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blog di antonio vigilante

Ramakrishna e il medico

Ramakrishna

Nell’ottobre del 1885 Ramakrishna è a letto, tormentato (per quanto può esserlo un santo, s’intende) dalla malattia – un cancro alla gola – che l’anno seguente lo condurrà alla morte. Circondato dalle premure dei discepoli, è affidato alle cure del dottor Mahendralal Sarkar, un luminare dell’omeopatia fondatore della Indian Association for the Cultivation of Science. Il medico non riesce a nascondere un certo fastidio per l’adorazione che i suoi discepoli hanno per Ramakrishna. Rivolto a uno di loro, afferma: “Fate qualsiasi cosa, ma vi prego di non adorarLo come Dio. Facendo così, voi state semplicemente rovinando questo sant’uomo!”. Ed al discepolo che risponde che no, per lui è impossibile non adorare chi gli ha permesso di sfuggire allo scetticismo, replica:

Io sostengo che tutti gli uomini sono uguali. Una volta ci portarono da curare il figlio di un droghiere. Le sue budella evacuavano. Tutti si tapparono il naso con la parte terminale dei loro vestiti, ma io non lo feci. Sedetti con il bambino per mezz’ora. Non metto la pezza al naso neanche quando lo spazzino mi passa vicino con le ceste sulla testa. No, questo per me è impossibile. Lo spazzino non è affatto meno umano di quanto non lo sia io; perché dovrei guardarlo dall’alto in basso? Per quanto riguarda questo sant’uomo, pensate che io possa salutare e baciare la polvere dei suoi piedi? Guardate. (Il dottore saluta e bacia la polvere dei piedi del Maestro). (1)
Parlando così, il dottore (al quale non mancava una certa rude franchezza) probabilmente ripensava ad un apologo che aveva ascoltato dallo stesso santo per condannare l’egoismo e la vanità: una spazzina che lavorava al tempio di Dakshineswar si era montata la testa per qualche gioiello che possedeva, ed era giunta perfino a  dire alla gente che intralciava il suo lavoro: “Ehi gente! Toglietevi di mezzo!” (2). La cosa fa ridere il santo, poco sensibile alle riforme sociali; molto meno il medico. Sono, si direbbe, due anime dell’India contemporanea che si scontrano: quella tradizionale, che cerca la liberazione e l’Assoluto, e quella, condizionata dall’Occidente, che si preoccupa dell’immanenza e del progresso.
Abbiamo lasciato il medico intento a baciare i piedi del santo. Il discepolo non fa in tempo a rallegrarsene, che il medico continua:
Sembra che pensiate che salutare i piedi di una persona sia qualcosa di meraviglioso! Non capite che io posso fare la stessa cosa a tutti. (A una persona sedutagli civino) Ora, signore, permettetemi di salutare i vostri piedi. (A un altro) Ed ora a voi, signore. (A un terzo) E a voi, signore. (Il dottore saluta i piedi di molti). (3)
A ben vedere, non si tratta in realtà della contrapposizione tra fede laica nella scienza e nel progresso e fede come unione con l’Assoluto. Il dottor Sarkar è probabilmente più vicino a Ramakrishna dei suoi discepoli. L’insegnamento fondamentale di Ramakrishna è che Dio è in tutto, Dio è tutto. “Io vedo che tutto ciò che è, è Dio. Quindi a che serve ragionare su di Lui? Di fatto io vedo che tutto ciò che è, è Dio” (4). Se le cose stanno così, allora non è privo di senso soltanto ragionare su Dio; è privo di senso anche venerare un santo come un Dio – come se non fosse Dio chiunque. E’ santo, è Dio anche lo spazzino che passa con la cesta sulla testa; è santa, è Dio anche la spazzina vanitosa di cui Ramakrishna ride. Gandhi, che chiamava harijan (figli di Dio) i paria, lo ha compreso.
(1) Maestro Mahasaya, Il Vangelo di Sri Ramakrishna, tr. it., Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 227.
(2) Ivi, p. 222.
(3) Ivi, p. 228.
(4) Ivi, p. 193.

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Ramakrishna e il medico

Ramakrishna
Nell'ottobre del 1885 Ramakrishna è a letto, tormentato (per quanto può esserlo un santo, s'intende) dalla malattia - un cancro alla gola - che l'anno seguente lo condurrà alla morte. Circondato dalle premure dei discepoli, è affidato alle cure del dottor Mahendralal Sarkar, un luminare dell'omeopatia fondatore della Indian Association for the Cultivation of Science. Il medico non riesce a nascondere un certo fastidio per l'adorazione che i suoi discepoli hanno per Ramakrishna. Rivolto a uno di loro, afferma: "Fate qualsiasi cosa, ma vi prego di non adorarLo come Dio. Facendo così, voi state semplicemente rovinando questo sant'uomo!". Ed al discepolo che risponde che no, per lui è impossibile non adorare chi gli ha permesso di sfuggire allo scetticismo, replica:
Io sostengo che tutti gli uomini sono uguali. Una volta ci portarono da curare il figlio di un droghiere. Le sue budella evacuavano. Tutti si tapparono il naso con la parte terminale dei loro vestiti, ma io non lo feci. Sedetti con il bambino per mezz'ora. Non metto la pezza al naso neanche quando lo spazzino mi passa vicino con le ceste sulla testa. No, questo per me è impossibile. Lo spazzino non è affatto meno umano di quanto non lo sia io; perché dovrei guardarlo dall'alto in basso? Per quanto riguarda questo sant'uomo, pensate che io possa salutare e baciare la polvere dei suoi piedi? Guardate. (Il dottore saluta e bacia la polvere dei piedi del Maestro). (1)
Parlando così, il dottore (al quale non mancava una certa rude franchezza) probabilmente ripensava ad un apologo che aveva ascoltato dallo stesso santo per condannare l'egoismo e la vanità: una spazzina che lavorava al tempio di Dakshineswar si era montata la testa per qualche gioiello che possedeva, ed era giunta perfino a  dire alla gente che intralciava il suo lavoro: "Ehi gente! Toglietevi di mezzo!" (2). La cosa fa ridere il santo, poco sensibile alle riforme sociali; molto meno il medico. Sono, si direbbe, due anime dell'India contemporanea che si scontrano: quella tradizionale, che cerca la liberazione e l'Assoluto, e quella, condizionata dall'Occidente, che si preoccupa dell'immanenza e del progresso.

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Democrazia, educazione e dominio degli adulti

Philippe Meirieu

In un libro dal titolo militante – Pédagogie: le devoir de résister (Esf, Issy-les-Moulineaux 2007) – Philippe Meirieu, una delle voci più ascoltate della pedagogie francese, sostiene, sulla scorta di Hannah Arendt, che occorre segnare un confine netto tra infanzia ed età adulta: l’educazione riguarda solo i bambini, non gli adulti; “non si possono educare gli adulti, né trattare i bambini come dei grandi. (…) All’educazione, nella misura in cui si distingue dal fatto di apprendere, bisogna che si possa assegnare un termine” (Arendt, citata a p. 71). Le ragioni di questa separazione sono in ultima analisi politiche: nei totalitarismi gli adulti sono infantilizzati e sottomessi ad un’autorità. Commenta Meirieu:

Da questo punto di vista, la separazione di cui parla Hannah Arendt è fondatrice della possibilità stessa di ogni democrazia: bisogna istituire una frontiera – anche arbitraria – tra i bambini e gli adulti. E’ l’esistenza di questa frontiera che permette al tempo stesso l’educazione dei bambini e l’esercizio del potere dei cittadini. Il bambino deve dunque essere educato e, durante questo tempo, non può essere considerato un cittadino, a rischio di cadere in una confusione generatrice di gravi abusi. L’adulto, dal suo canto, se può continuare ad apprendere, non può essere educato: è lui che deve decidere cosa apprendere, deve scegliere la propria via e decidere, direttamente o con l’intermediazione dei suoi rappresentanti eletti, sulle leggi che reggono la città. (p. 72)
Secondo questo ragionamento, c’è un momento nella vita di ognuno in cui il processo educativo termina, evidentemente perché ha raggiunto il suo scopo. E’ il momento in cui il bambino diventa adulto; un adulto educato. E’ un modo di concepire l’educazione che contrasta nettamente con l’idea diffusa dell’educazione permanente, la convinzione, cioè, che il processo educativo duri per tutta la vita. Meirieu naturalmente non ritiene che, giunti ad una certa età, la crascita ed il cambiamento si fermino; ma questa crescita non può essere eterodiretta. A questo fine distingue, sulla scorta di Arendt, l’educazione dall’apprendere. L’adulto continua ad apprendere, ed apprende finché vive; ma nessuno può educarlo. L’apprendimento è un processo autodiretto, l’educazione un processo eterodiretto. Nella democrazia i cittadini apprendono, nelle dittature sono educati.

E’ difficile contestare che la pretesa di dirigere dall’esterno la vita di persone adulte sia incompatibile con la democrazia. Aggiungerei che la presenza di figure che pretendano di orientare le masse indicando loro le vie del bene e del male mal si concilia con una democrazia, secondo lo stesso criterio – poiché comporta che milioni di adulti percepiscano sé stessi come minori, persone che hanno bisogno di qualcuno che le diriga dall’esterno. Una democrazia è tale solo se ognuno è autorità per sé stesso. Al tempo stesso, questo discorso ha un implicito che dà da pensare. Educare è, secondo questo ragionamento, un atto di dominazione. Vuol dire dirigere qualcuno dall’esterno. Per Meirieu è una dominazione che va bene per i bambini, non va bene per gli adulti. C’è un’età della vita in cui è bene essere dominati ed un’età della vita in cui ciò è violenza e totalitarismo. Ma siamo sicuri che sia così? E’ veramente democratico un sistema in cui tutti, sistematicamente, nella prima età della loro vita sono sottoposti ad una prassi totalitaria? L’educazione forma la persona. Che persone verranno formate attraverso l’eterodirezione? Se l’educazione è totalitaria, non formerà persone adatte a sistemi totalitari, ossia incapaci di democrazia? Non bisognerà piuttosto, in un sistema democratico, mantenere la distinzione tra educazione ed apprendimento, ed estenderla anche all’infanzia? Cioè: dare anche al bambino la possibilità di apprendere autonomanente, seguendo i propri interessi?
Il ragionamento di Meirieu implica una visione escludente della democrazia. La democrazia è cosa da adulti, che non riguarda i bambini. Gli uni sono liberi, gli altri sono schiavi. Gli adulti sono cittadini, i bambini no. Ma non è l’inclusività la caratteristica più vera della democrazia? Non è la democrazia quel movimento che incessantemente va alla ricerca degli esclusi, per portarli al centro della polis?
La società è attraversata da rapporti di dominio. Una democrazia autentica è quel sistema sociale e politico nel quale non esiste dominazione. E’, evidentemente, un ideale regolativo, proprio perché il dominio si insinua ovunque. Nostro compito è convertire il dominio, che è verticale ed asimmetrico, in potere, che è orizzontale e simmetrico. La scuola è, nei sistemi che si dicono democratici, un’ombra tra le tante. Come può esserci democrazia in un sistema in cui milioni di persone sono trattate come non cittadini, sottoposte a pratiche inferiorizzanti, private del riconoscimento pieno della loro personalità, del diritto di seguire i propri interessi e perfino di disporre del proprio corpo? Il dominio degli adulti sui bambini, lungi dall’essere la premessa di ogni democrazia, è il suo impaccio più grave. Basta entrare in una scuola, anche nel più democratico dei sistemi, per ritrovarsi paracudati in un regime totalitario, in cui tutti sono sorvegliati e puniti se non si adeguano all’ordine costituito. E il fatto che ancora esistano scuole è il segno della lontananza dei sistemi che si dicono democratici dalla realtà autenticamente democratica di una società del potere, priva di gerarchie e di sudditanze.

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Democrazia, educazione e dominio degli adulti

Philippe Meirieu
In un libro dal titolo militante - Pédagogie: le devoir de résister (Esf, Issy-les-Moulineaux 2007) - Philippe Meirieu, una delle voci più ascoltate della pedagogie francese, sostiene, sulla scorta di Hannah Arendt, che occorre segnare un confine netto tra infanzia ed età adulta: l'educazione riguarda solo i bambini, non gli adulti; "non si possono educare gli adulti, né trattare i bambini come dei grandi. (...) All'educazione, nella misura in cui si distingue dal fatto di apprendere, bisogna che si possa assegnare un termine" (Arendt, citata a p. 71). Le ragioni di questa separazione sono in ultima analisi politiche: nei totalitarismi gli adulti sono infantilizzati e sottomessi ad un'autorità. Commenta Meirieu:
Da questo punto di vista, la separazione di cui parla Hannah Arendt è fondatrice della possibilità stessa di ogni democrazia: bisogna istituire una frontiera - anche arbitraria - tra i bambini e gli adulti. E' l'esistenza di questa frontiera che permette al tempo stesso l'educazione dei bambini e l'esercizio del potere dei cittadini. Il bambino deve dunque essere educato e, durante questo tempo, non può essere considerato un cittadino, a rischio di cadere in una confusione generatrice di gravi abusi. L'adulto, dal suo canto, se può continuare ad apprendere, non può essere educato: è lui che deve decidere cosa apprendere, deve scegliere la propria via e decidere, direttamente o con l'intermediazione dei suoi rappresentanti eletti, sulle leggi che reggono la città. (p. 72)
Secondo questo ragionamento, c'è un momento nella vita di ognuno in cui il processo educativo termina, evidentemente perché ha raggiunto il suo scopo. E' il momento in cui il bambino diventa adulto; un adulto educato. E' un modo di concepire l'educazione che contrasta nettamente con l'idea diffusa dell'educazione permanente, la convinzione, cioè, che il processo educativo duri per tutta la vita. Meirieu naturalmente non ritiene che, giunti ad una certa età, la crascita ed il cambiamento si fermino; ma questa crescita non può essere eterodiretta. A questo fine distingue, sulla scorta di Arendt, l'educazione dall'apprendere. L'adulto continua ad apprendere, ed apprende finché vive; ma nessuno può educarlo. L'apprendimento è un processo autodiretto, l'educazione un processo eterodiretto. Nella democrazia i cittadini apprendono, nelle dittature sono educati.

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24 gennaio, giovedì

Ha mangiato ma non le basta, gira inquieta alla ricerca di cibo, mi fissa con un’aria mesta quando mangio, in attesa di un boccone pietoso. Pare che sia l’esser stati randagi, l’aver girovagato per anni, e ora trovi da mangiare ora no, e quando trovi non fermarti ma mangia anche per quando non ce n’è, e cerca sempre, cerca perché può essere che per molto tempo non si trovi nulla – pare che l’esser stati randagi non sia revocabile. Si resta randagi per sempre, con una fame che non si estingue, che brucia e brucia e brucia.
E’ così che vivono molti. Randagi, un tempo; ora hanno una casa e un affetto, ma restano affamati, alla ricerca di un boccone, di qualcosa che quieti la voragine di dentro, ed ogni boccone è insufficiente, ogni sorriso diventa presto pianto, ogni gioia si converte in dolore, e scorre nelle vene come acido.

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24 gennaio, giovedì

Ha mangiato ma non le basta, gira inquieta alla ricerca di cibo, mi fissa con un'aria mesta quando mangio, in attesa di un boccone pietoso. Pare che sia l'esser stati randagi, l'aver girovagato per anni, e ora trovi da mangiare ora no, e quando trovi non fermarti ma mangia anche per quando non ce n'è, e cerca sempre, cerca perché può essere che per molto tempo non si trovi nulla - pare che l'esser stati randagi non sia revocabile. Si resta randagi per sempre, con una fame che non si estingue, che brucia e brucia e brucia.
E' così che vivono molti. Randagi, un tempo; ora hanno una casa e un affetto, ma restano affamati, alla ricerca di un boccone, di qualcosa che quieti la voragine di dentro, ed ogni boccone è insufficiente, ogni sorriso diventa presto pianto, ogni gioia si converte in dolore, e scorre nelle vene come acido.

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Educazione Democratica, numero 5

La copertina
E' uscito il numero 5 (gennaio 2013) di Educazione Democratica, la rivista semestrale di pedagogia politica delle Edizioni del Rosone.
In questo numero un dossier su Dewey: educazione e bene comune, curato da Alain Goussot, con saggi dello stesso Goussot, di Luciana Bellatalla, Rosa M. Calcaterra e Fabio P. Mancini.
Per questo numero ho scritto un saggio su Jiddu Krisnamurti (La bellezza oltre la mente. Krishnamurti e l'educazione), un ricordo di Gianfranco Zavalloni che è già comparso su questo blog e cinque recensioni: R. Tagore, La saggezza del pappagallo; Federica D., Prof, il nostro tempo è adessoG. Visitilli, E la felicità, prof?; R. Maragliano, Immobile scuola.
La rivista è pubblicata con licenza Creative Commons e può essere letta gratuitamente on-line e scaricata in formato pdf ed epub. Chi volesse acquistare una copia cartacea (al costo di 18 euro) può mandare una mail alla casa editrice, all'indirizzo edizionidelrosone@tiscali.it

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6 gennaio: epifania

Stavo salendo su una strada di montagna. Non le Alpi, nemmeno l’Appennino. Una di quelle strade del nostro Gargano, che salgono attorcigliandosi intorno al monte. Man mano che procedevo il panorama si allargava: e respiravo. Ad un certo punto – per una di quelle incoerenze senza le quali i sogni non sarebbero sogni – mi sono trovato ad attraversare un lembo di mare, l’impidissimo tra le rocce. Ho tolto le scarpe per procedere nell’acqua. Ma le scarpe mi si sono immediatamente riempite di granchi. Ne toglievo uno, e subito ne spuntava un altro. Ho capito presto che avrei combattuto all’infinito la mia battaglia contro i granchi: e che non sarei andato oltre.
Mi sono svegliato. La stanza era buia. Sentivo respirare. Ho pensato che fosse mia sorella. Quando ero ragazzino io e i miei fratelli dormivamo in cucina: io e mio fratello in un letto  a castello, mia sorella in un letto singolo, oltre il tavolo della cucina. Sono qui, mi sono detto; qui a casa dei miei, con i miei fratelli. L’incoscienza del risveglio, in quell’attimo in cui ancora non è stato caricato il programma dell’io. Un attimo, appunto. Poi sono diventato quel che sono: un uomo che ha appena compiuto quarantun’anni.
Questo sbalzo temporale mi ha lasciato una sensazione difficile da definire, confusa, impastata di molte cose, tra le quali la nota rilevante era una certa amarezza.
Io non credo nel pensiero, e non credo nei nomi. Quando pensiamo siamo alla superficie di noi stessi, nello sforzo – inutile? – di renderci intellegibili agli altri. Quel che siamo è al di là dei nomi e del pensiero. Siamo come uno gettato in mare, che fa grandi sforzi per restare a galla, ma presto viene sommerso dai flutti e va a fondo. Cerchiamo di tenerci a galla afferrandoci ai nomi ed ai concetti, ma quello che siamo è un fiume senza forma, nel quale costantemente siamo sommersi.
C’era questo, dunque: io non io, quarantenne di quindici anni, nel mio letto di morte. Io non sono quello, ma non sono nemmeno questo. E: io sono questo, e quello. तत्त्वमसि. Io qui, nella forbice del non essere, del non qui. Tra la nascita e la morte. La non nascita e la non morte.

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6 gennaio: epifania

Stavo salendo su una strada di montagna. Non le Alpi, nemmeno l'Appennino. Una di quelle strade del nostro Gargano, che salgono attorcigliandosi intorno al monte. Man mano che procedevo il panorama si allargava: e respiravo. Ad un certo punto - per una di quelle incoerenze senza le quali i sogni non sarebbero sogni - mi sono trovato ad attraversare un lembo di mare, l'impidissimo tra le rocce. Ho tolto le scarpe per procedere nell'acqua. Ma le scarpe mi si sono immediatamente riempite di granchi. Ne toglievo uno, e subito ne spuntava un altro. Ho capito presto che avrei combattuto all'infinito la mia battaglia contro i granchi: e che non sarei andato oltre.

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