At

Blog di Antonio Vigilante

Nulla di eclatante

Renato Accorinti
L'elezione di Renato Accorinti a sindaco di Messina è una delle notizie più confortanti degli ultimi anni. Esiste in Italia una tradizione politica nobilissima, per quanto sotterranea. E' la tradizione di Aldo Capitini, di Danilo Dolci, di Lanza del Vasto, di Ernesto Balducci, di Tonino Bello, di Alex Langer, di migliaia di uomini e donne che hanno lottato per la pace, per la giustizia, per un rinnovamento sociale che parte dalla considerazione dell'ultimo, dell'escluso, di colui che è schiacciato o espulso dal sistema. Nella mia analisi, si tratta di una tradizione che interpreta il terzo principio del motto della rivoluzione francese: quello della fraternità. Abbiamo avuto nel Novecento una tradizione politica centrata sul valore della libertà (quella liberale) ed una tradizione politica fondata sulla giustizia (quella comunista). La nonviolenza rappresenta la terza via: la via di una politica della fraternità. E' evidente che si tratta di una politica diversa. La giustizia e la libertà sono valori che possono concretizzarsi giuridicamente, incarnarsi in leggi e provvedimenti governativi. Nel caso della fraternità, questo è possibile solo parzialmente. Certo, leggi in favore della solidarietà e dell'inclusione degli svantaggiati vanno nella direzione di una società fraterna; ma per realizzare realmente un ideale simile non è sufficiente la politica dall'alto. Occorre un mutamento, una trasformazione della vita individuale. Occorre uscire dall'individualismo e dall'atomismo giuridico per acquistare il senso della necessità dell'altro, l'urgenza della sua presenza accanto. Occorre un cambiamento morale e spirituale. E' per questo che quella della nonviolenza è una via così difficile. Perché opera, per dirla con Langer, più lentamente, più profondamente, più dolcemente (lentius, profundius, suavius).

La questione cardinale dell'acacia

Il fiore dell'acacia di Costantinopoli
(www.neoplantarum.it)
Ieri sera eravamo seduti sotto un'acacia di Costantinopoli, in piazza Giordano: io, Xho e Happy (il cane che vive con noi). Happy leccava beata il residuo dello yogurt al pistacchio di Xho, tuffando il muso nel bicchiere. Da un capannello di gente a due passi s'è staccata una bambina, attirata da Happy. Ha cominciato a giocarci, accarezzandole la testa e le orecchie; poi ha chiamato la sorella più piccola, all'inizio timorosa, poi conquistata anche lei dalla dolcezza di quella cagnona dalle orecchie enormi.
C'era un profumo molto forte di fiori. "Ma da dove viene?", ha detto Xho. Saranno i fiori dell'acacia? E per verificare l'ipotesi è saltata sull'erba e li ha annusati. "Sì, sono i fiori dell'albero". La bambina più grande l'ha subito imitata, saltando anche lei sull'erba ed annusando i fiori (che sono peraltro molto belli): "Sì, sono questi fiori". In quello stesso istante la madre s'è accorta di lei; e: "Scendi dall'erba, ci sono gli scarafaggi". Immediatamente le ha fatto eco il padre: "Ci sono gli scarafaggi". La bambina ha ubbidito. Ha lasciato perdere i fiori dell'acacia di Costantinopoli - bellissimi, profumatissimi - per paura di immaginari scarafaggi.
Ecco, ho pensato, come funziona quella che chiamano educazione. Alla fine il mondo ti pare uno schifo, con scarafaggi che spuntano ovunque: perché hai disimparato ad accorgerti dei fiori.

Educare alla libertà attraverso la libertà

Fonte: http://onsparklingform.tumblr.com
Che l'educazione abbia a che fare con la libertà nessuno, o quasi, lo nega. Tutti affermano che fine dell'educazione è formare persone libere ed autonome. Il problema è che la libertà è concepita come il fine, non come il mezzo dell'educazione. Ci si aspetta che la persona diventi libera attraverso un percorso formativo che comincia con l'assoluta negazione della libertà e diviene man mano meno rigido, fino a lasciare libero il soggetto ormai maturo. Il bambino è considerato un po' come una pianta (le metafore botaniche sono frequentissime in pedagogia), che dev'essere legata, avvinta ad un palo affinché cresca dritta, e non segua le proprie disordinate inclinazioni. Quando la pianta è ormai adulta e ben formata, la si può slegare e lasciare che cresca come vuole. Come vuole? Crescerà, in realtà, come vuole chi dall'esterno ha pensato il suo sviluppo. Ed è quello che accade ai bambini. Avvinti dall'autorità, impacciati, costretti in mille modi, vengono lasciati in pace solo quando hanno interiorizzato le norme, quando hanno ormai quello che Augusto Boal chiama "il poliziotto nella testa" (flic dans la tete).
Libertà è, essenzialmente, autonomia. La parola autonomia rimanda a due cose: sé stessi (autos) e la legge (nomos). Autonomia può voler dire due cose: o offrirsi spontaneamente, da sé, alla legge, oppure darsi la legge da sé. La prima è la concezione conservatrice della libertà e dell'autonomia. Libero, si dice, è soltanto colui che è giunto a consentire interiormente con la legge, fino al punto di non volere se non ciò che la legge stessa vuole. Un soggetto libero così inteso non viola la legge perché l'ha interiorizzata al punto tale da essere tutt'uno con essa. Non si può dire che la legge venga dall'esterno a limitare la sua azione; la legge è tutt'uno con lui. La seconda concezione considera la legge come qualcosa che il soggetto non interiorizza, ma conquista da sé: e può essere che vi sia un contrasto tra ciò che lui ritiene buono e giusto e ciò che la società impone come buono e giusto. Una libertà di questo genere è indubbiamente pericolosa per la società, poiché mette in discussione i valori, le norme, i rituali condivisi; al tempo stesso è per essa una benedizione, perché le offre il dinamismo che è necessario per farla evolvere, per aprirla a nuove posizioni morali, a più avanzate conquiste civili. Chi oggi è un deviante, domani appare come un precursore. L'obiettore di coscienza che oggi è un criminale da sbattere in galera, domani apparirà come colui che ha difeso il sacrosanto diritto di non uccidere, che non può che essere riconosciuto dallo Stato.

Femminicidio e cultura del dominio

Murale a Roma, quartiere San Lorenzo
(fonte: roma.repubblica.it)
Nei giorni scorsi alcune donne ed alcuni uomini si sono incontrati a Foggia, convocati dalla associazione Donne in rete (presieduta da Rita Saraò), per discutere insieme di violenza sulle donne. E' l'inizio di un percorso comune di riflessione e di autoanalisi di cui non si può non avvertire la necessità e l'urgenza, ed al quale auguro di fare molta strada e di coinvolgere quante più persone possibile.
L'avvio di questa riflessione comune non può che essere la domanda che sempre torna a tormentarci di fronte alla violenza: perché? Perché accade? Perché si violenta, si tortura, si uccide? E perché lo si fa alle donne? Vorrei azzardare qualche ipotesi, offrendo il mio minimo contributo alla discussione. Lo faccio da persona che si è occupata a lungo, con esiti che non sta a me giudicare, del problema della violenza. E lo faccio con la consapevolezza, che mi viene da quegli stessi studi, che ogni tentativo di pensare la violenza non è che un balbettio.
Perché, dunque, la violenza sulle donne? Per cercare di rispondere a questa domanda ci sono due vie: si può considerare la violenza sulle donne come un fatto a sé stante o la si può considerare una forma di una violenza più generale. Il mio tentativo di analisi seguirà questa seconda via. La violenza sulle donne mi preoccupa, ma non è l'unica forma di violenza che mi preoccupa. Mi preoccupa la violenza dell'uomo sull'uomo (e sulla donna) che prende la forma dello sfruttamento economico, mi preoccupa la violenza sui bambini, mi preoccupa la violenza sui diversi, siano omosessuali, Rom o extracomunitari, mi preoccupa la terribile violenza sugli animali. Credo che ci sia un nesso essenziale tra tutte queste forme di violenza, al punto tale che non sia possibile combattere una senza combattere anche le altre. Mi rendo conto che alle donne può dar fastidio che la loro causa sia accostata a quella degli animali; d'altra parte, vi sono anche antispecisti come Leonardo Caffo, cui dà fastidio che la causa degli animali sia accostata a quella delle donne. Eppure credo che l'antispecismo politico - la posizione di chi afferma che le lotte di liberazione umana ed animale debbano procedere di pari passo - abbia ottime ragioni.

Le mucche si sono estinte

La mucca come oggetto industriale
Vorrei considerare brevemente una obiezione al vegetarianesimo che mi è stata avanzata recentemente da un collega, docente di scienze naturali. L'obiezione è così formulata: 

Se si diffondesse il vegetarianesimo, molte specie animali - quelle attualmente sfruttate per scopri alimentari - si estinguerebbero. Gli asini, ad esempio, erano quasi estinti; stanno ricominciando a diffondersi da quando si è tornati a mangiare la loro carne e bere il loro latte.

Mi pare che a questo argomento si possa replicare con quattro controargomenti.

1. Cosa vuol dire che una specie non si è estinta? Quando una specie esiste? Richiamiamo alla mente la situazione del film Matrix: gli esseri umani sono sfruttati dalle macchine come semplici fonti di energia, chiusi ed immobili in distese sterminate di baccelli. Si può dire, in quel caso, che la specie umana esiste ancora? E' lecito dubitarlo, poiché un essere umano non è una batteria. Lo stesso vale anche per gli animali. Il criterio generale è: un essere vivente non è una cosa. Quando viene ridotto a cosa, semplicemente non esiste più come essere vivente. Le mucche ed i polli ridotti a cose dal sistema industriale non esistono più come mucche e polli. Si sono estinti. 

Dino Frisullo e la vera politica

Dino Frisullo
Cos'è la politica? A giudicare dall'operare della classe politica italiana - ma altrove non va diversamente - negli ultimi decenni, bisognerebbe rispondere così: è il movimento che distacca il centro della società dalla periferia. Grazie all'opera della politica e dei politici, ci sono un numero ristretto di persone che hanno denaro, prestigio, potere, e molte altre persone che non ne hanno. La politica, come la guerra secondo Eraclito, "gli uni fa schiavi e gli altri liberi". E' sufficiente considerare la distribuzione delle ricchezze in Italia e nel mondo per constatare i risultati di questa politica. Secondo dati della Banca d'Italia, il 10% delle famiglie italiane possiedono il 45% delle ricchezze del nostro paese. Nel mondo va anche peggio: secondo uno studio delle Nazioni Unite, il 2% della popolazione mondiale possiede più della metà della ricchezza mondiale complessiva.
La cosiddetta classe politica rientra, naturalmente, nel nucleo ricco e privilegiato della società, e ciò senza differenze di rilievo tra la cosiddetta destra e la cosiddetta sinistra. I politici sono fondamentalmente uomini e donne d'affari, ben attenti a difendere i propri interessi economici anche quando parlano di solidarietà e giustizia sociale.
Ma la politica - bisogna dirlo con chiarezza - non è questa. La politica è altro; ed altri sono i politici. La politica è il movimento che cerca con sforzo continuo, inesausto, di portare al centro della società coloro che sono alla periferia. La politica non tollera l'esclusione, la marginalizzazione, il rifiuto. E' costruzione della polis intesa come il luogo in cui tutti sono liberi e nessuno è inferiore a nessuno. C'è politica ovunque qualcuno lotta perché qualche altro possa ottenere il riconoscimento pieno dei suoi diritti. C'è politica ovunque qualcuno scopre il volto dell'altro.
Come il sacro, la politica autentica la trovi dove meno te l'aspetti: non nelle chiese, il primo; non nei parlamenti, il secondo. La trovi, la politica, lì dove qualcuno aiuta una prostituta, un pregiudicato, un clandestino, un lavoratore sfruttato a conquistare la propria piena umanità. Ed è lì che in genere trovi anche il sacro.

Rifare sempre tutto da capo

Marc Chagall, Mother and child, 1956
Gli educatori hanno una tendenza verso il futuro. Si preoccupano di quello che l'educando diventerà da grande, e si sforzano di fare in modo che diventi in un certo modo. Per dirla altrimenti, progettano l'educando. E' un atteggiamento che ha un polo alto, per così dire, ed un polo basso. Il primo consiste nel preoccuparsi di quello che diventerà l'educando come persona, quali valori avrà, in cosa crederà, per cosa lotterà. E' una preoccupazione assolutamente comprensibile: ogni genitore auspica che il figlio diventi una persona corretta, che sia democratico, che creda nella libertà e nella giustizia. Che sia un uomo o una donna di grandi passioni, e non di mediocri calcoli. Il polo basso consiste invece nel preoccuparsi che il proprio figlio diventi un certo tipo di persona dal punto di vista sociale e professionale: che faccia l'ingegnere e non l'operaio, che mantenga lo status sociale dei genitori, e così via.
Non è difficile scorgere della violenza in questo secondo atteggiamento. Il genitore cerca di riprodurre sé stesso nel figlio, senza rispettare il suo bisogno di costruirsi in modo autonomo una identità. In molti casi questo processo si compie senza problemi: la società è piena di notai figli di notai. Ma spesso accade che il figlio si ribelli, rivendicando una identità diversa da quella dei genitori. In molti casi, una identità pensata in opposizione. Negli anni della contestazione studentesca molti giovani rifiutarono l'identità borghese delle loro famiglie, cercando una nuova identità nelle esperienze più diverse oppure nell'ideologia.