Separare il grano dal loglio
Mi è stata chiesta qualche riflessione in occasione della festa patronale. Il mio è il punto di vista di un non cristiano fortemente critico nei confronti dell’aspetto istituzionale di tutte le religioni e fortemente interessato, invece, all’esperienza mistica ed eretica (due cose, misticismo ed eresia, che spesso coincidono). Avverto sin d’ora il lettore cattolico che nelle righe che seguono troverà pertanto cose sgradevoli: si regoli come meglio crede.
Per riflettere sul senso religioso di una cosa come la festa patronale bisogna prima porsi qualche domanda. Che cos’è la religione? Cosa vuol dire essere religiosi? Quali pratiche sono religiose, e quali no? Cosa distingue il religioso dal non religioso, e il profondamente religioso dal superficialmente religioso?
La risposta più ovvia a questa domanda sembra essere la seguente: religione è entrare in rapporto con Dio o con un Ente trascendente. Che può chiamarsi Yhwh o Allah, Ahuza Mazda o Shiva, essere Uno o molteplice, vicino o lontano, incarnato o disincarnato: ma è il Divino, distinto dall’umano. In realtà le cose non sono così semplici, perché esistono anche religioni, come il jainismo ed il buddhismo, che prescindono dalla divinità. Per un buddhista non si tratta di credere in Buddha (“Se incontri il Buddha per strada, uccidilo”, diceva il grande maestro zen Lin Chi), ma di diventare un Buddha. Fino a quando il Buddha è altro da noi, vuol dire che siamo ancora lontani dalla meta della nostra vita religiosa. Qualcosa di simile avviene anche in certa mistica speculativa cristiana, per la quale bisogna diventare Dio, più che venerare Dio (si pensi a Meister Eckhart), così come nel sufismo di Al-Hallaj, il Cristo dell’Islam, mandato a morte perché affermava di essere diventato la Verità, ossia Dio.
C’è poi la spiritualità, che si può caratterizzare come presa di contatto con sé stessi. Tutte le religioni hanno elaborato quelle che Foucault chiamava tecnologie del sé: dalla confessione all’esicasmo, dallo yoga alla meditazione vipassana dei buddhisti. La persona religiosa si riconosce per la capacità di conoscersi, di raccogliersi, di stabilirsi per così dire in sé stessa, analizzando i moti interiori, le passioni, le emozioni, le inquietudini. Da ciò discende la tendenza di molte persone religiose a chiudersi nella ricerca della perfezione spirituale, allontanandosi dalle cure mondane, ma può anche scaturire una nuova forma di prassi, un impegno più puro.
Se la spiritualità porta al contatto con sé stessi, l’etica ci conduce al cospetto dell’altro. Tutte le religioni predicano la comprensione, il rispetto, l’amore dell’altro. Una persona religiosa – profondamente, autenticamente religiosa – si riconosce per questo: vive intensamente il suo rapporto con l’altro; ha reciso in sé le radici dell’odio ed è capace di un amore che giunge fino agli animali.
Un ultimo aspetto fondamentale della religione è l’aspirazione ad un mondo libero dal male e dalla sofferenza. C’è al fondo della religione una ribellione umanissima contro il dolore che segna l’esistenza umana e tutto il mondo naturale, il rifiuto di considerarli normali, la ricerca di una finale pacificazione universale. E’ l’aspirazione dei profeti ebrei ad una dimensione in cui il lupo possa pascolare con l’agnello, il Regno dei cristiani, l’auspicio buddhista di un mondo in cui i ciechi vedono, i sordi ascoltano, i nudi vengono vestiti e gli affamati trovano cibo.
Essere religiosi significa tutte queste cose. Ma può significate, e spesso significa, anche il contrario di queste cose. In nome della religione, che predica l’amore e la pace, ci si uccide. Succede perché l’altro da amare diventa il membro della propria comunità religiosa; la sfera etica si restringe fino a racchiudere solo i propri correligionari (la umma musulmana, l’ecclesia cristiana, il sangha buddhista), mentre chi ne resta fuori diventa l’infedele, il nemico da combattere. In nome della religione si giustificano le più gravi forme di oppressione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
E’ chiaro, dunque, che quando si parla di religione è importante distinguere, passare al vaglio, separare il grano dal loglio.
Fatta questa lunga premessa, possiamo chiederci: una cosa come la festa patronale cos’è, grano o loglio? La risposta è: loglio. Provo a spiegare perché.
In religione la cosa importante non è, come credono molti, credere o non credere. Quello che conta è la concezione che si ha di Dio o del Divino: in quale Dio si crede. Anche qui bisogna dividere e distinguere il grano dal loglio. C’è un Dio che non è null’altro che la stampella del nostro io, il sostegno metafisico del nostro egoismo, il volto che ci rassicura, che ci dice che siamo il centro dell’universo, che tutto andrà bene perché Dio stesso, l’origine dell’universo, si prende cura delle nostre vicende. All’estremo opposto dell’esperienza religiosa c’è una concezione del Divino che ci costringe ad uscire da noi stessi, a deporre il nostro io come un peso e ad aprirci ad altro. E’ quella che Albert Einstein chiama “religiosità cosmica”. Così la caratterizza in Come io vedo il mondo: “L’individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per contro, riconosce l’impronta sublime e l’ordine ammirabile che si manifestano tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L’esistenza individuale gli dà l’impressione di una prigione e vuol vivere nella piena conoscenza di tutto ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso profondo”. E’ una religiosità che non appartiene alle chiese, quanto agli eretici; qui il credente Francesco d’Assisi sta accanto all’ateo Spinoza.
E’ chiaro che, da questo punto di vista, nulla appare più lontano dalla religiosità autentica del concetto di patrono. Cos’è un patrono? Un personaggio religioso che ha una cura particolare di una comunità ristretta. C’è qualche traccia, in ciò, della predilezione del Dio biblico per il popolo ebraico. Dio, che si vuole creatore di un universo di miliardi di galassie, ognuna delle quali ha un miliardo di stelle, non solo si preoccupa della sorte di una delle infinite specie che vivono su un pianeta periferico di una di queste infinite galassie, ma addirittura elegge, chissà perché, uno solo di questi popoli (e, presentandosi come Dio degli eserciti, lo spinge a combattere e sterminare altri popoli). Difficile immaginare qualcosa di più assurdo. I cattolici ci sono riusciti. Per loro il Divino non si occupa soltanto di un popolo, ma addirittura di una città, di un paese, di un borgo. Non basta credere nella Madonna: occorre che la Madonna si moltiplichi all’infinito, diventando ora bianca ora nera, soccorrendo ora questa ora quella comunità.
I cattolici sono molto sensibili all’idolatria altrui, poco alla propria. In che modo portare in giro una icona, un simulacro del Divino, sia cosa diversa dall’idolatria, è un mistero della fede. E, certo, c’è emozione durante una processione o durante una festa religiosa di questo genere. Ma di che emozione si tratta? Ha a che fare con la religione? Non molto. E’, invece, quella sorta di contagio emotivo che si prova in tutte le manifestazioni collettive, quando si è immersi in una folla e quasi trascinati da essa. In questo caso si esce da sé stessi soltanto per chiudersi in un io più grande, quello della folla. E’ qualcosa di non troppo diverso da ciò che accadeva durante le adunate oceaniche dei regimi totalitari: e non a caso esisteva anche una mistica fascista. Da sempre il potere (o meglio: il dominio) si sostiene anche grazie alla capacità di suscitare emozioni collettive, la cui crescita è direttamente proporzionale alla diminuzione delle capacità riflessive e critiche. L’autentico sentimento – non emozione – religioso è qualcosa di diverso. E purtroppo non è così a buon mercato.
Editoriale per Stato Quotidiano
Separare il grano dal loglio
![]() |
Immaginetta della Madonna di Siponto. |
Albania: (foto)appunti di viaggio
![]() |
Piazza Skanderbeg |
![]() |
La cattedrale ortodossa |
La moschea Et’hem Bey, risalente invece alla fine del Settecento, è un ambiente molto raccolto, suggestivo, anche se uno sguardo attento ai dettagli (che so, l’orologio da tre soldi appeso alla parete a far da supporto all’orologio a pendolo) coglie una certa trascuratezza. E’ talmente piccolo, l’interno, che ci si sente a disagio come turisti con la fotocamera: ma lo sguardo del custode che pregusta qualche monetina all’uscita è incoraggiante.
![]() |
La moschea Et’hem Bey |
Gli albanesi, quando non sono atei o indifferenti alla religione, sono per lo più musulmani. Eppure le due figure simboliche del paese appartengono al cristianesimo: Madre Teresa (a Nënë Tereza è intitolato l’aeroporto di Tirana) e Skanderbeg, l’atleta della cristianità. Se chiedi ad un albanese conto di questa contraddizione, ti risponde ricordando le parole del poeta Pashko Vasa: Feja e shqiptarit është shqiptaria (la religione degli albanesi è l’albanesità). Skanderbeg, il cristiano che ha combattuto gli ottomani, è stato però anche e soprattutto il difensore della libertà e dell’indipendenza del paese contro l’invasore. Su Madre Teresa non mi esprimo.
![]() |
Panorama dal ristorante Veranda |
Kruja
Oggi il castello è sede del Museo Storico Nazionale e del Museo Etnografico. Le sue sale sono ricoperte da affreschi che raccontano le varie fasi della resistenza agli ottomani; in quella centrale sono conservate copie dell’elmo e della spada dell’eroe. L’elmo di Skanderbeg è sormontato da un paio di corna di capra. Secondo la leggenda, l’eroe durante una battaglia mandò contro i nemici un esercito di capre, cui aveva legato delle fiaccole: con il favore della notte agli ottomani sembrarono soldati albanesi. (L’elmo caprino è oggi il simbolo di Kastrati, la principale compagnia petrolifera del paese.)
![]() |
La sala centrale del castello di Kruja |
Di grande fascino è il bazar di Kruja (qui e qui). Un tempo impressionava i viaggiatori per la sua grandezza; quasi scomparso nel corso del Novecento, è stato riportato in vita negli anni sessanta dal regime di Hoxha. Oggi consiste in un solo vicolo lastricato in pietra sui cui due lati si affacciano botteghe artigianali affollate di vestiti tradizionali, tappeti, strumenti musicali e l’immancabile qeleshe, il tipico cappello albanese in lana di pecora. In una bottega una donna sta lavorando ad un tappeto. Con squisita cortesia, per nulla infastidita dalle nostre fotocamere, ci spiega che impiega circa una settimana per finire un tappeto che poi venderà per l’equivalente di 35 euro.
![]() |
Vista da Petrela |
![]() |
Sul fiume Drin |
La cattedrale ortodossa |
Korça! Ah, Korça! Devo confessare che questa cittadina, a sud del lago Ohrid e poco distante dal confine greco, mi ha rapito. Non ho avuto modo, purtroppo, di visitarla con calma, ma quel poco che ho visto mi ha fatto nascere il proposito di tornarci. Non ho visto il bazar, conosciuto come bazar delle serenate (tutta la città è nota per la tradizione delle serenate), che a quanto pare ha perso anch’esso lo splendore di un tempo, e che ci si propone di restaurare. Ho attraversato, invece, la strada lastricata con il caratteristico ciottolato (kalldrëm) che conduce alla cattedrale, attorniata da suggestivi edifici che rivelano le molteplici influenze culturali ed architettoniche che hanno formato l’identità di quella che molti chiamano la Parigi dei Balcani (qui e qui). A metà strada ci si imbatte anche in quella che è stata la prima scuola albanese, e che oggi ospita il Museo dell’educazione. Per una triste ironia della sorte, proprio davanti alla scuola ci fermano due piccoli mendicanti per chiedere l’elemosina. Hanno con sé una scatola di cartone con un gattino nero appena nato. Non lo vendono, lo tengono per suscitare la curiosità dei passanti. Diamo loro qualche lek, e ci ringraziano augurandoci di “fare milioni”. Sulle prima non capiamo: la pronuncia del posto è particolare. Alla fine della strada c’è un monumento che ricorda i caduti nella lotta contro l’impero ottomano. Alle sue spalle la meravigliosa cattedrale ortodossa. E’ una costruzione recente – è stata costruita nel 1992 nel luogo in cui sorgeva la cattedrale di San Giorgio, distrutta dal regime comunista negli anni Sessanta -, ma ha tutto il fascino delle chiese cariche di secoli.
Tutte le foto del post, comprese quelle linkate, sono di Antonio Vigilante. Nel caso volessi utilizzarle ti prego di rispettare la licenza di questo blog. Altre foto sono sulla mia pagina Flickr.
25.8.2013
Albania: (foto)appunti di viaggio
![]() |
Piazza Skanderbeg |
Il bambino è apertura al mondo
![]() |
Cane da caccia. Disegno di Carlo Michelstedter. |
Il bambino incarna una diversità radicale. Gran parte di ciò che comunemente si chiama educazione consiste nell’esorcizzare, limitare, controllare, arginare, incanalare e finalmente spegnere questa diversità. Affinché l’opera riesca occorre che sia tacitamente condivisa la percezione del bambino come non-persona o come persona parziale: occorre, infatti, molta violenza, che sarebbe ingiustificabile ed inaccettabile se al bambino fossero pienamente riconosciuti la dignità ed i diritti di una persona.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.
Il bambino è apertura al mondo
![]() |
Cane da caccia. Disegno di Carlo Michelstedter. |
Il furto aggravato di rifiuto
Poi c’è un altro fenomeno, quando noi vediamo quei rifiuti buttati per
fenomeno, io non sono razzista, li individuo come extracomunitari
sinceramente, che purtroppo la mattina calano in tutti i quartieri
della città, non è che ce l’hanno col Libertà, in tutti i quartieri
della città, rovistano tutti i cassonetti e mica gli interessa cosa
sta a terra. Io ho pregato il Sindaco comunque di fare un’ordinanza ad
hoc per multarli, ma stavo configurando, veniva forse da
un’esperienza mia professionale, di configurare eventualmente anche un
illecito penale al fine di consentire alle Forze dell’Ordine di
provvedere in tal senso, denunziare a piede libero comunque un arresto
in flagranza, perché stiamo configurando il furto aggravato di
rifiuto, che nel momento in cui il cittadino conferisce nel cassonetto
diventa di proprietà dell’AMIU, quindi se io vado a prendere il
rifiuto è come se mi rubassero il rifiuto. Lo so che sembra ridicolo,
però è un escamotage giuridico per fronteggiare questo problema, che è
un problema veramente serio sul punto.
Il furto aggravato di rifiuto
Poi c’è un altro fenomeno, quando noi vediamo quei rifiuti buttati per
fenomeno, io non sono razzista, li individuo come extracomunitari
sinceramente, che purtroppo la mattina calano in tutti i quartieri
della città, non è che ce l’hanno col Libertà, in tutti i quartieri
della città, rovistano tutti i cassonetti e mica gli interessa cosa
sta a terra. Io ho pregato il Sindaco comunque di fare un’ordinanza ad
hoc per multarli, ma stavo configurando, veniva forse da
un’esperienza mia professionale, di configurare eventualmente anche un
illecito penale al fine di consentire alle Forze dell'Ordine di
provvedere in tal senso, denunziare a piede libero comunque un arresto
in flagranza, perché stiamo configurando il furto aggravato di
rifiuto, che nel momento in cui il cittadino conferisce nel cassonetto
diventa di proprietà dell’AMIU, quindi se io vado a prendere il
rifiuto è come se mi rubassero il rifiuto. Lo so che sembra ridicolo,
però è un escamotage giuridico per fronteggiare questo problema, che è
un problema veramente serio sul punto.
Etty Hillesum: estratti dal Diario
![]() |
Etty Hillesum |
Il Diario che Etty Hillesum ha tenuto dal 1941 al 1943, prima di finire i suoi giorni ad Auschwitz, non è soltanto uno straordinario documento storico sul periodo più buio della storia contemporanea, ma appartiene a pieno titolo alla storia della mistica. E come tutti i testi di mistica autentica, esso provoca qualche disagio al credente, che ne è al tempo stesso attratto e respinto. Attratto, perché si tratta del diario di una ragazza che affronta con animo sereno, perfino felice, la tragedia dell’Olocausto grazie alla forza che le dà Dio: e quale testimonianza migliore del potere della fede? Respinto, perché quella di Hillesum non è fede nel senso comune del termine, né il Dio di cui parla è quello che si prega nelle chiese. Etty Hillesum spiega con grande chiarezza che il suo Dio non è altro che “la parte più profonda” di sé stessa. Non un altro-da-sé, ma la parte più nobile di sé. Come per ogni mistico, non si tratta di rendere culto ad un Ente o a una Persona, ma di essere, di realizzare Dio. C’è un fondo dell’anima in cui l’io-non-più-io diventa Dio.
In termini buddhistici, si dirà che c’è in ognuno la natura-Buddha (tathāgata-garbha), la possibilità di diventare un Buddha, ossia un essere libero dalla sofferenza e capace di amore e compassione. E’ questa consapevolezza che consente ad Hillesum di amare anche i nazisti: “disseppellire Dio” nel nemico vuol dire aiutarlo a ritrovare in sé questa natura luminosa, che nessuna brutalità potrà soffocare fino al punto da renderla irraggiungibile.
I passi che seguono sono tratti dall’edizione integrale del Diario (Adelphi, Milano 1996).
Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero. Questo non significa essere indulgenti nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. É una malattia dell’anima.
***
Penso che lo farò comunque: «mi guarderò dentro» per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sich versenken, «sprofondare in se stessi». Si può anche chiamare meditazione; ma questa parola mi dà ancora i brividi. E del resto, perché no? Una quieta mezz’ora dentro me stessa. Non è sufficiente muovere braccia, gambe e tutti gli altri muscoli nel bagno, ogni mattina. Un essere umano è corpo e spirito. E una mezz’ora di esercizi combinata con una mezz’ora di «meditazione» può creare una base di serenità e concentrazione per tutto il giorno. Non è però una cosa semplice, quella stille Stunde, «ora quieta»; bisogna impararla. Prima è necessario spazzare via dall’interno tutte le insignificanti preoccupazioni, i detriti. In fin dei conti, persino in una testolina così piccola c’è sempre una montagna di distrazioni irrilevanti. É vero che ci sono anche sentimenti e pensieri edificanti, ma il ciarpame è sempre presente. Sia questo, dunque, lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista. Così che qualcosa di «Dio» possa entrare in te, come c’è qualcosa di «Dio» nella Nona di Beethoven.
E anche qualcosa dell’«Amore», ma non quella sorta di amore di lusso in cui ti crogioli di buon grado per una mezz’ora, orgogliosa dei tuoi sentimenti elevati, bensì amore che puoi applicare alle piccole cose quotidiane.
***
Sono presuntuosa nel dire che possiedo troppo amore per darlo a una persona sola? L’idea che per tutta la vita si debba amare sempre e soltanto una persona mi sembra così infantile. Può impoverire e inaridire parecchio.
***
Riassumendo, vorrei in realtà dire questo: la barbarie nazista fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell’odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla melma.
***
In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che presta ascolto alla parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.
***
Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa. Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini.
***
Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo.
M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé.
***
Sono molto stanca.
Sono in grado di sopportare questo tempo presente, lo capisco persino un poco.
Se sopravviverò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi.
Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile.
***
Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi.
Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: Ma quel che vuoi tu richiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse? Ho risposto: Ma a quel che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra èra cristiana, senza contare le molte migliaia di anni in cui esisteva già un’umanità – e che cosa pensi del risultato, se la domanda è lecita? E con la solita passione, anche se cominciavo a trovarmi noiosa perché finisco sempre per ripetere le stesse cose, ho detto: E’ proprio l’unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale.
***
Per formularlo ora in modo molto crudo – il che farà probabilmente male alla mia penna stilografica: se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura, e per puro interesse nei confronti dell’umanità: Mio Dio, ragazzo, che cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni?
***
Passiamo ad altro; oggi ho imparato una cosa importante: dovunque ci troveremo, dobbiamo esserci con tutto il nostro cuore. Se il cuore è altrove, non saremo capaci di dare abbastanza alla comunità a cui apparteniamo e quella comunità ne diventerà più povera. Che si tratti di impiegate carrieriste o Dio sa cosa, bisogna esserci con tutto il cuore e si potrà trovare qualcosa anche in loro.
***
Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questo è poca cosa, se paragonato a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente.
***
Mi sento responsabile per quel grande e bel sentimento della vita che mi porto dentro, devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore.
***
Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò «Dio», e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, «lavorando a noi stessi», allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze.
***
Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppur provare a esprimerlo in una parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio.
Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua: «riposare in se stessi», e forse sarebbe anche la definizione più completa di come io sento la vita: io riposo in me stessa. E questo «me stessa», la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo «Dio».
***
Credo sinceramente che potrei esserlo, potrei anche dare un po’ di forza alla vita degli altri ed essere davvero felice, perché anche l’autentica felicità è un traguardo: essere davvero felice dentro, accettare il mondo di Dio e goderne senza voltare le spalle a tutta la sofferenza che vi regna. E’ una così triste orda, l’umanità oggi: tanto poco felice di vivere, nel vero senso della parola, e tanto poco radiosa. Un cumulo di piccoli complessi e preoccupazioni triviali, basse invidie, matrimoni infelici e figli malriusciti, ecc. Eppure, anche se abiti in un sottotetto e mangi solo pane secco, vale comunque la pena di vivere. E sebbene questi tempi rendano difficile l’esistenza, impedendoci di vivere appieno, non dovremmo comunque farne una tragedia o lasciare che tutto vada tristemente in malora. Anche questo fa parte della vita e non si può stabilire se la rovina debba colpire me o un’altra persona, ma non bisogna prendersi troppo sul serio nemmeno in tal caso.
***
Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo «Dio».
***
Nella mia vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio.
Oggi, mentre passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio.
***
Cammino accanto agli uomini come se fossero piantagioni e osservo quant’è cresciuta la pianta dell’umanità.
Etty Hillesum: estratti dal Diario
![]() |
Etty Hillesum |
In termini buddhistici, si dirà che c'è in ognuno la natura-Buddha (tathāgata-garbha), la possibilità di diventare un Buddha, ossia un essere libero dalla sofferenza e capace di amore e compassione. E' questa consapevolezza che consente ad Hillesum di amare anche i nazisti: "disseppellire Dio" nel nemico vuol dire aiutarlo a ritrovare in sé questa natura luminosa, che nessuna brutalità potrà soffocare fino al punto da renderla irraggiungibile.
I passi che seguono sono tratti dall'edizione integrale del Diario (Adelphi, Milano 1996).
Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero. Questo non significa essere indulgenti nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. É una malattia dell’anima.
Le bufale e la democrazia
![]() |
I simboli degli zingari sui citofoni: una bufala vecchia ma che gode di ottima salute |
Le bufale e la democrazia
![]() |
I simboli degli zingari sui citofoni: una bufala vecchia ma che gode di ottima salute |
Storia di un bambino andato (quasi) a male
Lo scorso anno Maurizio Parodi, tra gli interpreti più interessanti delle istanze della pedagogia libertaria nel nostro paese, mi ha chiesto di collaborare con un mio contributo ad un libro che stava scrivendo. Si trattava di rispondere alla domanda: Cosa bisogna fare perché i bambini non vadano a male? Ho risposto a questa domanda con un contributo intitolato “Camminare insieme”, che si trova nel libro uscito quest’anno: Gli adulti sono bambini andati a male (Sonda editore).
Se ripenso al mio percorso scolastico, mi pare di potermi riconoscere nella categoria dei “bambini andati a male”. Me lo conferma la rilettura delle mie pagelle scolastiche, che segnano una progressione negativa, da una iniziale quasi perfezione al disastro della scuola secondaria. Il fatto di essere un ex bambino andato a male (che poi si è ripreso per tempo, comunque) è un grande vantaggio per un pedagogista, appunto perché permette di rispondere alla domanda di Parodi con una qualche base di esperienza.
Il mio esordio scolastico è stato esaltante, almeno a giudicare dalla mia prima pagella:
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, molto serio e silenzioso prende però parte attiva alla vita della classe e riesce bene in tutte le attività scolastiche nonostante i primi tre mesi di assenza. Costante nel rendimento predilige le attività matematiche e la recitazione.
Intelligente, silenzioso, partecipe: alunno modello. Ero arrivato a scuola con tre mesi di ritardo per via di problemi di salute, gli stessi che mi hanno salvato dalla scuola dell’infanzia. Ma non arrivi in una classe tre mesi dopo senza pagarne le conseguenze. Ricordo poco della prima elementare, più che altro sensazioni: e tra tutte questo senso di estraneità che mi ha accompagnato per tutto il percorso scolastico (fino all’università, direi).
Storia di un bambino andato (quasi) a male
![]() |
Il giudizio di terza media |
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, molto serio e silenzioso prende però parte attiva alla vita della classe e riesce bene in tutte le attività scolastiche nonostante i primi tre mesi di assenza. Costante nel rendimento predilige le attività matematiche e la recitazione.
Nessun commento :
Posta un commento