A scuola con la mindfulness
E’ uscito il mio ultimo libro: A scuola con la mindfulness. Riflessioni ed esercizi per portare l’Educazione Basata sulla Consapevolezza nella scuola italiana, Terra Nuova. Parte da qui:
La violenza esiste. Ognuno di noi l’ha vissuta sulla sua pelle, in una forma o nell’altra, l’ha vista, sentita, subita, o toccata attraverso il racconto, l’immagine, il suono. Ognuno di noi l’ha esercitata, in una forma o nell’altra. Siamo nella violenza. Da secoli costruiamo inferni per noi e per gli altri. Perché? La presenza della violenza mi interroga, mi inquieta, mi indigna. Perché si violenta, si uccide, si degrada l’altro? Perché si riduce un essere vivente a cosa? Perché si crea il nemico e lo si massacra?
Non ho risposte certe, ma solo ipotesi. Può essere che la specie umana sia violenta per natura, che la violenza sia radicata nelle nostre non troppo lontane origini animali, può essere che siamo, in fondo, predatori specializzati nel predare all’interno della nostra stessa specie. Può essere che la violenza sia legata a certe organizzazioni socio-economiche, che nasca con la divisione della proprietà, e che sia destinata a finire con la fine della proprietà. Può essere che la violenza sia il portato di alcune visioni culturali, che spingono all’odio del nemico, al fanatismo, all’esaltazione. E può essere che siano vere tutte queste ipotesi insieme.
Una cosa è certa, però, perché può verificarla ognuno. Il processo che porta ad odiare, violentare, uccidere, nasce dentro di noi. Nessuno sfugge, almeno per qualche tempo, al suo inferno interiore: paura, rabbia, vergogna, odio, rancore, voglia di vendetta. E’ da questo inferno interiore che nasce l’inferno esteriore della violenza. E questo inferno interiore non è una cosa che, semplicemente, accade. Possiamo farci qualcosa. Possiamo osservarlo, diventarne consapevoli, analizzarlo; e per questa via uscirne, essere altro dal nostro inferno.
Probabilmente avremo una società meno violenta quando le risorse saranno distribuite in modo equo, quando il potere sarà di tutti, quando non ci saranno più religioni che incitano all’odio. Ma la mia possibilità di intervenire su queste cose è molto limitata. Quello che posso fare, come individuo, è investigare l’inferno dentro di me e cercare le vie migliori per uscirne; e come insegnante ed educatore, aiutare i miei studenti a fare lo stesso.
E’ per questo che medito. Ed è per questo che scrivo questo libro.
A scuola con la mindfulness
E' uscito il mio ultimo libro: A scuola con la mindfulness. Riflessioni ed esercizi per portare l'Educazione Basata sulla Consapevolezza nella scuola italiana, Terra Nuova. Parte da qui:
La violenza esiste. Ognuno di noi l’ha vissuta sulla sua
pelle, in una forma o nell’altra, l’ha vista, sentita, subita, o toccata
attraverso il racconto, l’immagine, il suono. Ognuno di noi l’ha esercitata, in
una forma o nell’altra. Siamo nella violenza. Da secoli costruiamo inferni per
noi e per gli altri. Perché? La presenza della violenza mi interroga, mi
inquieta, mi indigna. Perché si violenta, si uccide, si degrada l’altro? Perché
si riduce un essere vivente a cosa? Perché si crea il nemico e lo si massacra?
Non ho risposte certe, ma solo ipotesi. Può essere che la
specie umana sia violenta per natura, che la violenza sia radicata nelle nostre
non troppo lontane origini animali, può essere che siamo, in fondo, predatori
specializzati nel predare all’interno della nostra stessa specie. Può essere
che la violenza sia legata a certe organizzazioni socio-economiche, che nasca
con la divisione della proprietà, e che sia destinata a finire con la fine
della proprietà. Può essere che la violenza sia il portato di alcune visioni
culturali, che spingono all’odio del nemico, al fanatismo, all’esaltazione. E
può essere che siano vere tutte queste ipotesi insieme.
Una cosa è certa, però, perché può verificarla ognuno. Il
processo che porta ad odiare, violentare, uccidere, nasce dentro di noi.
Nessuno sfugge, almeno per qualche tempo, al suo inferno interiore: paura,
rabbia, vergogna, odio, rancore, voglia di vendetta. E’ da questo inferno
interiore che nasce l’inferno esteriore della violenza. E questo inferno interiore
non è una cosa che, semplicemente, accade. Possiamo farci qualcosa. Possiamo
osservarlo, diventarne consapevoli, analizzarlo; e per questa via uscirne,
essere altro dal nostro inferno.
Probabilmente avremo una società meno violenta quando le
risorse saranno distribuite in modo equo, quando il potere sarà di tutti,
quando non ci saranno più religioni che incitano all’odio. Ma la mia
possibilità di intervenire su queste cose è molto limitata. Quello che posso
fare, come individuo, è investigare l’inferno dentro di me e cercare le vie
migliori per uscirne; e come insegnante ed educatore, aiutare i miei studenti a
fare lo stesso.
E’ per questo che medito. Ed è per questo che scrivo questo
libro.
Prima gli italiani! Anzi: prima i Rom!
La notizia che una famiglia di Rom ha occupato a Porto Cervo una lussuosa villa la cui proprietà riconducibile a Formigoni (ma i giornali parlano senz’altro di “villa di Formigoni”) mette in serio imbarazzo salviniani e populisti d’ogni genere. Da una parte i Rom, dall’altra Formigoni, rappresentante dell’odiata casta politica. Chi odiare di preferenza? Verrebbe quasi da preferire i Rom, questa volta, tanto più che la motivazione dei genitori – “Anche i nostri figli hanno diritto a una vacanza al mare” – è di quelle che mettono tenerezza. Ma i Rom sono Rom, e l’odio nei loro confronti è radicato, tenace, fortissimo.
Una soluzione che salva capra e cavoli è la domanda: come mai in questo caso hanno sgomberato rapidamente, mentre quando occupano la casa di un poveraccio non si riesce a mandarli via nemmeno con le bombe? Con questa domanda il populista manifesta la massima antipatia verso i Rom senza cedere di un millimetro nel suo odio verso Formigoni. Se qualcuno poi gli chiedesse come e quando dei Rom, che in genere si vedono negato il diritto alla casa popolare, hanno abusivamente occupato la casa di un poveraccio, il populista salviniano si illuminerebbe come chi si trova a ricevere un inaspettato assist. Ve la ricordate la faccenda di Avezzano? Ah, c’è da fremere di indignazione a distanza di più di un anno. Una povera famiglia di italiani, lui muratori e lei casalinga, che si allontana un po’ da casa e al ritorno, orribile a dirsi, la trova occupata da una famiglia. E quale famiglia! Rom! All’epoca (era il marzo del 2016) Salvini si precipitò di corsa in difesa degli espropriati, e un leghista locale, tale Paolo Arrigoni, annunciò che era disposto a dargli man forte con una ruspa. Una ruspa vera. “E’ inimmaginabile che una famiglia con tre figli finisca per strada a causa dell’ennesima truffa messa in atto dai rom. Ormai è sufficiente assentarsi per qualche ora che si rischia di perdere casa, di perdere tutto. Rom, immigrati clandestini, finti profughi, quand’è che il governo finalmente inizierà a tutelare i cittadini italiani e non questi parassiti senza scrupoli e pronti a tutto?”, aveva dichiarato indignato ai giornali.
Rom, immigrati clandestini, profughi (ovviamente finti) da un lato, cittadini italiani dall’altro. Ma le cose non stavano proprio così.
Come è noto a chiunque conosca un po’ la realtà rom, ossia quasi a nessuno, in Rom sono stanziati in Abruzzo fin dal Quattrocento. Centinaia di anni. Sono italiani esattamente come tutti gli altri. Italiani con cittadinanza italiana. Italiani con tutti i diritti dei cittadini italiani, compreso il diritto alla casa.
E’ chiaro che il salvinianesimo si trova di fronte ad un problema di non poco conto. “Prima gli italiani”, gridano salviniani e populisti (compresi molti pentastellati). Dopo la crisi delle grandi narrazioni, per molti italiani è questo l’unico slogan pseudo-politico praticabile. Ed è uno slogan che non contiene, propriamente, la rivendicazione di un qualche primato morale e civile del popolo italiano. Sono inutili complicazioni intellettualistiche, roba d’altri tempi, quando si soppesava il contributo dei popoli: una faccenda che richiede uno sforzo di riflessione e di confronto che non si può chiedere all’italiano medio. Ma per quanto semplice semplice, lo slogan un qualche sforzo intellettuale lo richiede. Almeno quello di rispondere alla domanda: chi sono gli italiani? Chi siamo noi che diciamo di essere prima? La faccenda sembra facile, ma non lo è. Perché, ecco, nel caso di Avezzano, sono proprio i Rom che, in pieno spirito salviniano, avrebbero potuto dire: prima noi, che siamo italiani. E quando Salvini è andato ad Avezzano, non hanno mancato di dirglielo. “Quella che stava nella casa è di origine marocchina sposata a un italiano. Abbiamo più diritto noi che siamo italiani da sette generazioni.” Ora, stando al salvinianesimo, avrebbero perfettamente ragione. Da una parte abbiamo una famiglia composta da una marocchina e un italiano, da un’altra una famiglia di italiani da sette generazioni. Chi viene prima? Chi è più italiano? Chi è italiano?
Si può rispondere a questa domanda in diversi modi. Si può dire che è italiano chi è nato in Italia. Questo però vuol dire riconoscere lo ius soli, dare la cittadinanza ai bambini figli di stranieri che sono nati in Italia e riconoscere la loro italianità. Una cosa piena di buon senso, ma che Salvini e i populisti rifiutano con sdegno. La seconda risposta è che è italiano chi parla italiano. La lingua come elemento unificante di un popolo. Ma anche questa risposta comporta qualche problema, perché una buona parte di italiani l’italiano non lo parlano affatto. In molte famiglie la lingua principale è il dialetto, ed è spesso un dialetto diversissimo dalla lingua nazionale. E in non poche famiglie è l’unica lingua parlata, e l’italiano, se è compreso, è compreso male e parlato peggio. La terza risposta è che sono italiani quelli, al di là della lingua, che si riconoscono nella cultura e nella identità italiana. E se si chiede cos’è questa identità italiana, viene fuori il crocifisso. Nella discussioni animatissime sull’ipotesi di rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche, la ragione più usata dai populisti è che il crocifisso è un simbolo dell’identità italiana, e come tale non va toccato. Ma è un ragionamento che non sta in piedi. Ci sono italiani cattolici, italiani evangelici, valdesi, buddhisti, atei. E anche quelli che si professano cattolici, il cattolicesimo spesso lo seguono ben poco. Cercare l’identità in un simbolo religioso, in un paese sempre più rapidamente secolarizzato, è una impresa votata al fallimento e al paradosso. E’ appena il caso di considerare che il clero cattolico è costituito sempre più da extracomunitari. La quarta risposta è che è italiano chi risiede in Italia, ma non da qualche mese o da qualche anno. Da sempre. Ma sempre, come si sa, è un avverbio che va usato con estrema cautela. Chi può dire che la propria famiglia è in Italia da sempre? La genealogia riserva brutte sorprese. Più ragionevole può essere limitarsi a qualche secolo. Ma anche in questo caso, i Rom abruzzesi possono rivendicare a pieno titolo la loro italianità.
Se non basta la nascita, se non basta la lingua, se non basta l’identità religiosa e non è nemmeno sufficiente essere in Italia da molto, si potrà ricorrere a qualcosa di più impalpabile e al tempo stesso di più solido. Il sangue. La razza. Se si ricorre a una teoria della razza, si può dire che i Rom, anche se parlano italiano, anche se vivono in Italia da secoli, non sono italiani. Sono una razza diversa. In altri termini, il salvinianesimo può uscire dalle sue contraddizioni sono diventando apertamente fascista. E non un fascismo aggiornato, un “fascismo del terzo millennio”, ma il fascismo in senso stretto, il fascismo nella sua manifestazione più atroce. Il fascismo della teoria della razza e delle leggi razziali. Una teoria della razza, però, oggi come ieri, colpirebbe gli ebrei. E Salvini non ha nulla contro gli ebrei. Quando la Brigata Ebraica si rifiuta di sfilare al corteo del 25 aprile insieme ad una organizzazione palestinese, Salvini non ha dubbi: “Io sto con la Brigata Ebraica tutta la vita”. Lo slogan “Prima gli italiani!” include dunque anche gli ebrei, e la cosa è rassicurante. E dunque nemmeno questa via è praticabile. Chi sono, allora, questi italiani? Da chi è composto il noi salviniano-populista?
La risposta è meno difficile di quel che sembra, ed in fondo non ha molto a che fare con l’italianità in sé. In una società capitalistica, in cui tutto gira intorno al denaro, c’è un solo segno di riconoscimento, un solo criterio per stabilire l’identità e la differenza: il denaro stesso. Il noi populista è costituito da quelli che possiedono una quantità di denaro che li mette in grado di partecipare, in misura maggiore o minore, al benessere capitalistico. I non italiani sono quelli che questo denaro non lo hanno, e cercano di ottenerlo. E così facendo, spaventano chi il denaro lo ha, e credendo che si tratti di un gioco a somma zero, immagina che ogni euro che finirà nelle sue tasche sarà tolto dalle sue. Il noi salviniano è un noi piccolo borghese, abbastanza miserabile, non meno rassicurante del noi fascista. E’ il soggetto storico del vero fascismo del terzo millennio, un fascismo pronto ad ogni ferocia per difendere quel benessere da nemici reali o immaginari. Non bisogna lasciarsi ingannare dall’uso strumentale che salviniani e populisti fanno dei poveri italiani, la cui esistenza renderebbe inopportuna, ingiusta, moralmente e politicamente condannabile l’accoglienza del diverso. Il povero italiano – il povero vero non quello della retorica – è una presenza non meno disturbante dello straniero, rappresenta una minaccia non meno reale per la casalinga di Voghera, che in questi tempi grami è sempre lì lì per degenerare nella casalinga di Erba.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 6 luglio 2017.
Prima gli italiani! Anzi: prima i Rom!
La notizia che una famiglia di Rom ha occupato a Porto Cervo una lussuosa villa la cui proprietà riconducibile a Formigoni (ma i giornali parlano senz'altro di "villa di Formigoni") mette in serio imbarazzo salviniani e populisti d'ogni genere. Da una parte i Rom, dall'altra Formigoni, rappresentante dell'odiata casta politica. Chi odiare di preferenza? Verrebbe quasi da preferire i Rom, questa volta, tanto più che la motivazione dei genitori - "Anche i nostri figli hanno diritto a una vacanza al mare" - è di quelle che mettono tenerezza. Ma i Rom sono Rom, e l'odio nei loro confronti è radicato, tenace, fortissimo.
Donnarumma e la religione della scuola
Fino a qualche giorno fa per me Donnarumma era il personaggio di un dimenticato romanzo di Ottiero Ottieri del 1959. So ora che esiste un altro Donnarumma – per la stragrande maggioranza l’unico Donnarumma – che fa il portiere del Milan. Di lui parlano i giornali perché ha rinunciato a sostenere gli esami di Stato in un istituto paritario per andare ad Ibiza. Scelta che Gramellini ha ieri seriamente bacchettato sulla sua rubrica sul Corriere della Sera. Perché indignarsi se un giovane calciatore già milionario rinuncia alla scuola, dice Gramellini, in un paese in cui la scuola è considerata null’altro che uno strumento per trovare lavoro? Il lavoro Donnarumma l’ha già, ed è un lavoro che gli fa guadagnare milioni. “Magari tra qualche tempo cambierà idea e colmerà la lacuna, perché le cose iniziate è sempre meglio portarle a termine, anche solo per una questione di carattere. Oppure no, e in tal caso resterà iscritto per tutta la vita al club dei ricchi ignoranti, in Italia così frequentato che non correrà mai il rischio di soffrire di solitudine”, conclude amaramente Gramellini.
Ha ragione, Gramellini, la scuola è considerata in Italia da molti un modo per trovare lavoro ed affermarsi professionalmente. Ma non solo oggi, né solo da qualche anno. Non è un segno della decadenza attuale dell’istituzione. Già la Scuola di Barbiana nella Lettera a una professoressa denunciava che per studiare volentieri nelle nostre scuole “bisognerebbe essere già arrivisti a dodici anni”. Ed era il 1967. Piuttosto il fatto, che è sotto gli occhi di tutti, che un laureato, anzi un dottore di ricerca possono tirare avanti con contratti a termine, borse, assegni di ricerche e supplenze, in una condizione di precarietà che sfiora la miseria, permette oggi di cercare un senso diverso del fare scuola. E non sono del resto i docenti spesso precari fino a quaranta, cinquant’anni ed oltre? Quale affermazione sociale possono vantare i docenti stessi?
Se non è un modo per trovare lavoro, cos’è – cosa deve essere – la scuola? “Un luogo di evoluzione culturale e umana”, scrive Gramellini. Una belle definizione, ma non priva di problemi. Che cos’è esattamente l’evoluzione culturale e umana? Cos’è la cultura? Quale cultura? Sono le questioni con le quali ha a che fare quella disciplina infelice che è la pedagogia. Che mette in evidenza, ad esempio, come non esista la cultura, ma le culture, e come la scuola scelga una cultura esistente e ne faccia la cultura, l’unica sola, l’unica possibile, con un arbitrio che è inevitabilmente violento. E cosa vuol dire evoluzione umana? Chi è umanamente più evoluto? Chi può dirlo? La scuola accarezza l’ideale dell’intellettuale, della persona che ha a che fare con i libri, con molti libri, e che grazie ai libri diventa sempre più raffinata. Don Milani considerava questo un ideale borghese, e dunque individualistico, e contrapponeva ad esso l’umanità intesa come servizio, come partecipazione fattiva alla vita della comunità; ed a questo, più che a formare intellettuali occhialuti, dovrebbe servire la scuola.
Il dibattito, come si dice, è aperto. Una cosa però dovrebbe essere chiara: cosa non è la scuola. Cosa non deve essere.
La scuola come la intendiamo, come la facciamo oggi è nata con la modernità. La giustifica un ragionamento molto semplice e apparentemente molto condivisibile di Comenio, uno dei massimi pedagogisti di ogni tempo. Si diventa esseri umani in senso pieno solo attraverso l’educazione; può accadere, però, che un bambino abbia la sfortuna di avere dei genitori che, per ignoranza o per mancanza di tempo o di disposizione, non sono in grado di dargli un’educazione adeguata; occorre dunque che tutti i bambini, ricchi o poveri, abbiano la possibilità di andare a scuola, dove riceveranno dallo Stato quella educazione che consentirà loro di diventare pienamente umani.
Questo sillogismo così comprensibile, così moderno, ha però un lato oscuro. Se affidiamo allo Stato il compito di formare pienamente gli esseri umani, secondo quella concezione del potere che Foucault chiamerà biopotere, gli diamo anche la possibilità e il diritto di stabilire cosa e come deve essere un essere umano. Quando educhiamo qualcuno, lo facciamo secondo un ideale umano. Ma chi stabilisce questo ideale? Chi stabilisce come deve essere, da adulto, la persona che stiamo educando? Chi stabilisce che dovrà avere, ad esempio, sviluppatissime competenze intellettuali e nessuna competenza manuale o professionale? Lo stabilisce il potere. Lo stabilisce lo Stato.
Lo Stato ha il potere, attraverso la scuola, di stabilire come dev’essere un essere umano. Ha il potere di progettarlo secondo questo ideale. E, soprattutto, ha il potere di stabilire, di certificare addirittura il grado di umanità raggiunto con un sistema di riconoscimento sociale: i diplomi. La scuola si presenta esattamente come una chiesa, al di fuori della quale non c’è salvezza. Chi la percorre fino in fondo, chi ottiene la laurea, ha realizzato pienamente la sua umanità, chi invece è uscito dal sistema prima del tempo, o ne è stato espulso, è un essere umano parzialmente realizzato. E’ uno che si e perso. E’ un dannato. Extra Scholam nulla salus.
E’ questa religione della scuola l’implicito del ragionamento di Gramellini. Un ragazzo si afferma professionalmente indipendentemente dalla scuola. E questa è una offesa alla istituzione, vuol dire che qualcuno può salvarsi anche al di fuori della chiesa-scuola. Ma, avverte Gramellini, è una salvezza solo fittizia. Arrivano i soldi, ma non arriva l’umanità: il calciatore, se non colmerà la lacuna, resterà a vita iscritto al club degli ignoranti. E questo per essersi sottratto, sostanzialmente, ad un rituale vuoto: perché possiamo immaginare cosa sarebbe stato l’esame di Stato di un calciatore famoso, che per ovvie ragioni ha avuto ben poca possibilità di studiare, in un istituto paritario, con tanto di giornalisti e fotografi. Il protagonista del romanzo di Ottieri è un uomo che si trova a svolgere un lavoro delicato. E’ stato mandato a fare la selezione del personale per assumere operai in una fabbrica. La disoccupazione è tanta, le domande sono migliaia, i posti disponibili poche centinaia. E l’uomo ascolta e seleziona. Arriva un giorno questo Donnarumma. Si presenta e dice che vuole lavorare. Come tutti. L’uomo gli chiede se ha fatto domanda. E Donnarumma: “Che domanda e domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io no debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere”. Anche quest’altro Donnarumma avrebbe suscitato l’indignazione di Gramellini, se negli anni Cinquanta ci fosse stato un Gramellini. Lo avrebbe iscritto d’ufficio al club dei poveri ignoranti, come oggi ha iscritto il nuovo Donnarumma, più fortunato, al club dei ricchi ignoranti. La scuola ha una funzione non diversa da quella del selezionatore di Ottieri. Lì la scelta è tra chi lavorerà in fabbrica e chi no, che in una città con enorme disoccupazione significa, sostanzialmente, tra chi si salverà e chi no. La selezione che opera la scuola, o che pretende di operare, è tra chi è entrato a pieno diritti nella corrente della comune umanità e chi ne è rimasto escluso. “Non abbiamo potuto salvarlo”, dirà sconsolato il docente commentando la bocciatura di uno studente. Salvarlo. Come se quell’atto significasse una caduta in qualche inferno. Come se fuori da scuola non ci fosse nessuna possibilità di esperienza, di informazione, di conoscenza, di crescita intellettuale ed umana. Come se l’unico modo di diventare uomini e donne fosse, davvero, star seduti in un banco ad aspettare che suoni la campanella.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 6 luglio 2017.
Donnarumma e la religione della scuola
Fino a qualche giorno fa per me Donnarumma era il personaggio di un dimenticato romanzo di Ottiero Ottieri del 1959. So ora che esiste un altro Donnarumma - per la stragrande maggioranza l'unico Donnarumma - che fa il portiere del Milan. Di lui parlano i giornali perché ha rinunciato a sostenere gli esami di Stato in un istituto paritario per andare ad Ibiza. Scelta che Gramellini ha ieri seriamente bacchettato sulla sua rubrica sul Corriere della Sera. Perché indignarsi se un giovane calciatore già milionario rinuncia alla scuola, dice Gramellini, in un paese in cui la scuola è considerata null'altro che uno strumento per trovare lavoro? Il lavoro Donnarumma l'ha già, ed è un lavoro che gli fa guadagnare milioni. "Magari tra qualche tempo cambierà idea e colmerà la lacuna, perché le cose iniziate è sempre meglio portarle a termine, anche solo per una questione di carattere. Oppure no, e in tal caso resterà iscritto per tutta la vita al club dei ricchi ignoranti, in Italia così frequentato che non correrà mai il rischio di soffrire di solitudine", conclude amaramente Gramellini.
Don Milani, il papa e la lotta di classe
Nel marzo del 1960, durante la traslazione della tomba di Alessandro Manzoni, accadde un mezzo miracolo: la tomba apparve apparve stranamente illuminata, anzi sprigionante luce. Fu un mezzo miracolo, e non un miracolo completo, perché qualcuno ebbe il buon senso di far notare che si trattava del riflesso di un raggio solare sulla teca di cristallo, e qualche altro ebbe il buon senso di ascoltarlo. Ciò non impedì, com’è naturale in Italia, che da più parti si invocasse la beatificazione dello scrittore. Chiedendo all’amico giornalista Giorgio Pecorini di procurargli una foto del corpo mummificato dello scrittore, che incuriosiva i ragazzi di Barbiana, don Lorenzo Milani ragiona divertito sulle conseguenze della santificazione: “Hai mai pensato che immenso sfalsamento avverrebbe a tutto il romanzo se i gesuiti facessero la follia di santificarne l’autore? Nel giro di pochi decenni i ragazzi costretti fin dall’infanzia a dire le preghierine al Santo Romanziere protettore delle scuole lo vedrebbero sempre in aureola anche quando descrive la peste e non gli crederebbero più una parola. Tragico destino di chi vien dalla Chiesa benedetto e consacrato. Motivo profondo per cui bisogna sempre parlare sboccatamente e ineducatamente e farsi odiare quanto occorre per essere almeno presi sul serio” (1).
Dopo la visita di papa Francesco a Barbiana pare che lo stesso don Milani abbia rischiato questo tragico destino. Con un certo sollievo abbiamo letto le parole del cardinale di Firenze, che dopo la visita ha dichiarato che non ci sarà alcuna beatificazione, e che Barbiana non diventerà un santuario. La visita del papa ha un altro significato. Papa Francesco ha riconosciuto che il modo in cui don Milani è stato prete è stato un buon modo di fare il prete, di realizzare la missione sacerdotale, di mettere in pratica il Vangelo. E’ un riconoscimento importante, che lo stesso don Milani aveva chiesto apertamente al suo vescovo, senza successo. Voleva che la Chiesa prendesse atto che la sua vicenda a Barbiana non era un fatto privato, l’avventura di un personaggio stravagante, ma una via del cattolicesimo, una possibilità per la Chiesa. Dopo cinquant’anni papa Francesco riconosce che è così. O quasi. Lo fa arrivando a Barbiana in elicottero, unico tra coloro che sono giunti a Barbiana dal ’54 in poi. A Barbiana si saliva e si sale a piedi; al massimo in automobile. Elicotteri mai. Si dirà: una polemica sterile, che non considera la sostanza. Ma qui si tratta proprio della sostanza.
Don Milani è stato tre cose: un prete, un educatore, uno scrittore. Come educatore ha avuto la sorte migliore. La Lettera a una professoressa dopo cinquant’anni è ancora un testo infinitamente più vivo di qualsiasi altro tomo di pedagogia scritto in quegli anni. E’ stato frainteso e lo sarà ancora a lungo, ci sarà sempre qualche Paola Mastrocola ad attribuire al Priore catastrofi grammaticali o pedagogiche, ma chiunque voglia capire, capisce: e capisce cose importanti ieri, non meno importanti oggi. Come scrittore don Milani è ancora da scoprire, e la pubblicazione di tutte le opere nei Meridiani Mondadori rappresenta un’occasione importante. A ragione Alberto Melloni scrive, introducendo i due volumi, che la sua scrittura “deve essere trattata con la cura e i crismi riservati a quelle grandi opere – verrebbe da pensare al De Vulgari eloquentia dantesco o al Manzoni stesso – che si sono poste il ‘problema’ della lingua mentre ne costruivano una e la consegnavano a un destinatario preciso, dotata di codici d’accesso e di filtri rigorosi” (2). Ma don Milani era, e voleva essere, soprattutto un prete. Era educatore, era scrittore, in quanto prete. Si tende a dimenticarlo, perché la scuola che faceva era laica; ma fare scuola laica era il suo modo di essere prete. Di essere prete nel modo più serio e più alto.
Pochi mesi prima di morire scrive ai suoi ragazzi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritti tutto sul suo conto” (3). Questa è la via di Don Milani come prete. Amare Dio amando le persone. Che detta così sembra una cosa ragionevolissima, nulla di cui scandalizzarsi. A far scandalo – e a indicare una via – è quel “più” di troppo. Si ricordino le parole, per molti versi terribili, del Dottore della Chiesa San Giovanni della Croce: “l’affetto per Dio e quello per le creature sono contrari e quindi non possono essere contenuti nella stessa volontà”; e ancora: “tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio. Giustamente quindi, vengono chiamati cani coloro che si vanno pascendo delle creature…” (4). Don Milani sarebbe stato proprio uno di questi cani che si cibano delle briciole cadute dalla mensa di Dio, una immagine che con ogni probabilità gli sarebbe piaciuta. Di più: si direbbe che gli interessino soltanto le briciole, che esse non siano un modo per risalire alla mensa, per partecipare in qualche modo ad essa, ma che siano l’unico cibo possibile, accettabile, desiderato. Detto altrimenti: un Dio che si risolve nelle creature, una fede che diventa prassi di incontro con esse. Ma non qualsiasi creatura. Quelle creature che sono i poveri. Per don Milani essere prete – ossia avere fede, essere cristiano – significava questo: mettersi al servizio dei poveri. Trattare i poveri come Dio stesso. Una fede che si pone agli antipodi della teologia. La fede non è una questione di logos, ma di praxis. Di azione. E’ qualcosa da fare con gli altri. Per un non credente e non cristiano come me, una cosa particolarmente interessante di questo modo di concepire la fede è la possibilità di incontro con i non credenti. Se Dio non è nel logos, ma nella praxis, allora ci si può incontrare nella praxis, sia che si sia credenti (o, per dirla con don Milani, che si faccia parte della Ditta) sia che si sia atei.
Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa per non fraintendere don Milani. La praxis che realizza la fede non è un generico mettersi al servizio dei poveri, né un mettersi al servizio dei poveri educandoli. La Chiesa fa da tempo entrambe le cose. La novità di don Lorenzo consiste nel fatto che questa prassi è una prassi politica, non un’azione caritatevole. Non è il gesto benevolo con il quale il membro di una istituzione che da secoli giustifica e fonda l’oppressione dei ricchi sui poveri (come vide e denunciò già nel Settecento un altro prete a contatto con i poverissimi, Jean Meslier), ma è il gesto di rottura di un prete che insegna ai poveri che sono oppressi dai ricchi, e che devono liberarsi da questa oppressione combattendo i ricchi. Ecco le parole di don Lorenzo durante un incontro con alcuni direttori didattici: “io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso”. E al direttore didattico che gli fa osservare scandalizzato che quelli sono “concetti marxisti”, risponde rivendicando il senso cristiano di quelle parole: “Vi parlo da sacerdote perché oltretutto io sono più prete di voi. Io sono prete, se ve lo dico io, si può dire” (5).
Ma si può dire davvero? E’ per confermare questo “si può dire” che don Lorenzo chiedeva un gesto al suo vescovo. Un gesto che non giunse allora, e che sembra essere giunto adesso. Ma è giunto davvero? Ascoltiamo le parole del papa. “Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole”. E più oltre: “La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità”.
No. Don Milani non era questo. Pur con le migliori intenzioni, il papa non riesce a far di meglio che far rientrare don Lorenzo nello schema caritativo. Il Priore s’è preso cura dei poveri realizzando il “volto materno e premuroso” della Chiesa. Siamo a un passo dalla santificazione-addomesticamento. Il papa vola fino a Barbiana per dire che don Milani s’è preso cura dei poveri, mentre da cinquant’anni don Milani attendeva che si dicesse che prendersi cura dei poveri in modo cristiano significa insegnar loro la lotta di classe. Si dirà che la lotta di classe è un ferro vecchio, che quelli erano altri tempi, che la società è cambiata e le classe nemmeno si sa più quali siano. Si dirà che anche i poveri oggi hanno lo smartphone. Si dirà che il comunismo è finito da un pezzo. Si dirà. Mentre l’unica cosa sensata da dire è quella denunciata da Luciano Gallino in una delle sue ultime, lucidissime opere (6): la lotta di classe c’è ancora, ma s’è rovesciata. E’ la lotta dei ricchi contro i poveri. E oggi, come ieri, si può stare da una parte o dall’altra. Oppure si può stare da una parte fingendo di stare dall’altra: ad esempio riempendosi la bocca con i poveri dopo essere scesi dal proprio elicottero personale.
(1) Lettere a Giorgio Pecorini del 15 marzo 1960, in Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, Mondadori, Milano 2017, vol. 2, p. 739.
(2) Ivi, vol. 1, p. XII.
(3) Testamento, 1.1.1966, in Lettere di Don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1988, p. 282.
(4) Giovanni della Croce, Salita del monte Carmelo, I, 6, in Opere, Edizioni OCD, Roma 2001, pp. 32-33.
(5) Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, cit., vol. 2, pp. 1165-1166.
(6) L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 1 luglio 2017.
Don Milani, il papa e la lotta di classe
Nel marzo del 1960, durante la traslazione della tomba di Alessandro Manzoni, accadde un mezzo miracolo: la tomba apparve apparve stranamente illuminata, anzi sprigionante luce. Fu un mezzo miracolo, e non un miracolo completo, perché qualcuno ebbe il buon senso di far notare che si trattava del riflesso di un raggio solare sulla teca di cristallo, e qualche altro ebbe il buon senso di ascoltarlo. Ciò non impedì, com'è naturale in Italia, che da più parti si invocasse la beatificazione dello scrittore. Chiedendo all'amico giornalista Giorgio Pecorini di procurargli una foto del corpo mummificato dello scrittore, che incuriosiva i ragazzi di Barbiana, don Lorenzo Milani ragiona divertito sulle conseguenze della santificazione: "Hai mai pensato che immenso sfalsamento avverrebbe a tutto il romanzo se i gesuiti facessero la follia di santificarne l'autore? Nel giro di pochi decenni i ragazzi costretti fin dall'infanzia a dire le preghierine al Santo Romanziere protettore delle scuole lo vedrebbero sempre in aureola anche quando descrive la peste e non gli crederebbero più una parola. Tragico destino di chi vien dalla Chiesa benedetto e consacrato. Motivo profondo per cui bisogna sempre parlare sboccatamente e ineducatamente e farsi odiare quanto occorre per essere almeno presi sul serio" (1).
Dopo la visita di papa Francesco a Barbiana pare che lo stesso don Milani abbia rischiato questo tragico destino. Con un certo sollievo abbiamo letto le parole del cardinale di Firenze, che dopo la visita ha dichiarato che non ci sarà alcuna beatificazione, e che Barbiana non diventerà un santuario. La visita del papa ha un altro significato. Papa Francesco ha riconosciuto che il modo in cui don Milani è stato prete è stato un buon modo di fare il prete, di realizzare la missione sacerdotale, di mettere in pratica il Vangelo. E' un riconoscimento importante, che lo stesso don Milani aveva chiesto apertamente al suo vescovo, senza successo. Voleva che la Chiesa prendesse atto che la sua vicenda a Barbiana non era un fatto privato, l'avventura di un personaggio stravagante, ma una via del cattolicesimo, una possibilità per la Chiesa. Dopo cinquant'anni papa Francesco riconosce che è così. O quasi. Lo fa arrivando a Barbiana in elicottero, unico tra coloro che sono giunti a Barbiana dal '54 in poi. A Barbiana si saliva e si sale a piedi; al massimo in automobile. Elicotteri mai. Si dirà: una polemica sterile, che non considera la sostanza. Ma qui si tratta proprio della sostanza.
Don Milani è stato tre cose: un prete, un educatore, uno scrittore. Come educatore ha avuto la sorte migliore. La Lettera a una professoressa dopo cinquant'anni è ancora un testo infinitamente più vivo di qualsiasi altro tomo di pedagogia scritto in quegli anni. E' stato frainteso e lo sarà ancora a lungo, ci sarà sempre qualche Paola Mastrocola ad attribuire al Priore catastrofi grammaticali o pedagogiche, ma chiunque voglia capire, capisce: e capisce cose importanti ieri, non meno importanti oggi. Come scrittore don Milani è ancora da scoprire, e la pubblicazione di tutte le opere nei Meridiani Mondadori rappresenta un'occasione importante. A ragione Alberto Melloni scrive, introducendo i due volumi, che la sua scrittura "deve essere trattata con la cura e i crismi riservati a quelle grandi opere - verrebbe da pensare al De Vulgari eloquentia dantesco o al Manzoni stesso - che si sono poste il 'problema' della lingua mentre ne costruivano una e la consegnavano a un destinatario preciso, dotata di codici d'accesso e di filtri rigorosi" (2). Ma don Milani era, e voleva essere, soprattutto un prete. Era educatore, era scrittore, in quanto prete. Si tende a dimenticarlo, perché la scuola che faceva era laica; ma fare scuola laica era il suo modo di essere prete. Di essere prete nel modo più serio e più alto.
Pochi mesi prima di morire scrive ai suoi ragazzi: "Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritti tutto sul suo conto" (3). Questa è la via di Don Milani come prete. Amare Dio amando le persone. Che detta così sembra una cosa ragionevolissima, nulla di cui scandalizzarsi. A far scandalo - e a indicare una via - è quel "più" di troppo. Si ricordino le parole, per molti versi terribili, del Dottore della Chiesa San Giovanni della Croce: "l'affetto per Dio e quello per le creature sono contrari e quindi non possono essere contenuti nella stessa volontà"; e ancora: "tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio. Giustamente quindi, vengono chiamati cani coloro che si vanno pascendo delle creature..." (4). Don Milani sarebbe stato proprio uno di questi cani che si cibano delle briciole cadute dalla mensa di Dio, una immagine che con ogni probabilità gli sarebbe piaciuta. Di più: si direbbe che gli interessino soltanto le briciole, che esse non siano un modo per risalire alla mensa, per partecipare in qualche modo ad essa, ma che siano l'unico cibo possibile, accettabile, desiderato. Detto altrimenti: un Dio che si risolve nelle creature, una fede che diventa prassi di incontro con esse. Ma non qualsiasi creatura. Quelle creature che sono i poveri. Per don Milani essere prete - ossia avere fede, essere cristiano - significava questo: mettersi al servizio dei poveri. Trattare i poveri come Dio stesso. Una fede che si pone agli antipodi della teologia. La fede non è una questione di logos, ma di praxis. Di azione. E' qualcosa da fare con gli altri. Per un non credente e non cristiano come me, una cosa particolarmente interessante di questo modo di concepire la fede è la possibilità di incontro con i non credenti. Se Dio non è nel logos, ma nella praxis, allora ci si può incontrare nella praxis, sia che si sia credenti (o, per dirla con don Milani, che si faccia parte della Ditta) sia che si sia atei.
Ma c'è da aggiungere ancora qualcosa per non fraintendere don Milani. La praxis che realizza la fede non è un generico mettersi al servizio dei poveri, né un mettersi al servizio dei poveri educandoli. La Chiesa fa da tempo entrambe le cose. La novità di don Lorenzo consiste nel fatto che questa prassi è una prassi politica, non un'azione caritatevole. Non è il gesto benevolo con il quale il membro di una istituzione che da secoli giustifica e fonda l'oppressione dei ricchi sui poveri (come vide e denunciò già nel Settecento un altro prete a contatto con i poverissimi, Jean Meslier), ma è il gesto di rottura di un prete che insegna ai poveri che sono oppressi dai ricchi, e che devono liberarsi da questa oppressione combattendo i ricchi. Ecco le parole di don Lorenzo durante un incontro con alcuni direttori didattici: "io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso". E al direttore didattico che gli fa osservare scandalizzato che quelli sono "concetti marxisti", risponde rivendicando il senso cristiano di quelle parole: "Vi parlo da sacerdote perché oltretutto io sono più prete di voi. Io sono prete, se ve lo dico io, si può dire" (5).
Ma si può dire davvero? E' per confermare questo "si può dire" che don Lorenzo chiedeva un gesto al suo vescovo. Un gesto che non giunse allora, e che sembra essere giunto adesso. Ma è giunto davvero? Ascoltiamo le parole del papa. "Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole". E più oltre: "La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità".
No. Don Milani non era questo. Pur con le migliori intenzioni, il papa non riesce a far di meglio che far rientrare don Lorenzo nello schema caritativo. Il Priore s'è preso cura dei poveri realizzando il "volto materno e premuroso" della Chiesa. Siamo a un passo dalla santificazione-addomesticamento. Il papa vola fino a Barbiana per dire che don Milani s'è preso cura dei poveri, mentre da cinquant'anni don Milani attendeva che si dicesse che prendersi cura dei poveri in modo cristiano significa insegnar loro la lotta di classe. Si dirà che la lotta di classe è un ferro vecchio, che quelli erano altri tempi, che la società è cambiata e le classe nemmeno si sa più quali siano. Si dirà che anche i poveri oggi hanno lo smartphone. Si dirà che il comunismo è finito da un pezzo. Si dirà. Mentre l'unica cosa sensata da dire è quella denunciata da Luciano Gallino in una delle sue ultime, lucidissime opere (6): la lotta di classe c'è ancora, ma s'è rovesciata. E' la lotta dei ricchi contro i poveri. E oggi, come ieri, si può stare da una parte o dall'altra. Oppure si può stare da una parte fingendo di stare dall'altra: ad esempio riempendosi la bocca con i poveri dopo essere scesi dal proprio elicottero personale.
(1) Lettere a Giorgio Pecorini del 15 marzo 1960, in Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, Mondadori, Milano 2017, vol. 2, p. 739.
(2) Ivi, vol. 1, p. XII.
(3) Testamento, 1.1.1966, in Lettere di Don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1988, p. 282.
(4) Giovanni della Croce, Salita del monte Carmelo, I, 6, in Opere, Edizioni OCD, Roma 2001, pp. 32-33.
(5) Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, cit., vol. 2, pp. 1165-1166.
(6) L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 1 luglio 2017.
Iscriviti a:
Post
(
Atom
)
Nessun commento :
Posta un commento