanti, che riproduce la miseria culturale, morale e politica attuale, invece di essere il posto nel quale si potrebbe cercare, pur tra mille difficoltà, una società migliore, la via d’uscita dal pantano nel quale il paese è finito da qualche decennio. Quello che si vuole è togliere al paese la speranza già flebile che la scuola possa cambiare qualcosa. Quella che si vuole è una scuola non solo sottomessa docilmente agli umori della politica – un politico serio, chiamato a dire la sua su una qualsiasi decisione di una scuola, dovrebbe semplicemente rispondere: “rispetto l’autonomia di quella scuola” -, ma anche ridotta ai capricci delle famiglie. 
Il buon Comenio, tra i fondatori della scuola moderna, pubblica e gratuita per tutti, faceva un ragionamento semplice. E’ solo attraverso l’educazione, diceva, che si diventa realmente esseri umani, come dimostra il fatto che bambini abbandonati e cresciuti nei boschi hanno tratti più animaleschi che umani. Se capita di nascere in una famiglia che non è in grado di dare una buona educazione, non si avrà dunque la possibilità di diventare pienamente umani. Occorre allora che ci sia una istituzione apposita per l’educazione, e che questa istituzione sia aperta a tutti, perché tutti hanno il diritto di diventare pienamente umani. Un discorso, dunque, che ha come premessa una certa sfiducia nei confronti della famiglia: ed è su questa sfiducia che si è costruita la scuola moderna. Ora, è una sfiducia che si può criticare, ed è un gran bene che si sia giunti, invece, a considerare la scuola e la famiglia come due istituzioni che operano insieme, in modo paritario, per l’educazione dei bambini e dei ragazzi. Ma quello che sta avvenendo adesso è il rovesciamento del discorso di Comenio. Si sta diffondendo l’idea che la famiglia offre al bambino le prime cure e gli dà la prima educazione, gli trasmette i valori e l’identità, affidandolo poi ad una istituzione diseducativa, nella quale impara cose sbagliate, smarrisce la propria identità, viene affidato a docenti che non sono veri professionisti dell’educazione. Lo Stato crea la scuola perché non ha fiducia nei genitori e nelle famiglie; ora sono i genitori che, non avendo fiducia nella scuola, la attaccano: ed i rappresentanti dello Stato danno loro voce. Si è spezzato il necessario rapporto di fiducia reciproca tra scuola e famiglia, e questo è uno dei problemi più gravi ed urgenti della società italiana. Questo rapporto di fiducia si può ricostruire in due modi: in alto o in basso. In alto, se famiglie e scuole, insieme, si fermano a riflettere sui loro modelli educativi e si impegnano a cercare un’educazione rispettosa della personalità di bambini e ragazzi, chiedendosi anche in che modo e per quali vie, educando, si possa costruire una società migliore. In basso, se la scuola, timorosa delle reazioni isteriche di qualche genitore, pronto a scatenare una canea mediatica e politica, si mette al servizio della peggiore pseudo-identità catto-fascista-leghista di tante famiglie. Le scuole si riempiranno di crocifissi, di presepi, di canti natalizi, forse anche di buoni sentimenti deamicisiani: ma non avrà più molto a che fare con l’educazione, e si giungerà a dover chiedere l’autorizzazione dei genitori anche per studiare lo scandaloso Freud. 
Adeste fideles è il canto natalizio che i genitori avrebbero voluto insegnare agli studenti nella scuola di Rozzano. Adeste fideles læti triumphantes: venite fedeli, lieti e trionfanti. Le parole, oggi, hanno un suono sinistro. No, fedeli, mi dispiace. Credete in quello che vi pare, celebrate il vostro Natale, il vostro Ramadan, il vostro Vesak, massacrate gli agnelli a Pasqua in onore del vostro Dio, mettetevi il velo se vi piace o rapatevi la testa, fate il pellegrinaggio alla Mecca o alla santa casa di Loreto: ma lasciate in pace la scuola pubblica.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

Educazione Democratica è morta: viva Educazione Democratica

Educazione Democratica non c'è più. In seguito ad un disaccordo con il sottoscritto, direttore scientifico della rivista, le Edizioni del Rosone hanno deciso, in modo unilaterale e senza alcun preavviso, di andare in tribunale per chiudere la rivista. Ma Educazione Democratica non è solo una rivista registrata al tribunale. E' una comunità di ricerca internazionale che in questi anni ha rappresentato una delle poche voci in difesa di una pedagogia autenticamente democratica, antiautoritaria, aperta. Una voce che non sarà il miserabile livore di un piccolo editore di provincia a far tacere. Anzi: senza l'impaccio di un editore non in grado di starci dietro riusciremo a far sentire la nostra voce in modo anche più forte e limpido. In quale forma, non lo sappiamo ancora. Ma è certo che non ci fermiamo.

10 novembre, martedì

In prima pagina di Repubblica c'è il papa che dice: "La Chiesa non sia ossessionata dal potere". Bene, bello. Ma: se oggi Repubblica dedica la prima pagina a quello che dice il papa, è perché da duemila anni a questa parte la Chiesa è stata ossessionata dal potere. E' perché la Chiesa è scesa a patti con l'Impero. E' perché San Paolo ha detto che tutte le autorità terrene sono volute da Dio, e che gli schiavi devono obbedire ai padroni perché è quello che Dio vuole. E' perché l'Impero ha dato alla Chiesa il potere di perseguitare pagani ed ebrei. Eccetera. 
Il papa sta seduto su una montagna di merda e si lamenta della puzza.

7 novembre, sabato

Nell'autobus una decina di richiedenti asilo. Due ragazzi del Bangladesh, gli altri sono africani. Mentre osservo, più di quanto sarebbe opportuno, uno di loro seduto di fronte a me, penso che il suo volto interamente segnato e sfregiato da cicatrici dovrebbe essere uno dei dati elementari da cui partire per costruire una vita comune decente.

27 ottobre, martedì

Molti anni fa ero obiettore di coscienza in una casa famiglia. Una sera, sul tardi, ero in cucina, quando mi sentii chiamare dalla cameretta dai ragazzi. Era Robertino, il più piccolo: un fuscello di sette anni che mi faceva una gran tenerezza. Mi chiese un bicchiere d'acqua. Glielo portai. Bevve, poi mi fece la domanda che voleva farmi da tempo: "Ma davvero tu non credi in Dio?". Se ne parlava molto, evidentemente: era una struttura cattolica. "No", gli dissi. "No, Robertino, ma ora dormi".
E' stata l'unica volta in vita mia che ho mentito sul mio ateismo, o sulle mie convinzioni in generale.
Robertino è diventato Roberto. Poi, ieri, è morto.

25 ottobre, domenica

Alla sinagoga di Pitigliano una signora è incredula: ma davvero il marito dovrà indossare quello strano cappellino per entrare? ma che cosa inaudita! Le spiego che non c'è nulla di particolarmente strano: nella sinagoga gli uomini mettono la kippah, come nelle moschee le donne mettono il velo. Ah, ma io in moschea non ci andrò di certo, dice la signora.
All'ingresso del ghetto ci sono due soldati con il mitra spianato. Il ghetto di Pitigliano lo chiamano "la piccola Gerusalemme", ed in effetti sembra di stare a Gerusalemme. Anche se qui gli ebrei rimasti si contano con le dita delle mani.

24 ottobre, sabato

Milano, zona duomo. Un senegalese vende quei libretti che prendevo spesso a Bari, davanti alla Feltrinelli. Gli chiedo di farmi dare uno sguardo per vedere se c'è qualcosa che non ho. Ne prendo tre: venti euro. Il ragazzo è entusiasta dell'affare. Ti regalo dei braccialetti, dice. No, dico, lascia stare. Sì, dai, dice. Ti do un braccialetto per ogni figlio che hai. Quanti figli hai? Nessun figlio. Ah: e si rattrista per un attimo, come se gli avessi confessato di avere una grave malattia. Poi riconquista il sorriso, mi regala comunque tre braccialetti colorati e mi ringrazia quasi l'avessi salvato da morte certa.
Trenta passi più in là scopro che uno dei libri ha una pagina stampata e una no. Per un attimo penso che sarebbe bello scrivere le pagine non stampate. Un attimo dopo concludo che sarebbe ancora un'attività con un telos: havel havalim.
Alla stazione, seduto di fronte alla Feltrinelli, improvvisamente mi sembrano tutti morti. Paura. Angoscia. Liberazione.

Sinistra e nonviolenza


Dopo Arturo Paoli ci ha lasciati, anch'egli centenario, Pietro Ingrao. Lo incontrai nell'ormai lontano 2001, in una tavola rotonda in Campidoglio sul tema "Sinistra e nonviolenza" cui partecipò anche il compianto Tom Benetollo. Ricordo che Ingrao parlò a lungo di Capitini, e delle riserve che suscitava il suo vegetarianesimo. "Con Paolo Solari andammo ad Assisi. C’era anche Capitini. Io e Solari, a tavola, ci demmo  i gomiti perché Capitini era vegetariano. Non capivamo come anche quello fosse un suo modo di praticare la nonviolenza". Ed ammetteva: "Rispetto al messaggio di Capitini, noi abbiamo camminato su una strada diametralmente opposta che ci ha condotto alla rivalutazione della grande guerra di massa. Una guerra non più difensiva, come vorrebbe l’articolo 11 della nostra costituzione, né di necessità ma ‘bene in sé’".
Io mi portai una decina di pagine di appunti, ma il mio intervento durò non più di un quarto d'ora, e dissi un terzo delle cose che avrei voluto dire. Mentre parlavo un ragazzo sudamericano in prima fila - la sala del Carroccio in Campidoglio era gremita di giovani: molti ragazzi erano seduti a terra - aveva gli occhi chiusi. Pensai che dormisse o fosse annoiato. Alla fine dell'incontro, invece, venne a parlarmi del Sudamerica, e delle dinamiche di potere e di dominio: e del bisogno di cambiarle.
Quelli che seguono sono gli appunti di allora.

Sinistra e nonviolenza

Il problema dell'élite 

In un recente articolo apparso in Mondoperaio Giancarlo Bosetti, parlando di quelli che chiama i nuovi vizi della sinistra italiana, scrive che la «democrazia è competizione tra élite, non è sostituzione di masse al posto di élite - salvo che nelle utopie rivoluzionarie...» [1] Proprio questo considerare la democrazia affare esclusivo della élite dei politici è, dal punto di vista della nonviolenza, un vizio antico della sinistra, un vizio più grave dei nuovi vizi dell'inerzia e del cinismo, della mancanza di principi, della rigidità e pigrizia mentale denunciati da Bosetti. Non solo: non è difficile accorgersi che questi nuovi vizi scaturiscono da quel vecchio vizio di considerare la politica affare dei politici. Ha ragione Bosetti quando nota ancora che lo stile del politico di sinistra deve essere sobrio ed irreprensibile. Certo, c'è l'esempio di Berlusconi, leader politico che poco coltiva la sobrietà come stile di vita. Ma non vale evocare questo modello negativo: «Le regole per la sinistra - osserva Bosetti - sono più dure perché comunque alla politica la sinistra chiede di più» [2]. È vero: la sinistra chiede di più alla politica. Ma anche questo di più appare insufficiente dal punto di vista della nonviolenza. Alla politica la sinistra chiede una élite di uomini seri, onesti, rigorosi: o almeno di uomini che appaiano tali. A quanto pare non è fondamentale, per Bosetti, che queste qualità siano realmente possedute dai politici di sinistra. Occorre, dice, che egli «si presenti» come un uomo affidabile e aggiunge: «naturalmente se poi lo è davvero meglio ancora...» [3]. Ecco, insomma, il ragionamento: al politico occorre consenso; per ottenere consenso il politico deve mostrare qualità che lo rendano simpatico alla gente; queste qualità devono essere mostrate, ma non necessariamente possedute. Il politico non deve dimostrarsi cinico, perché alla gente il cinismo non piace. Poco importa che proprio in questo non mostrarsi cinico ci sia molto cinismo. 
Tutto ciò c'entra poco con la nonviolenza. C'entra poco il discorso sulle élite. Che la politica sia di fatto affare di élite è cosa non nuova: lo sapeva già il lettore degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca. Ma questo è un giudizio di fatto, non un giudizio di valore. Che anche negli stati democratici il potere sia nelle mani di un ristretto numero di persone non è, dal punto di vista della nonviolenza, un fatto che si possa accettare pacificamente. Le teorie che rifiutano il principio delle élite sono, per Bosetti, utopie rivoluzionarie. La nonviolenza critica e combatte la realtà della élite: essa è, in effetti, una teoria politica a carattere rivoluzionario, come meglio vedremo in seguito. Non credo che si possa accettare per la nonviolenza anche la definizione di utopia. Utopia non è una brutta parola, ma temo che per molti questo equivalga a spingere la nonviolenza nel mondo dei sogni, dove si realizzano mondi perfetti che purtroppo nulla hanno a che fare con la realtà. Quanto s'è detto ci aiuta a comprendere per quale motivo la nonviolenza non può essere politica di partito. Un partito è in competizione con altri partiti. Deve ottenere consenso, pena la propria scomparsa. Un partito difende se stesso, la propria identità, la propria causa, i propri uomini. Un partito esprime una classe politica, una classe di persone che prendono su di sé la responsabilità di gestire la cosa pubblica nell'interesse di tutti. Ma inevitabilmente in questa lotta molti scrupoli vanno perduti, molti principi si smarriscono nel gioco della alleanze, posizioni giuste ma impopolari vengono abbandonate. La politica oscilla tra due poli: da una parte quella di chi cerca consenso facendo leva sugli interessi e gli egoismi delle classi sociali giunte al benessere, manovrando abilmente le paure legate alla criminalità, alla immigrazione, ai cambiamenti sociali; dall'altra, quella di chi si mostra tollerante, aperto, progressista, presentando idee e programmi gradevoli, fin troppo facilmente condivisibili. Nel secondo caso il candidato deve impegnarsi di più, perché la sinistra, come dice Bosetti, chiede di più alla politica. Ma è una fatica per ottenere successo elettorale per la propria persona e per il proprio schieramento politico; un metodo come un altro per ottenere lo scopo. In entrambi i casi, ciò che si prospetta ai cittadini è un quadro fatto di benessere, sicurezza, sviluppo. Questo chiede oggi la gente alla politica, e questo la politica promette. La nonviolenza è, confrontata con essa, una non-politica, una pre-politica, una post-politica. 
Scriveva Aldo Capitini nel 1949: «La migliore politica oggi è fare qualche cosa di meglio della politica» [4] La sinistra, osservava, segue due metodi. Nelle situazioni di forte autoritarismo cerca di stabilire un potere pieno: è il caso della rivoluzione russa. Nei paesi democratici invece i partiti di sinistra cercano di raggiungere un benessere sempre più vasto. La prima via porta alla dittatura, la seconda al «borghesismo» [5] di chi pensa ad accaparrarsi la fetta più grande possibile di beni, più che a trasformare realmente la realtà economica e sociale. La nonviolenza rigetta la dittatura, ma non accetta nemmeno una semplice politica del benessere. Il suo fine è diverso. Potenza e benessere per Capitini non sono che mezzi: cercati e posti per se stessi danno vita a modelli di società insufficienti. I veri fini dell'attività politica sono altri. La libertà, anzitutto; e poi la solidarietà o socialità. Il potere deve servire come mezzo per la libertà, il benessere deve favorire la solidarietà. Questa è la terza via della nonviolenza: il suo fine è quello di instaurare una società di uomini liberi e solidali, che Capitini chiama realtà di tutti o società aperta. Una società nonviolenta si distingue per il suo carattere inclusivo: è un cerchio che di continuo si espande ed accoglie coloro che sono costretti da qualche insufficienza a separarsi dal corpo sociale. Una tale società non è una società del benessere. Nella corsa al benessere chi resta indietro viene dimenticato, escluso o, nella migliore delle ipotesi, assistito. Diversamente, nella società cercata e concepita sul modello nonviolento chi scivola ai margini è costantemente richiamato al centro come elemento essenziale, come pietra angolare dell'edificio sociale. 

Centro e periferia 

L'Italia nonviolenta pensata ed auspicata da Capitini era un'Italia di periferie che diventano centri. È interessante notare che il tragitto della prima Marcia della pace, organizzata da Capitini nel 1961, attraversava zone periferiche, proprio con l'intento di raggiungere persone tagliate fuori dal potere. L'omnicrazia, il potere di tutti doveva partire da queste periferie, dalle borgate, dai paesini semi-abbandonati. Perché proprio dalle periferie? Perché la periferia è il luogo dell'impotenza, dell'esclusione; il luogo cui corrisponde, sul piano umano, l'esistenza del malato, del portatore di handicap, dell'emarginato. Questi luoghi e questi uomini sono di per sé un atto di accusa contro la società, i suoi valori, la sua economia. Ora, il farsi-centro di queste periferie avviene quando si riesce a suscitarvi una presa di coscienza ed uno sguardo critico verso il centro. Ogni punto sociale ed umano può essere centro dell'universo: questa verità cusaniana è l'anima della teoria politica di Capitini. Uomini che concepiscono se stessi come centri, criticano e si oppongono alla centralità del potere, alla burocrazia, alle decisioni che scendono dall'alto. I cambiamenti necessari vengono attuati spontaneamente, senza attendere che i politici di professione si muovano. Si pensi all'opera di Danilo Dolci. Inizia la sua opera in Sicilia, in luoghi dimenticati ed abbandonati come Partinico e Trappeto. Parla con la gente, fa acquisire coscienza. Fa di questi luoghi un centro, dove si prendono decisioni. Porta i disoccupati a lavorare nella ricostruzione di una strada di campagna abbandonata, con un clamoroso sciopero alla rovescia. Costruisce scuole. Si documenta sugli intrecci tra mafia e politica. La risposta del potere istituzionale è il carcere, l'accusa di turbare l'ordine pubblico, addirittura la definizione di individuo con «spiccata capacità a delinquere» [6].  Queste iniziative erano finalmente una reazione all'impotenza cui la gente di quei luoghi si sapeva condannata; impotenza che nemmeno il fatto che dei bambini morissero di fame sembrava poter scalfire. Attraverso la prassi nonviolenta, veniva restituito loro qualche potere -ma si trattava di un potere ben diverso da quello delle istituzioni. E' lo stesso Dolci a chiarire questo punto, con la sua distinzione tra dominio e potere. Potere, spiega, non è una cosa negativa: potere è possibilità, libertà di fare; una cosa senza la quale l'uomo non è completo, non è autentico. Altra cosa è il dominio, che Dolci definisce un virus per gli effetti terribili che provoca. Il dominio è la degenerazione del potere che impedisce ad altri di esercitare la propria libertà, che frena lo sviluppo e la crescita umana [7].
L'ideale nonviolento è quello di una società dove c'è molto potere e poco o nessun dominio. Non si tratta di prendere per sé il potere e di esercitarlo in nome di una moltitudine. Si tratta, invece, di dare senza mediazioni il potere a quelle moltitudini. Per questo la nonviolenza non poteva accettare la dittatura del proletariato, prevedendo che essa avrebbe prodotto un intollerabile totalitarismo. Per questo la nonviolenza ha rifiutato e rifiuta la forma partitica. Il partito è quella struttura politica che tende inevitabilmente a farsi veicolo del virus del dominio. Capitini notava i pericoli della partitocrazia già nel '45; e proponeva di «Esser pronti a costruire qualche cosa di più che un partito, ma il luogo d'incontro e di superamento dei partiti di sinistra e delle vecchie internazionali in centri instancabili di nuova socialità» [8]. È forse giunto il momento di accogliere questo appello capitiniano, che la sinistra italiana ha ignorato per più di mezzo secolo. Non si combattono le destre, se non lavorando a qualcosa di più importante, più radicale del partito. In un recente studio su Capitini si legge che «in un'epoca che, come poche altre, ha bisogno di eroici slanci costruttivi, il suo messaggio finisce tuttavia per tradursi in un sostanziale rifiuto della competizione, in un rifuggire dalle regole dell'arena» [9]. Questo giudizio impressiona fortemente se si pensa alla attività di Capitini, dagli anni dell'antifascismo al lavoro per l'omnicrazia. Tutto questo lavoro - organizzare incontri, convegni, marce, associazioni e movimenti - non era un rifuggire dalla competizione: era invece la ricerca di una diversa competizione, di una competizione più nobile. È vero, Capitini rifiutava le regole dell'arena, ma insieme a questo rifiuto additava nuove regole, costruiva nuove possibilità di vita politica. Cercava nuove regole perché il gioco, con le regole esistenti, non funzionava. Le regole della competizione politica hanno creato in Italia non pochi guasti, non pochi limiti alla nostra democrazia. Oggi più che mai avvertiamo la necessità di nuove, diverse regole del gioco politico. Ma non si può trattare soltanto di nuove regole elettorali, o di altre riforme dall'alto. Si tratta di cambiare la regola fondamentale che vuole che il fine della politica sia la conquista del potere. Mi pare che la crisi politica attuale imponga alla sinistra il dovere di ridare realmente dignità alla politica. Capitini presentava la sua proposta politica come una libera aggiunta alla opposizione: una aggiunta religiosa, per giunta; un lavoro umile, paziente, silenzioso nell'Italia delle clamorose contrapposizioni ideologiche. Oggi questo aggiunta appare finalmente nella sua essenzialità, perché i partiti mostrano come mai in passato la loro fragilità politica ed il loro essere al servizio del dominio. L'Italia nonviolenta, che Capitini sognava negli anni Cinquanta, l'Italia che doveva raccogliere il meglio dell'antifascismo ed essere da guida all'intera Europa, quell'Italia è ancora possibile; in parte è anche reale, perché tanti sono i movimenti che diffondono ideali legati alla nonviolenza, diverse le associazioni che promuovono una cittadinanza attiva, il controllo dal basso, la critica del dominio e dei suoi abusi. 

I COS 

Capitini ci ha lasciato non solo una concezione generale - tra le più rigorose - della nonviolenza, ma anche un esperimento, storicamente non molto rilevante ma politicamente assai significativo: l'esperimento dei Centri di Orientamento Sociale. Nati dopo la liberazione, i COS ebbero un buon successo iniziale, soprattutto in Umbria. Erano assemblee assolutamente libere, nelle quali ci si ritrovava periodicamente per discutere problemi molto pratici, oppure per affrontare questioni politiche. Alle riunioni partecipavano politici, autorità e gente comune; il suo motto era «ascoltare e parlare»; e la novità era tutta in quest'ultima possibilità: la possibilità di parlare, di comunicare finalmente con le istituzioni. L'Italia usciva dal fascismo, con i discorsi del Duce alle folle oceaniche. Entrava nell'epoca dei comizi contrapposti, degli slogan, dei manifesti, delle grandi semplificazioni. La Democrazia Cristiana non ebbe, per i COS, che ostilità e derisione. Il Partiti Comunista li appoggiò per qualche tempo, poi li abbandonò a se stessi. Brevemente l'esperienza dei C.O.S. cessò. È importante il commento di Capitini su questo fallimento: «Non lo stato antifascista, ma molto meno quello che seguì al 1948, erano in grado di valersi dei COS ed inserirli nella struttura pubblica italiana, ad integrazione della limitata democrazia rappresentativa del parlamento e dei consigli comunali e provinciali. Né le forze di opposizione di sinistra, tese nella speranza di una presa del potere, si curarono di apprestare uno strumento così elementare per la convocazione della popolazione e dell'opinione pubblica, anche in considerazione della insufficiente diffusione dei giornali. Si aprì invece un periodo in cui le ricche destre avrebbero rovesciato sugli italiani, e specialmente sugli strati meno politicizzati come quello delle donne, tonnellate di periodici illustrati, sostanzialmente di gusto antirivoluzionario ed evasivo» [10].  Mi pare che da questa analisi, storicamente assai precisa, venga una indicazione preziosa per la sinistra italiana. Ecco: quanto più si lascia a se stessa la gente, tanto più essa è facile preda delle destre. Capitini pensava che la gente che discute diventa facilmente di sinistra. Opinione che si può non condividere; è certo, però, che la mancanza di un diffuso, capillare dibattito politico è prezioso per le forze politiche conservatrici. Capitini parlava dei giornali. Oggi ci sono le televisioni, che riescono a raggiungere lo scopo con ben altra efficacia. Ciò che è pubblico giunge ai singoli filtrato, addomesticato, edulcorato, se necessario falsificato dai mass media. Manca il confronto, la verifica. Ricorrendo ad un'altra importante distinzione di Danilo Dolci, si può dire che ci troviamo in una società nella quale il trasmettere ha preso il sopravvento sul comunicare. Il trasmettere è comunicazione inautentica, perché unidirezionale: dall'alto al basso. Il comunicare è un processo circolare, fatto di domanda e risposta, di tesi ed antitesi. L'Italia nonviolenta sognata da Capitini era una Italia delle assemblee. Esse dovevano essere dovunque: nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole. negli anni successivi alla morte di Capitini abbiamo avuto, in effetti, una Italia delle assemblee. Ma si è trattato di una esperienza che non è riuscita a cambiare permanentemente la nostra vita sociale e politica. Oggi c'è molta stanchezza. Chi lavora nella scuola, ad esempio, sa con quanto poco entusiasmo gli studenti approntano le assemblee di classe e di istituto. Invertire questa tendenza dovrebbe essere il primo obiettivo della sinistra. Per questa via, credo, si potrebbe anche soddisfare uno dei bisogni fondamentali del tempo attuale, un bisogno non sufficientemente considerato dal mondo politico: il bisogno di socializzare, di combattere la solitudine, di incontrare gli altri. Nelle società del benessere cresce a dismisura il numero degli esclusi, cresce la solitudine metropolitana, non soltanto negli anziani, nei malati, nei diversi. C'è la nuova solitudine dei giovani, di quei giovani che non entrano nella macchina del divertimento e della distrazione. C'è la solitudine degli extracomunitari, partecipanti alla nostra vita economica, ma poco o nulla coinvolti nella nostra vita sociale e culturale. Se al tempo di Capitini i COS rispondevano al bisogno di diffondere il potere, oggi essi potrebbero costituire una vera e propria terapia per una società dove la comunicazione è bloccata, insufficiente. 
Ai socialisti Capitini ricordava che il fine del vero socialismo (quello che lui chiamava socialismo liberato) è per «la persona, il suo sviluppo, la sua creatività, l'amore che culmina nel tu che volgiamo, amando le persone dall'intimo» [11]. Ai liberali, ricordava che le persone non sono atomi contrapposti e chiusi nella sfera dei loro diritti. Totalitarismo ed atomismo sociale erano i due pericoli che la società nonviolenta supera: al totalitarismo risponde con l'esaltazione della libertà e della creatività personale, all'atomismo si oppone ricordando che l'uomo non è interamente tale al di fuori della comunione con gli altri uomini. Entrambi i pericoli sono ancora presenti. Il pericolo di un totalitarismo politico è ormai alle spalle, dopo il crollo dei regimi totalitari dell'Est. Ma esistono forme più subdole, sottili di totalitarismo, modi raffinati di soffocare la creatività, la libertà, la capacità di decidere dei singoli. Ancora più evidente è il pericolo dell'atomismo sociale. La corsa al benessere suscita egoismi, chiusure, settarismi. La propria identità è legata a beni, che bisogna difendere ed accrescere contro gli altri. Occorre una riflessione su ciò che è realmente indispensabile all'uomo. Capitini ritiene che i veri beni umani consistano nei valori. Ma quali valori? Anche nella difesa dei valori da parte dei politici c'è ormai settarismo. Si esaltano i valori della patria, della famiglia, della fede. Ma questi sono valori che distinguono uomini da altri uomini, valori che separano e contrappongono. I veri valori invece si distinguono per Capitini per una caratteristica: uniscono le persone. Il valore è ciò nella cui realizzazione gli uomini si avvertono uniti a tutti gli uomini, agli animali, a coloro che non vivono più. E' un valore la musica, è un valore il dire tu ad un altro uomo; non è valore l'esaltazione della propria patria, che unisce alcuni uomini per separarli dagli altri. Sarebbe un grave errore, a mio avviso, considerare i COS un esperimento del passato. 
Bisogna riprendere quel progetto, in forme magari diverse da quella del passato. Abbiamo bisogno di una fitta rete di centri sociali, diversi da quelli esistenti: centri frequentati da gente di ogni età, fortemente integrati con il territorio, costantemente attenti alla realtà politica locale ma capaci anche di approfondire le problematiche internazionali. E' importante che questi centri giungano nelle periferie, nei luoghi dove più fortemente risaltano i limiti della nostra democrazia. Esistono paesi nel sud che stanno inesorabilmente morendo, senza che si abbia la forza di invertire la tendenza, arrestare la fuga dei giovani e il degrado complessivo. Esistono interi quartieri, in quasi tutte le città italiane, dove vivono cittadini invisibili, persone che non riescono a far giungere al potere le proprie richieste, il proprio disagio. 

Una politica inclusiva 

Per Capitini democratizzare il socialismo non era sufficiente. La socialdemocrazia comportava per lui il pericolo di una semplice amministrazione della cosa pubblica, per conquistare il benessere. «La storia - affermava - si muove per cose più grandi. Si tratta di una tensione di apertura a tutti, ad una nuova società, anzi a una nuova realtà, che comprenda veramente tutti, nessuno escluso, e che elevi e trasformi la sostanza di tutti» [12] Nessuno escluso, dice Capitini. Siamo terribilmente lontani da questa idea. Vi sono oggi persone, esseri umani clandestini, quasi fantasmi pericolosi in agguato contro la società civile. Questo è intollerabile. Abbiamo visto sorgere, in tempi recenti, centri di accoglienza temporanea che assomigliano in modo preoccupante a campi di concentramento. Abbiamo assistito ad una campagna di informazione distorta, che ha concentrato sugli extracomunitari paure vecchie e nuove. Abbiamo ascoltato un autorevole rappresentante della Chiesa cattolica chiedere che si impedisse agli immigrati di fede diversa dalla cristiana di venire in Italia, e ciò in difesa della «identità nazionale». Tutto ciò, sotto gli occhi di una sinistra di governo che appare sempre più come una semplice sentinella del benessere. Si consideri, ancora, la questione della sicurezza. Siamo, più o meno, ai tempi di Dolci in Sicilia. C'era delinquenza, e lo stato rispondeva con la repressione. Diverso era il metodo nonviolento: documentare l'estrema povertà., la disoccupazione, i diritti calpestati, e lavorare pazientemente alla radice dei problemi, trasformando dal basso. Chi riesce ancora, oggi, a vedere il delinquente come una vittima? Chi ha ancora voglia di interrogarsi sul rapporto tra delinquenza ed esclusione sociale? Pochi. Si chiede a gran voce sicurezza immediata; e questo la politica - la politica della sinistra di governo - offre. Sicurezza immediata vuol dire repressione, controllo, inasprimento delle pene, esclusione del colpevole dal corpo sociale. 
Qui la frattura tra la sinistra - quella che vorrei chiamare sinistra del benessere - e la nonviolenza appare profonda. La nonviolenza combatte ogni forma di chiusura. E' una questione di punti di vista. La nonviolenza fa proprio il punto di vista dell'escluso, dell'arretrato, del perdente, del clandestino. La sinistra del benessere ha perduto ormai questo punto di vista; ha acquisito molta ragionevolezza, ma ha smarrito ogni carattere rivoluzionario. Oggi più che mai la nonviolenza è scomoda, difficile, provocatoria. Criticare a fondo una società ammalata di chiusure e di benessere, avvicinarsi all'escluso e dargli voce: è il primo dovere di un nonviolento (amico della nonviolenza, direbbe Capitini). Anche la lunga lotta di Capitini alla Chiesa cattolica appartiene alla nonviolenza. Lotta che non era contro le persone, ma contro una istituzione dogmatica, potente, escludente; una lotta che vale a sostenere all'interno della Chiesa stessa le forze migliori emerse durante il Concilio Vaticano II, e protestare contro le tendenza conservatrici che con tanta forza si ripresentano. Nella Chiesa cattolica tanti italiani trovano la propria identità. È proprio questo, per la nonviolenza, un pericolo. Una società inclusiva chiede una identità aperta, dialogante. Si pensi al grande lavoro di Capitini per il dialogo tra Oriente ed Occidente. La sua stessa filosofia è un affascinante incontro della cultura filosofica occidentale con il messaggio gandhiano. Oggi è urgente in Italia un incontro con le culture mediterranee, soprattutto con l'Islam. Ma è un dialogo ancora lontano. Nel migliore dei casi si accorda ai musulmani il diritto di costruire una moschea; nel peggiore dei casi si deplora l'identità ferita, o minacciata. Dove c'è una chiusura, c'è una violenza ideologica che prima o poi diventa violenza fisica, tangibile. E' capace la sinistra del benessere di una tale politica inclusiva? No. Un presidente del consiglio di sinistra, posto di fronte alla richiesta degli omosessuali di manifestare, afferma che «purtroppo» ne hanno il diritto; e la manifestazione era a Roma, in quella stessa Roma che il giubileo dei cattolici ha trasformato per un anno in un rumoroso, affollato, scomodo santuario. È comprensibile questo atteggiamento. Combattere le chiusure è cosa che crea resistenze, impopolarità, attira su di sé condanne ed anatemi. Naturalmente un politico preoccupato del successo elettorale deve tener conto dei recinti esistenti nella società, individuare quello più ampio e sostenerlo affinché lo sostenga. Per questo occorre quel qualcosa di più della politica che è la nonviolenza. 

Universalismo concreto 

La nonviolenza ha, come s'è detto, una predilezione per le periferie, i paesini, le borgate. Questi non sono che punti di vista decentrati, dai quali è possibile ottenere una visione critica del centro. L'orizzonte di questa visione non è limitato alla realtà locale, né a quella del proprio paese. Al COS si discutevano i problemi concretissimi del luogo, ma si affrontavano anche le grandi questioni internazionali, e le due cose non erano prive di collegamento, perché affrontare nonviolentemente i piccolissimi problemi della vita quotidiana significa già fare un passo per una civiltà nonviolenta. Considerare localmente questioni globali è importantissimo in tempi di globalizzazione. Tra gli aspetti più preoccupanti della globalizzazione c'è il passaggio di poteri importanti dai governi nazionali a realtà sovranazionali, sottratte al controllo dei popoli. Questa realtà, che porta decisioni fondamentali per la vita di tutti ad un livello incontrollabile, ha trovato nella società civile internazionale una opposizione assolutamente spontanea, diffusa, determinata: l'opposizione del cosiddetto popolo di Seattle. Un movimento che ha una identità complessa, comprendendo anarchici dei centri sociali, nonviolenti, volontari di organizzazioni non governative, ecologisti. Dove possa giungere questo movimento, non è facile dire. Ma non è difficile prevedere che il successo o l'insuccesso del movimento anti-globalizzazione sarà legato all'uso o meno della violenza. Solo una applicazione piena delle tecniche di opposizione nonviolenta potrà permettere al movimento di legittimarsi. In caso contrario, la violenza dei manifestanti sarà l'alibi per la violenza repressiva; ogni piccolo atto di violenza sarà enfatizzato dagli organismi d'informazione, per criminalizzare tutto il movimento, e far passare in secondo piano le sue ragioni. C'è un articolo di Capitini, apparso nel 1948, che a mio avviso è di una attualità straordinaria. Capitini parlava dell'universalismo: la globalizzazione, con i termini dell'epoca. Distingue due tipi di universalismo. Il primo consiste nel considerare l'universalismo «su un piano amministrativo, di assicurazione del benessere quotidiano; e allora prevarrà la potenza che potrà meglio subito assicurarlo» [13] È esattamente quello che accede oggi. La globalizzazione, concepita come fatto economico, porta al prevalere delle potenze industrializzate, che si spartiscono mercati e materie prime, e dettano le regole del gioco. Il secondo universalismo è fondato su qualcosa di più profondo. «Credere che gli uomini possano accontentarsi di un'amministrazione del mondo - scriveva - è pensarne troppo male» [14] Il benessere non può appagare le esigenze più profonde dell'uomo: resta alla superficie. Al fondo, c'è altro: c'è il bisogno di libertà, il bisogno di socialità, il bisogno di religiosità, da Capitini intesa in modo non istituzionale, come approssimazione al problema del senso della vita. Il vero universalismo è quello che soddisfa queste esigenze più profonde dell'uomo. Capitini lo chiama universalismo concreto, e sostiene che verso di esso procede il mondo attuale, «moderno e postmoderno, postliberale e postcomunistico» [15]. 
Capitini scrive nel 1948, eppure questi termini si adattano perfettamente al mondo attuale. Il termine postmoderno è entrato nel linguaggio filosofico soltanto da qualche decennio, ed è ora quasi un luogo comune, Il termine postcomunismo è entrato prepotentemente nel linguaggio politico dopo l'89, dopo il crollo dei regimi comunisti. Come mai Capitini può usare, nel 1948, questi aggettivi? Perché avvertiva fin da allora che le grandi impostazioni politiche, ideologiche, economiche del Novecento erano destinate a far posto a qualcosa d'altro. Il suo ragionamento doveva essere, più o meno, il seguente: può durare solo ciò che soddisfa e favorisce pienamente la realizzazione dell'uomo; il liberismo ed il comunismo, per ragioni diverse, impediscono questa realizzazione (il primo soffocando il bisogno di socialità, il secondo soffocando il bisogno di libertà); liberismo e comunismo sono perciò destinati al superamento, sono forze che potranno ancora agire storicamente, ma sono già state condannate sul piano dei valori. L'universalismo concreto della civiltà nonviolenza segue quindi la dissoluzione delle grandi ideologie contemporanee. Potremmo dire che la nonviolenza è la vera idea politica dell'età postmoderna. Interessante anche l'aggettivo usato da Capitini per connotare il nuovo universalismo: concreto. Intendeva dire che questo universalismo considera l'uomo nella sua interezza, nei suoi bisogni più profondi, e non soltanto alla superficie, come se tutto ciò che conta fosse il benessere, il soddisfacimento economico. Ma concreto deriva anche, come si sa, da cum-crescere, crescere insieme. L'universalismo nonviolento non comporta la crescita di alcuni a spese di altri. La realtà che la nonviolenza cerca dev'essere, per Capitini, realtà di tutti; non si può dimenticare o lasciare indietro nessuno. Occorre, sosteneva Capitini più di cinquant'anni fa, un punto di vista nuovo, una nuova sintesi. Si tratta di un cambiamento radicale, qualcosa di ben più profondo e duraturo dell'avvicendamento di una classe politica. Capitini parlava di una semplificazione della propria vita, [16] per concentrarsi meno su oggetti, e più su valori. Oggi sappiamo che i nostri oggetti, il nostro sviluppo, il nostro tenore di vita costano altrove ingiustizia, miseria, violenza. La globalizzazione, come universalismo errato, è il risultato di una concezione limitata della politica: la politica come amministrazione, assicurazione del benessere, nei termini di Capitini. Una concezione della politica che è penetrata nella sinistra, in quella che ho chiamato sinistra del benessere: quella sinistra che porta l'Italia a partecipare alla guerra in Kossovo e sostiene il Nuovo Modello di Difesa, che prevede la difesa degli interessi vitali della Nazione, vale a dire mercati e materie prime. La nonviolenza è post-comunistica: ma questo post non va inteso come un rifiuto dell'anticapitalismo comunistico. Sulla critica della proprietà privata Capitini non ha mai cambiato idea. Del comunismo la nonviolenza rifiuta l'autoritarismo, la burocrazia, la dittatura, il metodo rivoluzionario violento; accoglie invece la socialità, la crescita comune, l'anticapitalismo. 
Queste le forze oggi in campo. Da una parte una realtà monolitica, compatta, potente; oligarchie che appaiono impenetrabili, inattaccabili. Dall'altra, la resistenza di piccoli gruppi, soprattutto di giovani, di provenienza diversa. In mezzo c'è una moltitudine di persone che non comprendono bene quello che succede, si lasciano informare e formare dai mass media, e quando provano a guardare un po' più lontano hanno l'impressione di trovarsi di fronte a processi troppo grandi, difficili da comprendere ed ancora più difficili da modificare. da questa moltitudine dipende il nostro futuro. Se esse prenderanno coscienza della enorme perdita di potere - vale a dire di libertà - che il processo comporta, se si accorgeranno che rinunciare a dimensioni profonde dell'esistenza per ottenere benessere non è un buon affare, le cose cambieranno. Se i lavoratori affiancheranno i giovani dei centri sociali, se le famiglie riconsidereranno il loro stile di vita ed i loro consumi, se le associazioni lavoreranno in rete per costruire una economia alternativa, le cose cambieranno. Questo, direbbe Capitini, è il varco attuale della storia. 

Nonviolenza scomoda 

Vorrei concludere ricordando il carattere drammatico, difficile, duro della nonviolenza. Capitini ricordava che la nonviolenza è «una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subconscio, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata» [17]. Questa è la rivoluzione nonviolenta. Delle altre rivoluzioni rifiuta il metodo violento, per quell'affetto che la nonviolenza ha per i singoli, ma anche perché considera che ogni rivoluzione violenta produce poi gerarchie, burocrazie, dittature. Ma per il resto, la nonviolenza non è meno radicale delle altre concezioni rivoluzionarie. Capitini considerava questa concezione radicale della nonviolenza come un grande passo oltre il superficiale pacifismo borghese, che combatte la guerra in nome del benessere. Un pacifismo che risorge in modo insidioso: ed è inevitabile, visto che siamo nella società del benessere. Contro questo pacifismo brando, acritico, conciliante bisogna rafforzare e recuperare il carattere scomodo della nonviolenza. Pochi intellettuali e personalità italiane del Novecento sono state scomode quanto Aldo Capitini e Danilo Dolci. Dei diversi aspetti della personalità nonviolenta, recentemente studiati da Pontara, bisognerebbe valorizzare soprattutto lo spirito critico, ed anche un certo anticonformismo. Nonviolenza è guardare oltre il punto di vista borghese: guardare dal punto di vista dell'escluso, del povero, del malato, dello sfruttato. Da questo sguardo periferico non può venire che una condanna molto dura del centro, della istituzione, della sfera del dominio. Naturalmente uno dei principi della nonviolenza è quello del dialogo; e gli amici della nonviolenza cercheranno anche il dialogo con le istituzioni. Ma altra cosa è smarrire il potenziale critico. Alla nonviolenza appartiene il principio del dialogo, ma anche quello della noncollaborazione. Non si fa la rivoluzione senza creare fratture profonde, senza assumere posizioni scomode, anche impopolari; senza rischiare ogni attimo la sconfitta, il suicidio politico. Questa nonviolenza scomoda non dà vita a Marce della pace alle quali possa partecipare, per rifarsi l'immagine, un capo di governo di sinistra responsabile di aver portato il proprio Paese in una guerra anticostituzionale. Questa nonviolenza radicale approfondisce soprattutto il dialogo con quelle forze politico-ideologiche - anarchici, comunisti, ecologisti - che condividono la critica della civiltà del benessere (quella che Capitini chiamava americano-pompeiana) e cercano di far proprio il punto di vista dell'escluso, per farne la leva del cambiamento. 

Note

* Appunti per un incontro su «Sinistra e Nonviolenza» (Roma, Campidoglio, 14 febbraio 2001) tra chi scrive, Lanfranco Mencaroni, Rocco Pompeo, Rocco Altieri, Tom Benetollo e Pietro Ingrao. 

1 G. Bosetti, I nuovi vizi della sinistra italiana, in Mondoperaio, n.1, gennaio-febbraio 2001, p. 84. 
2 Ibidem. 
3 Ibidem. 
4 A. Capitini, Rileggendo il profeta Isaia,in Nuovo Corriere, 4 aprile 1949; poi in Italia Nonviolenta, Bologna 1949; ora in Scritti sulla nonviolenza, Perugia 1992, p. 66. 
5 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Torino 1950, p. 99. 
6 Cfr. A. Capitini, Danilo Dolci, Manduria 1958, p. 24. 
7 Cfr. in particolare D. Dolci, La creatura e il virus del dominio, Latina 1987. 
8 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, cit, p. 23. 
9 G. Lami, Il progetto non violento di Aldo Capitini, in Prospettiva Persona, a. VII. n. 24, giugno 1998, p. 28. 
10 A. Capitini, Attraverso due terzi di secolo,in Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 28. 
11 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa,cit., p. 93. 
12 A. Capitini, Il socialismo liberato, in Il Ponte, n. 11, 1956, p. 1890. 
13 A. Capitini, Orizzonte mondiale, in Il Mattino del Popolo, 30 maggio 1948; poi in Italia nonviolenta, in Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 43. 
14 Ibidem. 
15 Ibidem. 
16 A. Capitini, Il potere di tutti, Firenze 1969, p. 93. 
17 A. Capitini, Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 21

Il dolore, l'amore, la liberazione

Solo il grande dolore, scriveva Nietzsche ne La gaia scienza, "costringe noi filosofi a discendere nelle estreme profondità di noi stessi e a sbarazzarci di ogni fiducia, d'ogni bontà, d'ogni infingimento, d'ogni mansuetudine, d'ogni via di mezzo, di tutto ciò in cui forse una volta abbiamo riposto la nostra umanità" (Prefazione alla seconda edizione, 3, trad. F. Desideri). E' una delle possibilità del dolore, che può avere anche una funzione igienica, se quella che abbatte era una finta bontà, se l'umanità era riposta in qualche fragile finzione borghese. Ma nella profondità nella quale il dolore ci ricaccia c'è la possibilità di conquistare una positività più alta, una umanità più vera, una bontà più solida. Sotto i colpi del dolore, si subisce un processo più o meno completo e radicale di disidentificazione; ci si distanzia, per così dire, da sé stessi; ci si abitua all'idea della morte, ossia della perdita di sé. E' questa disidentificazione che può aprire una visione più ampia e gettare le basi d'una più solida vita morale: poiché purifica il bene da ogni venatura egoistica. Il dolore trascina in quella dimensione transpersonale nella quale soltanto, per Simone Weil, è davvero possibile il bene. 
Sui percorsi che conducono dalla negatività del dolore alla positività dell'amore riflette Michele Illiceto ne Il talamo e la tela. Un libro singolare, che percorre il confine a volte labile tra poesia e filosofia, intrecciando una fitta trama di rimandi filosofici, che è compito del lettore dipanare, lasciandosi provocare dalle suggestioni disseminate pagina dopo pagina. Dal dolore all'amore, dunque. Quell'amore che per un cattolico è legato alla fede. L'impressione di trovarsi di fronte ad una riscrittura di Giobbe è confermata dagli ultimi versi del libro (prima dell'ultimo capitolo, che riporta dei versi di Teresa d'Avila), che sono una citazione di Giobbe 42, 5-6: "Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto". Ma quello che Giobbe incontra, alla fine del suo inquieto e drammatico interrogare, non è un Dio tranquillizzante. Se i suoi interlocutori cercano di convincerlo che, se sta soffrendo, se gli sono capitate disgrazie, è perché ha compiuto qualche colpa (cercano dunque di sostenere una concezione etica di Dio), Giobbe avverte su di sé il peso di un Dio persecutore, indifferente al dolore umano, al di là del bene e del male. E l'intervento finale di Dio non è per spazzare via questa interpretazione che può apparire blasfema. A dire parole giuste su Dio non sono stati gli interlocutori di Giobbe, ma Giobbe stesso, con le sue bestemmie: e per questo Dio lo premia ridandogli i beni che aveva perso in seguito alla scommessa con l'ha-shatan. Una conclusione estremamente inquietante per i credenti. L'esperienza del dolore pone due questioni: se Dio è, e come Dio è. Escluso l'ateismo, per il credente è pressante la seconda questione. Quale Dio permette il male? Per Hans Jonas l'esperienza del dolore, rappresentata emblematicamente da Auschwitz, pone di fronte a una scelta: o un Dio onnipotente, ma non buono; o un Dio buono, ma non onnipotente. A suo parere non è possibile rinunciare alla bontà di Dio, a nessun costo; anzi, anche a costo di rinunciare alla sua onnipotenza, e di credere in un Dio debole. Io ritengo che sarebbe un'avventura non priva di interesse percorrere invece l'altro sentiero: provare a stare al cospetto di un Dio non buono, ma potente. Come Giobbe. Un Dio al di là del bene e del male. A crollare sarebbe, in primo luogo, il nostro narcisismo. E forse distruggere il narcisismo è tutto quello che ha da fare una religione (per questo considero il buddhismo la religione meno imperfetta: è mistica allo stato puro, almeno nella sua forma originaria, non contaminata da pratiche devozionali). 
Dal dolore all'amore è il percorso delle religioni. Dalla sofferenza della condizione terrena - segnata dal peccato per il cristianesimo, da quel disagio (dukkha) che nasce dal desiderio (tanha) per il buddhismo - alla beatitudine della liberazione, che è già su questa terra ("dacci fin da oggi il pane di domani [epiousion]", prega il cristiano). Ma il che modo compiere questa opera alchemica, questa conversione del dolore in gioia, della tristezza in amore? La risposta buddhista è: cambiando il punto di vista. Fino a quando osservi il mondo dal punto di vista del tuo piccolo ego, sarai preda della sofferenza. Ti libererai dalla sofferenza quando imparerai a guardare con uno sguardo più ampio. A considerare il tuo sé come una realtà vuota in un mondo vuoto. Ad abbandonare il tuo sé nel vuoto della non-seità universale. Per un cristiano questa risposta è inaccettabile, perché considera il sé tutt'altro che vuoto - è un'anima creata da Dio - e il mondo tutt'altro che vuoto - è pieno di Dio e delle sue creature. Come mostra Illceto, per un cristiano il percorso da compiere va dalla separazione, che è lo stigma del dolore, al Tutto. "Il dolore - scrive Illiceto - è sempre dolore della parte che si vede fuori da ogni inclusione. Amore ferito di una parte a cui manca. In esilio da un Tutto che più non lo comprende" (p. 110). Il percorso dell'esistenza, dall'essere-gettati heideggerianamente della nascita in poi, è un percorso di ricerca di questo Tutto da cui siamo esiliati, da questa unità che ci sfugge. E ci sfugge, nota acutamente Illiceto, perché lo cerchiamo nel posto sbagliato. Cerchiamo il Tutto in noi, come se fosse qualcosa che si può possedere restando individui, quasi si trattasse di un bene da privatizzare. "Cercarlo in noi è rubarlo agli altri. Cercarlo in loro è restituirlo anche a noi. Perché il Tutto non sarà mai dove sarò solo io. Né dove sarai solo tu. Ognuno di noi è soglia di questo Tutto in cui io e te saremo insieme. Perché laddove siamo, mai abbastanza siamo. Esso sarà dove io e te saremo l'uno per l'altro. L'uno nell'altro" (p. 179). Il percorso da dolore all'amore è tutto qui. E' il percorso che va dall'io-contro-tutti all'io-nel-Tutto. E' un percorso che Aldo Capitini faceva cominciare dal "dire tu", espressione con la quale indicava un'apertura infinita all'altro - infinita nel senso che in questa apertura l'altro si mostra come un ente esposto alla morte, eppure dal valore infinito. La sofferenza salva, allora, nel momento in cui ci costringe a fare i conti con la nostra limitatezza, ad esplorare i confini del nostro io, a ridiscutere le modalità relazionali abituali, che in una società capitalistica sono fondate sulla competizione e l'individualismo. A cercare l'altro in me, superate le gabbie dell'ego. E' un percorso che Illiceto compie da cristiano, ma che ha un valore universale, trascende fedi e filosofie, ed ha da sé la forza e la solidità dell'esperienza.

*** 

Il 13 luglio se n'è andato Arturo Paoli. Il mio ateismo non mi ha mai impedito di considerarlo uno degli uomini più grandi che il nostro paese abbia avuto nell'ultimo secolo, e di guardare alla sua presenza umile di ultracentenario come ad una riserva di purezza morale in un'Italia sempre più sporca, sempre più macchiata da un'economia sbagliata che genera mostruosità senza fine. Ora che fratello Arturo non c'è più, restano i suoi scritti a continuare la sua presenza - così come restano gli scritti di Capitini, di Dolci, di Lanza del Vasto, di padre Balducci. Li ho ripresi, i suoi libri, in questi giorni. La mia copia di Camminando s'apre cammino porta la sua dedica: "Ad Antonio, con l'augurio di scoprire la vita come un rinascere". Non c'è augurio più bello, per me, in questi giorni, in questa fase della mia vita. Una fase in cui più che in altre sento di riuscire davvero a capire, a vedere, a sentire verità che ho sempre riconosciuto, ma che non sono mai diventate carne e sangue. Rinascita e liberazione sono le parole-chiave del pensiero e del lavoro - del pensiero che si fa lavoro - di fratello Arturo. Non tutti i suoi scritti mi hanno entusiasmato; alcuni, come Il sacerdote e la donna, mi hanno lasciato per un po' pensoso, benché ammirato dall'eleganza davvero classica dello stile; ma il Dialogo della liberazione è una di quelle opere che non ti stanchi di leggere e meditare per tutta la vita. Fratello Arturo riesce a scrivere un grande libro di mistica e, al tempo stesso, un grande libro di etica: risolvendo a modo suo, con straordinaria semplicità, l'annosa questione dei rapporti tra mistica ed etica. 
Questo sacerdote non ha timore di dire che "la fede deve sparire come virtù intellettuale, come forza dell'io" (p. 17), poiché non si tratta di credere in Cristo, ma di essere Cristo. Ed essere Cristo, detto in un modo comprensibile ed accettabile per un ateo, significa scendere alle radici dell'essere. Fratello Arturo parla di "sparizione del dualismo", e sembra di sentire un maestro dell'Advaita Vedanta, uno Sri Ramaha Maharshi o un Nisargadatta Maharaj. Superare il dualismo tra l'io e l'essere, tornare alle radici, oltrepassare l'io. E' il messaggio della mistica di ogni tempo, di ogni luogo. E come ogni mistico autentico, fratello Arturo sa che questo oltrepassamento è doloroso. Bisogna fare i conti con la povertà del proprio essere, con il nulla che siamo, e quel nulla ridurlo ancora a nulla, nullificarsi affinché l'altro dall'io sgorga come una sorgente d'acqua in un alveo cavo. 
Questa è la via contemplativa, la via che ha le stesse tappe, le medesime stazioni, perfino lo stesso linguaggio nelle diverse tradizioni religiose. Ma, avverte fratello Arturo, non è l'unica via. Una via alternativa è la via politica, "il desiderio di rifare un mondo nuovo nella verità" (p. 19). Ed è su questa via che il cristiano ed il marxista possono camminare insieme. Uno psichiatra spagnolo gli scrive: "Se fossi nato nel terzo secolo, sarei cristiano. Siccome sono nato in questo secolo, sono marxista" (p. 277). E fratello Arturo corregge: "Sono marxista perché sono cristiano" (p. 278). Essere cristianamente marxisti, o marxianamente cristiani, vuol dire pensare la liberazione, che dev'essere storica e politica, senza perdere la consapevolezza della realtà del peccato. Pensato al di fuori dei tradizionali schemi sacramentali, il peccato appare come l'incapacità di amare, una forza di diminuzione che si oppone ad una più piena realizzazione dell'essere. Il capitalismo è per essenza una struttura economica di peccato. Ma non basta rovesciare il capitalismo, se non si va al fondo del peccato, che è "rifiuto di Dio in quanto Essere" (p. 48). L'uomo può cercare di essere qualcosa di più (si pensi al ser mais di Paulo Freire) solo se non è il risultato di un contesto storico, di condizionamenti sociali ed economici, ma è legato a qualcosa di più profondo, una pienezza che lo spinge a sottrarsi ai condizionamenti storici ed a realizzarsi pienamente. E' l'Essere che "mi chiama a una liberazione dolorosa dalle alienazioni per discendere al mio vero io" (p. 48). Parole che vanno lette non dimenticando quanto s'è detto sul trascendimento del semplice credere in Dio. Non c'è rivoluzione autentica senza un contatto con quanto di più profondo è in noi, che il credente chiama Dio, e in non credente può chiamare Essere. Una presa di contatto che è resa sempre più difficile nella società capitalista dalla stessa educazione che, denuncia fratel Arturo, dovrebbe essere "una formazione alla verità mediante la povertà, l'umiltà, la disposizione di sé", mentre è l'esatto opposto: "una educazione al potere economico, al potere di comando, all'abilità di saper disporre degli altri" (p. 71). Provate a dare uno sguardo alle "competenze" che si vuole che i sistemi educativi coltivino nelle nuove generazioni: vi troverete le stesse cose, ma dette con altre parole, meno sincere. 
Sono profondamente convinto che quella della liberazione debba essere la categoria fondamentale della nostra riflessione e della nostra prassi di oppositori del capitalismo. Le tristi vicende politiche degli ultimi decenni nel nostro paese mostrano che libertà è una parola che può diventare una bandiera per la destra neoliberalista. In una società capitalista, tutti vogliono la libertà, e tutti credono di averla. La libertà si acquista con il denaro, e consiste nel possesso di una certa quantità di beni. La liberazione è un'altra cosa. Nasce, spiega fratel Arturo (e spiegano con lui i grandi maestri della teologia, della filosofia, della pedagogia della liberazione: Freire, Boff, Boal, Dussel...), da una profonda insoddisfazione per la realtà così com'è, e comincia un movimento di progressiva umanizzazione, di lotta contro l'alienazione in nome di ciò che è più profondo - e vero. 

M. Illiceto, Il talamo e la tela. Laddove il dolore incontra l'amore, Morlacchi, Perugia 2015. 
A. Paoli, Dialogo della liberazione, Aragno, Torino 2012 (prima edizione 1969).

Fame

Prendete due uomini, o due donne, o un uomo e una donna. Affamati. E tra loro del cibo, che basta per sfamare soltanto uno dei due. Dubito che esista una qualsiasi dottrina o teoria filosofica o morale, o religione, in grado di impedire che questi due si ammazzino per togliere il cibo all'altro. 
Il bene e la morale nascono una volta che si è placata la fame; la virtù esiste solo per le bestie sazie.
Con il capitalismo succedono due cose. Una parte di umanità - l'occidente capitalista - sazia la fame. Di qui il diffondersi di ideali umanitari, dei diritti umani, delle religioni che, sanguinarie fino ad ieri, ora predicano la pace e l'amore. Dall'altra, il capitalismo ha bisogno di una fame infinita. Soddisfatti i bisogni primari, naturali e necessari, bisogna alimentare quelli naturali e non necessari e, ancora, quelli né naturali né necessari. Bisogna che si sia sempre nel bisogno; e per soddisfare questi bisogni non bastano il pane e l'acqua, né il caviale e lo champagne. Occorrono il petrolio, e il coltan, eccetera. Di qui, ancora, la violenza: una violenza ancora più feroce, ma nascosta dietro il palinsesto dei diritti umani e dell'etica dell'amore. L'uomo e la donna del capitalismo sono le uniche bestie che restano feroci anche quando hanno saziato la fame del corpo: perché una fame più profonda, e che nulla può soddisfare, e che richiede sacrifici infiniti, li divora.

Empatia verso gli animali e violenza

Alessia Parrino, dottoranda presso l'Università di Padova, mi ha scritto chiedendomi una intervista consistente in una sola domanda per la sua tesi di dottorato. La domanda è la seguente: "How in your opinion, educate children to feel (or to improve, or to increase) empathy toward animals could prevent antisocial and violent future behaviour?". Quella che segue è la mia risposta.

Tonino è morto, e l'avete ucciso voi


Si è suicidato questa notte, Tonino Intellicato. Un bel po' di farmaci questa volta sono stati sufficienti. Aveva quarant'anni. Ci aveva provato più volte, a farla finita. Nel 2012 si era buttato giù dalla finestra dell'ospedale in cui era ricoverato. Riferiscono le cronache che l'anno prima ci era finito, in ospedale, perché accoltellato dal fratello. Diciannove coltellate, da parte di chi avrebbe dovuto proteggerlo, sostenerlo, aiutarlo ad andare avanti. Ed invece - vittima in fondo anche lui - non ha retto la vergogna, il peso dello sguardo e del disprezzo. Perché Tonino era gay. Anzi no: ricchione. Una parola che a Cerignola, come altrove, equivale ad una condanna. Una parola che anni fa uccise, sempre a Cerignola, Francesco Quarticelli, freddato con tre colpi di pistola alla testa dal padre. Anche lui, pover'uomo, non poteva accettare di avere un figlio ricchione. 
Quello di Tonino, bisogna dirlo chiaro e forte, bisogna dirlo con rabbia, non è stato un suicidio. Tonino è stato ucciso, non diversamente da Francesco. Perché quando la tua vita diventa impossibile, quando hai addosso uno stigma che fa di te un essere subumano, degno solo di derisione e di disprezzo, quando ogni possibilità di felicità, anzi di una vita appena accettabile, è sbarrata dal pregiudizio, allora la tua morte è una morte annunciata. Voluta. Farti fuori è la conclusione logica ed esistenziale di anni di esclusione e di sofferenza. 
Tonino è stato ucciso. Ed è stato ucciso da persone che hanno un nome ed un cognome. Tonino è stato ucciso da quelli che credono in un libro scritto decine di secoli fa, nel quale si legge che i gay devono essere messi a morte, e per questo non possono accettare che le persone omosessuali vivano felici; ed è stato ucciso anche da quegli altri che non condividono l'omofobia della Chiesa, ma non fanno niente per esprimere il loro dissenso. Tonino è stato ucciso dai professionisti dell'odio, da quelli che sfogano le loro frustrazioni sui soggetti deboli - i Rom, gli stranieri, ed i gay - nascondendosi dietro la libertà d'opinione. Tonino è stato ucciso da chi, in questo paese, diffonde odio perché l'odio paga. La morte di Tonino è uno degli indicatori dello stato civile di un paese nel quale l'unica cosa che cresce è l'odio. L'economia è bloccata, la cultura ristagna, la politica langue: ma l'odio cresce. A meraviglia. A dismisura. Odiamo come mai abbiamo fatto. Vogliamo sacrifici. Vogliamo sangue, vogliamo morte. 
Qualche giorno fa si è tenuto a Foggia il Puglia Pride. Nessuno l'avrebbe mai detto, solo qualche anno fa, che fosse possibile una cosa del genere in una città omofoba. E' il risultato del lavoro fatto da singoli ed associazioni, con coraggio, con determinazione. Il sindaco non vi ha partecipato. Prima della manifestazione, ha rilasciato un comunicato alla stampa nel quale auspicava che la manifestazione non avesse "episodi di volgare folklore". Evidentemente immemore, il sindaco, degli episodi di volgarissimo folklore che caratterizzano le feste tradizionali foggiane, da quella di Sant'Anna a quella del Carmine Vecchio. E' stata invece una bella festa, partecipatissima, pacifica nei toni e composta nelle rivendicazioni, il cui successo è andato al di là delle stesse speranze degli organizzatori. Un segno che qualcosa, anche nel profondo sud, sta cambiando. 
A frenare gli entusiasmi alcuni commenti letti su Facebook. Il signor L. M. ad esempio scrive: "La cosa che più fa schifo.. È l'ostentazione di questi soggetti... La tua sessualità te la vivi a casa tua per infatti tuoi... Roba da matti pretendono il rispetto ma sono i primi a nn darlo". G. O. aggiunge: "Hanno permesso questo a Foggia è finito tutto". Il signor E. G. che: "mettere in evidenza in questo modo la propria diversità credo sia una cosa squallida". E R. L: : "una città di kekke". Potrei continuare. 
"E' finito tutto", dice quel tale. Sarebbe bello potergli dare ragione. Sarebbe bello poter credere che quella manifestazione ha dimostrato che quelli come lui sono stati messi in minoranza, in una delle città più omofobe d'Italia. Ma la morte di Tonino viene a dirci che le cose non sono così semplici. Che la lotta contro questi maledetti, mandanti morali dell'omicidio di Tonino, è ancora lunga. E difficile.  

In copertina: Il Puglia Pride di Foggia. Foto di Giovanna Greco.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 9 luglio 2015.

Papa Francesco e la diversità culturale


Tra gli aspetti più interessanti ed apprezzabili dell'enciclica Laudato si' di papa Francesco c'è l'affermazione del valore della diversità culturale e della necessità di preservarla. Scrive papa Francesco: "La scomparsa di una cultura può essere grave come o più della scomparsa di una specie animale o vegetale. L’imposizione di uno stile egemonico di vita legato a un modo di produzio­ne può essere tanto nocivo quanto l’alterazione degli ecosistemi" (1). Il riferimento è, naturalmente, alla globalizzazione, che in ogni parte del mondo impone lo stile di vita ed i modelli di consumo occidentali, travolgendo le culture locali. 
 Si tratta di una affermazione che è interessante perché viene dal capo della istituzione, la Chiesa cattolica, che con ogni probabilità si può considerare la maggiore responsabile della distruzione della diversità culturale nella storia. Fin dalle sue origini, il cristianesimo è stato terribilmente aggressivo verso ogni diversità. La Chiesa è passata nel giro di pochissimo tempo dall'essere perseguitata al perseguitare. Dopo l'editto di Tessalonica (380), che dichiara il cristianesimo unica religione ufficiale dell'Impero romano, proibendo tutti gli altri culti, è cominciata la persecuzione nei confronti degli eretici, degli ebrei e dei pagani. Particolare fu lo zelo con il quale ci si dedicò alla distruzione della cultura pagana, colpita anche nei suoi luoghi di culto. Porfirio di Gaza si conquistò la santità demolendo i templi pagani della sua città, mentre la barbara uccisione della filosofa Ipazia - fatta letteralmente a pezzi con dei cocci da una folla di fanatici cristiani - non impedisce di considerare il vescovo Cirillo di Alessandria, che in quell'assassinio brutale ebbe non poche responsabilità, santo e dottore della Chiesa (peraltro, tra le sue imprese meritorie c'è la cacciata degli ebrei da Alessandria). 
L'ebraismo è riuscito a sopravvivere, il paganesimo è morto, le eresie si sono trasformate e sono ricomparse sotto diverse forme, fino a quando non sono state estirpate con il ferro ed il fuoco. 
 Dopo secoli di lotta contro il diverso musulmano, che l'occidente cristiano ha tentato inutilmente di eliminare con le crociate - durante l'assedio di Gerusalemme, narra Raimondo di Aguilers, "gli uomini cavalcavano con il sangue fino alle ginocchia" -, la nuova sfida è stata rappresentata dall'America, abitata da popoli che non solo non avevano mai sentito nominare Gesù Cristo, ma che andavano in giro nudi e non conoscevano il valore del denaro. Anche in questo caso la risposta dell'occidente cristiano è stata lo sterminio. Il più grande genocidio della storia, secondo lo storico David Stannard(2). 
Disgustato da tanta violenza, il buon Bartolomé de Las Casas scriverà nel suo testamento:
Credo che, a causa di queste opere empie, scellerate e ignominiose, perpetrate in modo così ingiusto, barbaro e tirannico, Dio riverserà sulla Spagna la sua ira e il suo furore, giacché tutta la Spagna si è presa la sua parte, grande o piccola, delle sanguinose ricchezze usurpate a prezzo di tante rovine e di tanti massacri(3).
Ma era solo l'inizio. Devastato il popolo indio, l'occidente cristiano si sarebbe accanito contro i neri africani, verso il quali lo stesso Las Casas, sensibile ai diritti degli americani, non provava alcuna simpatia. E la distruzione, l'omicidio di massa, la sottomissione, la riduzione in schiavitù sono andati sempre di pari passo con la negazione della cultura e della religione e l'imposizione del cristianesimo. Per sopravvivere, i culti antichi hanno dovuto camuffarsi sotto una veste cattolica, come è accaduto in Brasile con il candomblé. Si dirà: sono cose ben note, errori per i quali la Chiesa cattolica ha chiesto scusa già da tempo, con Giovanni Paolo II. E' vero, e bisogna prenderne atto. Ma non si può fare a meno di chiedersi se tanta violenza negatrice dell'alterità non abbia lasciato un residuo. Ora, l'impressione è che questo residuo ci sia. E' nota la lotta decennale di Giovanni Paolo II contro il relativismo, considerato l'origine di tutti i mali. Un attacco frontale a qualsiasi forma di cultura non assolutista che ha segnato un solco profondo tra la Chiesa a la cultura laica. Papa Francesco, pur senza i toni accesi di Giovanni Paolo II (assiduamente citato nell'enciclica), sembra condividerne pienamente l'anti-relativismo. Scrive, ad esempio:
Non possiamo sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre poten­ze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà creata da Lui senza conoscere limite(4).
Consideriamo le implicazioni di questa affermazione. Il papa sta dicendo che chiunque non creda in Dio dovrà necessariamente adorare il denaro, o lo Stato, o il successo, e devastare la natura. Chi non crede è brutto, sporco e cattivo: necessariamente. Naturalmente si tratta di una affermazione violenta, negatrice della differenza e del dialogo. Poco più oltre la "cultura del relativismo" è ricondotta alla posizione morale di chi mette prima di ogni cosa i propri interessi personali ed è risposto ad usare l'altro come mezzo; una cultura che il papa non manca di associare a cose come la pedofilia (5). Ora, sarebbe anche troppo facile replicare che qualche problema con la pedofilia l'ha anche la Chiesa, nonostante il suo assolutismo. Quello che colpisce è l'uso del termine relativismo, che vuol dire molte cose, per indicare posizioni immorali che non si può fare a meno di condannare. E' come se qualcuno usasse la parola cattolicesimo come un insulto. 
In sostanza, il papa afferma il valore della diversità culturale, ma afferma poi che qualsiasi cultura che neghi Dio è insostenibile ("non possiamo sostenere"), negando dunque qualsiasi cultura non teistica. La diversità culturale non è solo quella degli aborigeni. E', ad esempio, quella dei buddhisti, che non credono in un Dio "onnipotente e creatore", e che tuttavia da duemila e cinquecento anni hanno sviluppato un'etica della compassione che comprende anche la vita non umana e l'ambiente. Per papa Bergoglio, una spiritualità insostenibile. Insostenibile appare, in realtà, l'assolutismo di chi si crede depositario unico della verità: una posizione che nella storia ha fatto molti più danni dell'aborrito relativismo. 

Note
(1) Lettera enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, Tipografia Vaticana, Roma 2015, p. 113. 
(2) D. Stannard, American Holocaust: The Conquest of the New World, Oxford University Press, Oxford 1992. 
(3) T. Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'"altro", tr. it., Einaudi, Torino 1992. 
(4) Lettera enciclica Laudato si’ , cit., p. 59. 
(5) Ivi, p. 95. 

Nell'immagine: Theodor De Bry, illustrazione della Narratio Regionum indicarum per Hispanos Quosdam devastatarum verissima di Bartolomé de las Casas.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 22 giugno 2015.