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blog di antonio vigilante

Danilo Dolci, quindici anni dopo

Quindici anni fa, il 30 dicembre 1997, moriva Danilo Dolci. Il telegiornale della Rai ne diede notizia in modo sbrigativo; del resto, da molti anni ormai Danilo aveva smesso di interessare i giornali: da quando – alla fine degli anni Sessanta – aveva abbandonato la pratica dei digiuni e si era concentrato sul lavoro educativo.
Devo ammettere che non avevo, allora, un interesse particolare per Danilo. Cominciavo a leggere e studiare invece Aldo Capitini, su cui due anni dopo avrei pubblicato il mio primo libro. Mi interessava di più, Capitini, per la sua singolare religiosità, in qualche modo eretica: ed io sono stato sempre attratto dagli eretici. Cinque anni dopo avrei fatto una lunga chiacchierata su Capitini e Dolci con Pietro Pinna, che è stato collaboratore prezioso sia dell’uno che dell’altro. Mi servì, quella chiacchierata, a demitizzare Dolci, mi restituì con una certa crudezza la sua umanità piena di contraddizioni. Contraddizioni così forti che sulle prime mi allontanarono da lui. Mi ci è voluto del tempo per riscoprire la sua grandezza, che i suoi limiti umani e le sue contraddizioni non valgono a diminuire. Fino alla decisione di prendermi del tempo per studiarlo a fondo.
Ho passato gli ultimi tre anni della mia vita a studiare Dolci, dunque; a cercare di conoscerlo e di farlo conoscere ed a sperimentare il suo metodo della maieutica reciproca. Come direttore scientifico di Educazione Democratica ho promosso un dossier su Dolci nel numero 2 della rivista e la pubblicazione del libro di Michele Ragone Le parole di Danilo Dolci nella collana di libri collegata alla rivista, nella quale quest’anno ho pubblicato il mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci: tutti testi liberamente scaricabili.
Credo di poter dire di aver dato, con gli amici della rivista, un contributo non irrilevante alla riscoperta di Dolci e della sua opera. Ma molto resta da fare. Dolci ha lasciato in eredità una quantità di intuizioni – alcune anche religiose: e del massimo interesse -, ma soprattutto un metodo, quello della maieutica reciproca. Ha sperimentato questo metodo in due direzioni: lo sviluppo comunitario e l’educazione. Da un lato, esso è servito a scuotere la gente di Partinico, Trappeto, Palermo, a far nascere dighe e cooperative, a combattere la mafia; dall’altro si è insinuato nelle scuole pubbliche cercando di combattere dall’interno la logica trasmissiva ed unidirezionale della lezione frontale. E’ urgente riprendere il metodo di Dolci ed applicarlo in etrambe le direzioni. Scoprire le sue potenzialità per combattere lo spegnersi di tanti quartieri, l’allargarsi del deserto relazionale nelle periferie urbane, l’abbandono della speranza di giovani e vecchi nella società post-industriale e quanto può ancora fare per portare nelle scuole il fuoco vivo della discussione, del confronto, dell’analisi comune – e perciò politica – dei problemi: lo spirito della ricerca della verità.
Nel mio libro su Dolci mi sono soffermato in particolare sul tema del potere. Danilo distingueva il potere, che è una cosa positiva, dal dominio, che è la sua degenerazione. Potere è possibilità di fare. Le persone possono avere potere insieme, se fanno insieme, in modo collaborativo. Il potere si corrompe nel dominio quando il fare di alcuni impedisce il fare di altri; quando l’equilibrio relazionale si infrange, e c’è uno che sta in alto ed uno che sta in basso.
La distinzione di Dolci, che a prima vista può apparire semplicistica, mi sembra preziosissima, perché ci offre al tempo stesso una chiave di lettura del labirinto della contemporaneità ed una indicazione per uscirne. Quello che accade è che si sta moltiplicando il dominio. Per il pensiero anarchico classico, dominio è quello dello Stato, che è il nemico da combattere. Oggi questa analisi è parziale. Il dominio assume una forma sovranazionale, e tende anzi a combattere ed a ridimensionare il ruolo dello Stato. Come una rete, la logica del dominio penetra la società intera, si insinua nelle istituzioni, permea di sé ogni forma di relazione. Che alcuni abbiano più possibilità ed altri meno – e che alcuni abbiano la possibilità di cancellare le possibilità di altri – diventa una realtà accettata ed accettabile, perché sperimentata mille volte durante la vita quotidiana. Di qui può partire il cambiamento. Dal rifiuto, in ogni campo, in ogni situazione, di stare in una relazione asimmetrica. Dalla pretesa dell’uguaglianza. Dal rifiuto della trasmissione unidirezionale, dalla richiesta pressante di comunicazione autentica.
Quanto più la società si irrigidisce, si fa piramidale e gerarchica, tanto più è importante inventarsi situazioni nelle quali le persone possano comunicare in modo orizzontale, scoprendo che insieme le possibilità degli uni si alimentano delle possibilità degli altri.
Si tratta, diceva Danilo, di diventare obiettori di coscienza. Un concetto che contiene, a ben vedere, due movimenti. Il primo è quello del gettare-contro, del rifiutarsi, del ribellarsi perfino: del dire no. Il secondo è quello della scienza comune, della cum-scientia. E’ il momento in cui ci si mette a discutere con altri per ritrovare il filo della umanità comune, per tessere una verità che non sia ideologica né dogmatica, ma esprima una ricerca comune, nella quale il contadino sta accanto al docente universitario, l’operaio all’intellettuale.

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Danilo Dolci, quindici anni dopo

Danilo Dolci
Quindici anni fa, il 30 dicembre 1997, moriva Danilo Dolci. Il telegiornale della Rai ne diede notizia in modo sbrigativo; del resto, da molti anni ormai Danilo aveva smesso di interessare i giornali: da quando - alla fine degli anni Sessanta - aveva abbandonato la pratica dei digiuni e si era concentrato sul lavoro educativo. 
Devo ammettere che non avevo, allora, un interesse particolare per Danilo. Cominciavo a leggere e studiare invece Aldo Capitini, su cui due anni dopo avrei pubblicato il mio primo libro. Mi interessava di più, Capitini, per la sua singolare religiosità, in qualche modo eretica: ed io sono stato sempre attratto dagli eretici. Cinque anni dopo avrei fatto una lunga chiacchierata su Capitini e Dolci con Pietro Pinna, che è stato collaboratore prezioso sia dell'uno che dell'altro. Mi servì, quella chiacchierata, a demitizzare Dolci, mi restituì con una certa crudezza la sua umanità piena di contraddizioni. Contraddizioni così forti che sulle prime mi allontanarono da lui. Mi ci è voluto del tempo per riscoprire la sua grandezza, che i suoi limiti umani e le sue contraddizioni non valgono a diminuire. Fino alla decisione di prendermi del tempo per studiarlo a fondo.

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Sulla soglia

Sulla soglia del nome e della forma
s’affanna intorno al mondo con stupore
aperto al cielo che gli passa dentro
vaso che non trattiene e si spaura
e si chiede cos’è quest’altra vita:
il mio-me che si spacca e va perdendo
ogni residua stella e nella notte
non ha confine traccia o segnatura:
solo sta nella vita, e tutto è nuovo.

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Sulla soglia

Sulla soglia del nome e della forma
s'affanna intorno al mondo con stupore
aperto al cielo che gli passa dentro
vaso che non trattiene e si spaura
e si chiede cos'è quest'altra vita:
il mio-me che si spacca e va perdendo
ogni residua stella e nella notte
non ha confine traccia o segnatura:
solo sta nella vita, e tutto è nuovo.

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Ma insomma, cos'ha questo Comenio che non va?

B: Ma insomma, cos’ha questo Comenio che non va? A me sembra un grande precursore. Afferma la coeducazione di ricchi e poveri, di maschi e femmine. Nemmeno Rousseau si spingerà fino a tanto. Non è forse un bene che tutti abbiano accesso all’istruzione?
A: E’ estremamente difficile per noi non riconoscere la grandezza di Comenio appunto per il fatto che lui è un grande precursore. Siamo in una società che afferma la necessità per tutti di passare attraverso la scuola per diventare pienamente umani; siamo stati educati a pensarla così, e non riusciamo a pensare diversamente.
B: Preferiresti una società in cui soltanto ad alcuni fosse concesso l’accesso alla cultura?
A: Il problema è questo: cosa è cultura? Comenio è un critico rigoroso della scuola del suo tempo; con qualche sconcerto, leggendolo ti rendo conto che molti dei punti della sua critica sono ugualmente validi per la scuola di oggi. Vuole una scuola di cose, non di parole; una scuola di esperienze, non di libri. Questo me lo rende simpatico. Ma chi è Comenio? Un intellettuale. Uno, cioè, che rappresenta uno delle tante possibili modalità in cui può esistere un essere umano. Si può essere intellettuali, agricoltori, artigiani, giardinieri e così via. Per Comenio e grazie a Comenio, l’intellettuale diventa l’essere umano per eccellenza; la sua cultura – la cultura scritta – l’unica valida.

B: Ma puoi negare l’assunto di partenza di Comenio: che si diventa umani solo attraverso l’educazione?
A: Non lo nego. Ma distinguiamo due cose: l’acquisizione delle capacità di base della specie e il diventare un certo tipo di persona. Per acquisire cose come la capacità di parlare e la stazione eretta bastano i genitori. Per imparare a parlare non occorre nemmeno una educazione vera e propria: basta che il bambino senta parlare gli altri; impara da sé. Per imparare a parlare ed a camminare non occorre la scuola. La scuola serve per diventare un certo tipo di persona.
B: O magari per avere più possibilità. Saper leggere non è meglio che non saper leggere? Non è necessario per partecipare alla vita comune?
A: La necessità di possedere la competenza della scrittura è un risultato della diffusione della scuola, non la giustificazione della sua esistenza. Se grazie alla scuola si diffonde la scrittura, i pochi che non sanno scrivere hanno qualcosa di meno. Questo non vuol dire che, in assoluto, saper leggere sia meglio che non saper leggere.
B: Ammetti dunque che oggi è necessario imparare a scrivere, anche se poteva non esserlo al tempo di Comenio. Ammetti dunque che, almeno oggi, la scuola è necessaria?
A: Ammetto che oggi, per chi vive nella società occidentale, sia importante acquisire la competenza della lettura e della scrittura. Ma da questo non discende affatto che sia necessaria la scuola, così come la pensa Comenio e come la pratichiamo noi.
B: Cosa vuoi dire?
A: Che non è detto che per imparare a leggere e scrivere i bambini debbano essere concentrati in uno stesso luogo e sottomessi all’autorità di un solo maestro. I bambini possono imparare a leggere e scrivere dai genitori, a casa; nel caso in cui i genitori non siano in grado di farlo, possono chiedere l’aiuto di qualcuno che sappia farlo. Da ciò non discende affatto la necessità di concentrare molti bambini in uno stesso luogo.
B: Cosa c’è di male nel fatto di concentrare dei bambini in un luogo, per insegnare loro in modo più rapido ed economico?
A: Ovunque più bambini sono concentrati in un luogo, lo spirito dell’Istituzione è presente. Ovunque più bambini sono concentrati in un luogo, educazione ed istruzione sono solo parte del lavoro; ad essi si accompagna quello che Illich chiama “il programma occulto”. Concentrare dei bambini in un luogo sotto la guida di un’autorità socialmente riconosciuta vuol dire insegnare loro, oltre la lettura e la scrittura, una serie di cose: che devono obbedire; che unica cultura valida è quella che l’autorità considera tale; che, come dice Comenio, ognuno deve stare al proprio posto; che, se lo Stato non ti riconosce come tale, non sei nemmeno un essere umano in senso pieno; che il lavoro manuale non è veramente degno di un essere umano, e che quello intellettuale è segno di distinzione; ed altro ancora. Lo Stato ha un potere immenso: il potere di decidere che tipo di forma, tra le mille possibile, devono assumere le persone; e chi è più degnamente essere umano e chi meno.
B: Ma non sarebbe peggio se le scuole fossero riservate ai ricchi, ed i poveri fossero condannati all’ignoranza?
A: Continui a maneggiare in modo discutibile le categorie di cultura ed ignoranza. L’origine di questa categorizzazione è, appunto, la scuola. E’ la scuola che decide che alcune cose sono cultura ed altre ignoranza. E’ pacifico che dal punto di vista di chi è stato a scuola chi non è stato a scuola è semplicemente ignorante. Questo conferma la mia critica: la scuola ha la pretesa di dare patenti di umanità, e discrimina chi è al di fuori della sua presa, considerandolo un essere umano minore.
B: Ma non hai risposto alla mia domanda. Non sarebbe peggio se le scuole fossero riservate ai ricchi?
A: I ricchi a scuola si perfezionerebbero nella loro cultura, ed i poveri avrebbero la cultura dei poveri. Esisterebbero culture diverse per le diverse classi sociali.
B: Ma se la cultura dei ricchi è indispensabile per andare al potere, non è bene che tutti vi abbiano accesso?
A: Non dimenticare quell'”in che modo ognuno debba stare al posto suo” di Comenio. Se la scuola servisse davvero a consentire ai poveri di andare al potere, semplicemente non esisterebbe; le classi al potere non avrebbero mai consentito la nascita di uno strumento così egualitario. Il figlio di qualche povero, attraverso la scuola, può certo diventare magistrato. Si tratta di un fatto spiacevole che la classe dominante accetta di buon grado, perché è il prezzo da pagare affinché le grandi masse possano essere educate a stare al loro posto, e si possa riconoscere allo Stato, ossia alle classe dominanti, il diritto e il potere di decidere e quantificare attraverso una sua istituzione il valore degli esseri umani.

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Ma insomma, cos'ha questo Comenio che non va?

B: Ma insomma, cos'ha questo Comenio che non va? A me sembra un grande precursore. Afferma la coeducazione di ricchi e poveri, di maschi e femmine. Nemmeno Rousseau si spingerà fino a tanto. Non è forse un bene che tutti abbiano accesso all'istruzione?
A: E' estremamente difficile per noi non riconoscere la grandezza di Comenio appunto per il fatto che lui è un grande precursore. Siamo in una società che afferma la necessità per tutti di passare attraverso la scuola per diventare pienamente umani; siamo stati educati a pensarla così, e non riusciamo a pensare diversamente.
B: Preferiresti una società in cui soltanto ad alcuni fosse concesso l'accesso alla cultura?
A: Il problema è questo: cosa è cultura? Comenio è un critico rigoroso della scuola del suo tempo; con qualche sconcerto, leggendolo ti rendo conto che molti dei punti della sua critica sono ugualmente validi per la scuola di oggi. Vuole una scuola di cose, non di parole; una scuola di esperienze, non di libri. Questo me lo rende simpatico. Ma chi è Comenio? Un intellettuale. Uno, cioè, che rappresenta uno delle tante possibili modalità in cui può esistere un essere umano. Si può essere intellettuali, agricoltori, artigiani, giardinieri e così via. Per Comenio e grazie a Comenio, l'intellettuale diventa l'essere umano per eccellenza; la sua cultura - la cultura scritta - l'unica valida.

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Comenio e la religione della scuola

Comenio
Se si cercano le radici della religione della scuola, bisogna rileggere la Didactica Magna di Comenio, opera che ha una importanza centrale nella nascita della pedagogia moderna.
Il ragionamento di Comenio è talmente semplice e lineare, che può essere distinto in punti.
Primo punto: “L’uomo, per divenire uomo, ha bisogno di essere educato” (è questo il titolo di un paragrafo della Didactica Magna). Per argomentare questo assunto Comenio evoca il caso di un bambino di tre anni disperso nei boschi, predecessore del più noto fanciullo selvaggio dell’Aveyron che Jean Marc Itard cercherà di educare nella Francia dell’Ottocento. Anni dopo, racconta Comenio, fu ritrovato: era uno strano lupo di aspetto umano; solo dopo l’intervento dell’educazione riacquistò la posizione eretta ed imparò a parlare e ragionare. Dunque: ove manchi l’educazione, un bambino non acquisisce nemmeno le caratteristiche comuni della sua specie, come il linguaggio o la stazione eretta. E’ difficile contestare questo punto. L’uomo è, per essenza, un essere che necessita di educazione. Il problema è quale educazione.
Secondo punto: Per educare i figli non bastano i genitori, perché sono pochi coloro che hanno abbastanza tempo per occuparsi dell’educazione dei loro figli; per questo “con singolare avvedutezza si è introdotto da tempo il costume di affidare i figli a molte persone elette, segnalate per sapere e moralità, affinché li istruiscano” (Comenio, Didactica Magna e Pansophia, La Nuova Italia, Firenze 1952, p. 31).

Terzo punto: Occorre dunque che in ogni città, borgo o villaggio vi sia una scuola, e che questa scuola sia frequentata da tutti i bambini, siano ricchi o poveri, maschi e femmine. Questo perché tutti, quale che sia la loro condizione di nascita, “sono nati con il medesimo fine principale, di essere uomini, ossia creature razionali, signore delle altre creature, immagini vere del Creatore” (ivi, p. 34). Attraverso la scuola tutti potranno, “avvedutamente ammaestrati nel sapere, nella morale, nella religione, trascorrere utilmente la vita presente, e preparare degnamente l’altra vita” (ibidem).
Ma se tutti riceveranno la stessa educazione, la società non diventerà egualitaria? Che accadrà ai contadini che saranno istruiti quanto i nobili? Comenio tranquillizza i suoi lettori: accadrà semplicemente che saranno contadini pii, buoni ed operosi; nulla più. Con l’istruzione universale “Saprebbero tutti a che debbono mirare tutti gli atti e i desideri della vita; entro quali confini si debba procedere, in che modo ognuno debba stare al posto suo” (ivi, p. 37; corsivo mio).
Tiriamo le fila del discorso. Nessuno diventa uomo (o donna) senza l’educazione; l’educazione vera è quella data dalla scuola. Nessuno dunque diventa davvero uomo (o donna) senza la scuola. La scuola è l’istituzione che fa di un animale un essere umano. Le scuole sono “officine di umanità” (ivi, p. 38), “fabbrica di uomini” (ivi, p. 40). Di più: nell’ottica di Comenio, la scuola ha una funzione anche religiosa: educa ad essere pii ed a conquistarsi la salvezza eterna. Si può parlare dunque di religione della scuola in senso pieno: la scuola è essenziale per la salvezza dell’anima. Questo vuol dire che tutti coloro che restano al di fuori della scuola sono da considerare ugualmente lontani dal sapere, dal bene e da Dio. 
La scuola universale e gratuita impedisce che gli ingegni che si trovano presso i poveri “passino inosservati e si perdano, con grave danno per la chiesa e per lo stato” (ivi, p. 41). Essa ha dunque anche un compito di promozione sociale, ma limitato ai poveri particolarmente ingegnosi (i “capaci e meritevoli” della nostra Costituzione); a tutti gli altri, la scuola insegna a stare al loro posto. Con ogni evidenza, ha una funzione ideologica che è in linea con quella svolta per secoli dalla Chiesa cattolica. La scuola è fabbrica di esseri umani, ma non forgia tutti con lo stesso stampo: alcuni li fa classe dirigente, altri sudditi; alcuni li fa dominatori, altri dominati. Dominatori e dominati stanno, grazie alla scuola, in uno stesso cerchio culturale, che giustifica il domini dell’uno e richiede l’obbedienza e la sottomissione dell’altro. Fuori dalla scuola c’è un mondo selvaggio, una terra non arata nella quale possono crescere le cattive piante della ribellione e della rivendicazione egualitaria. Grazie alla scuola ognuno si fa prossimo al padrone quel tanto che basta per non ribellarsi – per non essere radicalmente altro da chi comanda -, ma non quanto è necessario per rivendicare un uguale ruolo sociale, a parità di cultura.

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Comenio e la religione della scuola

Comenio
Se si cercano le radici della religione della scuola, bisogna rileggere la Didactica Magna di Comenio, opera che ha una importanza centrale nella nascita della pedagogia moderna.
Il ragionamento di Comenio è talmente semplice e lineare, che può essere distinto in punti.

Primo punto: "L'uomo, per divenire uomo, ha bisogno di essere educato" (è questo il titolo di un paragrafo della Didactica Magna). Per argomentare questo assunto Comenio evoca il caso di un bambino di tre anni disperso nei boschi, predecessore del più noto fanciullo selvaggio dell'Aveyron che Jean Marc Itard cercherà di educare nella Francia dell'Ottocento. Anni dopo, racconta Comenio, fu ritrovato: era uno strano lupo di aspetto umano; solo dopo l'intervento dell'educazione riacquistò la posizione eretta ed imparò a parlare e ragionare. Dunque: ove manchi l'educazione, un bambino non acquisisce nemmeno le caratteristiche comuni della sua specie, come il linguaggio o la stazione eretta. E' difficile contestare questo punto. L'uomo è, per essenza, un essere che necessita di educazione. Il problema è quale educazione.

Secondo punto: Per educare i figli non bastano i genitori, perché sono pochi coloro che hanno abbastanza tempo per occuparsi dell'educazione dei loro figli; per questo "con singolare avvedutezza si è introdotto da tempo il costume di affidare i figli a molte persone elette, segnalate per sapere e moralità, affinché li istruiscano" (Comenio, Didactica Magna e Pansophia, La Nuova Italia, Firenze 1952, p. 31).

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Cogestione!

Quella che termina oggi è stata, per la mia scuola, la settimana della cogestione.
Lunedì gli studenti hanno occupato – letteralmente: spintonando i bidelli e facendosi strada con la forza del numero – la palestra, dove si sono messi a sedere a terra ed hanno cominciato ossessivamente a cantare in coro: “Autogestione… oooohhh autogestione”.
La parola autogestione nella mia scuola è di quelle che al solo pronunciarle suscitano brividi. Qualche anno fa il preside ha concesso l’autogestione (sì, è un ossimoro), ed è andata così: alcune ragazze hanno chiuso in bagno una loro compagna, che essendo figlia di un carabiniere ha chiamato il padre; ne è seguita una denuncia per sequestro di persona, con la notizia in bella evidenza sui giornali locali. Peggio ancora è finito un gioco che rientrava tra le attività autogestite, una sorta di posta del cuore: una ragazza ha avuto la bella idea di rivelare ad un’altra la sua relazione col suo fidanzato. Il quale fidanzato è venuto a scuola inferocito ed ha tentato, chissà perché, di picchiare il preside.

Tutte queste cose riaffioravano nella memoria del preside mentre gli studenti occupavano la palestra, dandogli un’aria mesta e sconfitta. Dalla quale ha tentato di scuotersi compiendo un atto di forza che presto si è rivelato poca cosa. I carabinieri, chiamati, hanno preso il nome dei rappresentanti di istituto, poi si sono limitati ad una presenza decorativa, ignorati del tutto dagli studenti che in palestra continuavano con il loro slogan ossessivo.
La situazione si è sbloccata quando qualcuno (sì, c’entro qualcosa: fatebor enim) ha proposto una soluzione di compromesso: non l’autogestione ma la co-gestione. Che vuol dire: si va in classe e si fa lezione insieme ai docenti su argomenti scelti dagli studenti. Il preside ha convocato d’urgenza i docenti presenti a scuola  per chiedere il loro parere, che è stato favorevole. Qualcuno – sì, c’entro qualcosa – è andato a presentare la proposta ai rappresentanti di istituto, nel forte occupato della palestra. Dopo un quarto d’ora di discussione la proposta è stata accettata e gli studenti sono tornati nelle classi. 
E’ cominciata così la settimana della cogestione. Durante la quale ho visto nella mia prima, nell’ordine: Scusa se ti chiamo amore, Tre metri sopra il cielo, Scusa se ti voglio sposare. Nella mia terza ho discusso di diritti degli animali e di educazione, mentre nell’altra terza ho contribuito agli addobbi natalizi. In quinta abbiamo visto I cento passi. Le voci allarmate dei miei colleghi mi hanno riferito come è andata nelle altre classi. Una classe si è beccata la nota in condotta perché si ostinava a voler ascoltare le canzoni di Gianni Celeste invece dei canti natalizi; in altre classi gli studenti hanno improvvisato tombolate e partite a carte. “La scuola non è un cineforum”, ripeteva in sala docenti un collega che ha respinto la richiesta degli studenti di vedere un film.
Chi si aspettava una settimana di dibattiti impegnati, di lezioni di approfondimento, di film di Truffaut sarà senz’altro rimasto deluso. Io sono forse tra questi. Eppure credo che sia stata utile ed importante, questa parentesi. A scuola ci sono due culture. C’è la cultura scolastica e c’è la cultura degli studenti (con, sullo sfondo, quella delle famiglie). La prima è considerata cultura in senso pieno, la seconda è invece una caricatura della cultura. Ma forma la loro identità, questa cultura che tanto orrore suscita; è l’aria che respirano. Rifiutarla vuol dire rifiutare loro. E’ un rifiuto al quale non può che corrispondere il rifiuto della cultura scolastica. Tu rifiuti me, io rifiuto te. Ognuno vada per la sua strada. Questa settimana è servita a far venire fuori questa cultura minore, a farla diventare protagonista, mentre i detentori dell’altra cultura, quella alta e nobile, restavano a guardare perplessi.
Forse andavano ascoltate, quelle canzoni di Gianni Celeste. Discusse, poi; anche criticate. Ma dopo averle ascoltate.

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Cogestione!

Quella che termina oggi è stata, per la mia scuola, la settimana della cogestione.
Lunedì gli studenti hanno occupato - letteralmente: spintonando i bidelli e facendosi strada con la forza del numero - la palestra, dove si sono messi a sedere a terra ed hanno cominciato ossessivamente a cantare in coro: "Autogestione... oooohhh autogestione".
La parola autogestione nella mia scuola è di quelle che al solo pronunciarle suscitano brividi. Qualche anno fa il preside ha concesso l'autogestione (sì, è un ossimoro), ed è andata così: alcune ragazze hanno chiuso in bagno una loro compagna, che essendo figlia di un carabiniere ha chiamato il padre; ne è seguita una denuncia per sequestro di persona, con la notizia in bella evidenza sui giornali locali. Peggio ancora è finito un gioco che rientrava tra le attività autogestite, una sorta di posta del cuore: una ragazza ha avuto la bella idea di rivelare ad un'altra la sua relazione col suo fidanzato. Il quale fidanzato è venuto a scuola inferocito ed ha tentato, chissà perché, di picchiare il preside.

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Educazione?

Questa mattina ho posto nella mia terza la domanda: Che cosa vuo dire educare? Dalla raccolta di idee è emerso il seguente quadro:

Ci sono diverse cose interessanti su questa lavagna. In genere quando faccio questa domanda accade che quasi tutti rispondano che educare è imporre le regole; qui invece emergono aspetti più raffinati, come “tirare fuori i valori”, “formare la personalità” e “portare al rispetto degli altri” – e sorprende quel “non imporre nulla”.

La discussione di questi punti ci ha portati a riflettere sulla relazione educativa. Cosa accade quando uno educa un altro? Che tipo di relazione è? Tutti sono stati d’accordo nel ritenere che sia un rapporto biunivoco, di dare e ricevere: anche l’educando, in qualche modo, educa l’educatore. Quindi ci siamo chiesti in che modo l’educazione ha a che fare con la società. La vera educazione non riproduce la società, ma cerca di cambiarla, sottoponendola a critica. Cosa non va della società? Cinque cose, dicono gli studenti: l’egoismo, la corruzione, il vendersi, la falsità, la violenza. Non è sufficiente che chi educa critichi questi aspetti della società. Occorre che l’educazione, se vuole preparare la società di domani, sia libera da questi mali.
Ma la scuola è libera da questi mali? La risposta è unanime: no, non lo è.

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Una morale miope

Nel Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace si legge:

Oltre a svariate forme di terrorismo e di criminalità internazionale, sono pericolosi per la pace quei fondamentalismi e quei fanatismi che stravolgono la vera natura della religione, chiamata a favorire la comunione e la riconciliazione tra gli uomini.

Difficile dargli torto: fondamentalismo e fanatismo sono nemici della pace. Il problema è che il fondamentalismo ed il fanatismo sono sempre quelli degli altri. Più avanti, nel discorso, c’è il seguente passo:

Per diventare autentici operatori di pace sono fondamentali l’attenzione alla dimensione trascendente e il colloquio costante con Dio, Padre misericordioso, mediante il quale si implora la redenzione conquistataci dal suo Figlio Unigenito. Così l’uomo può vincere quel germe di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoismo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste.

Il papa dice, dunque, che chinque non sia credente non può essere operatore di pace; nessuno che sia chiuso alla Trascendenza può vincere l’egoismo, la violenza eccetera. Tradotto in linguaggio corrente: tutti quelli che non sono credenti sono condannati ad essere cattivi. E cos’è questo, se non fondamentalismo e fanatismo?
Illuminati da Dio, aperto al Trascendente, in dialogo con Dio, il papa è così miope da vedere le maggiori minacce alla pace mondiale non nel commercio internazionale delle armi, ma nell’aborto, nell’eutanasia e nelle unioni gay. La pace è minacciata ogni volta che non si rispetta la vita umana:

Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale.

Che anche l’esistenza di una persona omosessuale sia vita umana, come tale degna di rispetto,  è una cosa che l’apertura al Divino non riesce a fare entrare nella testa di questo vecchio ottuso. E non è ovviamente lecito attendersi alcun cenno allo scandalo immenso della sofferenza della vita animale, che per i cattolici – fedeli al mandato del Genesi – semplicemente non esiste. Non c’è nessuna minaccia alla pace nel fatto che la vita di milioni ì di animali sia quotidianamente crocifissa negli allevamenti industriali – umiliata, offesa, derisa, smembrata. La miopia morale non gli consente di scorgere la continuità tra violenza sull’animale e violenza sull’uomo, tra l’organizzazione scientifica, sistematica dei macelli e quella dei campi di sterminio.
Non c’è, in un discorso del genere, soltanto una morale insufficiente (quella ottusità morale, per non dire peggio, che lo porta a ricevere in Vaticano Rebecca Kadaga, presidente del parlamento Ugandese, promotrice di una legge che prevede la pena di morte per i gay). C’è qualcosa di peggio: c’è insufficienza religiosa. La vera religione dà slancio alla morale, la apre, la rende più sensibile e profonda. Qui abbiamo una religione spenta che produce una morale spenta. Un sale che è diventato insipido.

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Una morale miope


Nel Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace si legge:
Oltre a svariate forme di terrorismo e di criminalità internazionale, sono pericolosi per la pace quei fondamentalismi e quei fanatismi che stravolgono la vera natura della religione, chiamata a favorire la comunione e la riconciliazione tra gli uomini.
Difficile dargli torto: fondamentalismo e fanatismo sono nemici della pace. Il problema è che il fondamentalismo ed il fanatismo sono sempre quelli degli altri. Più avanti, nel discorso, c'è il seguente passo:

Per diventare autentici operatori di pace sono fondamentali l’attenzione alla dimensione trascendente e il colloquio costante con Dio, Padre misericordioso, mediante il quale si implora la redenzione conquistataci dal suo Figlio Unigenito. Così l’uomo può vincere quel germe di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoismo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste.
Il papa dice, dunque, che chinque non sia credente non può essere operatore di pace; nessuno che sia chiuso alla Trascendenza può vincere l'egoismo, la violenza eccetera. Tradotto in linguaggio corrente: tutti quelli che non sono credenti sono condannati ad essere cattivi. E cos'è questo, se non fondamentalismo e fanatismo?

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Educazione?

Questa mattina ho posto nella mia terza la domanda: Che cosa vuo dire educare? Dalla raccolta di idee è emerso il seguente quadro:


Ci sono diverse cose interessanti su questa lavagna. In genere quando faccio questa domanda accade che quasi tutti rispondano che educare è imporre le regole; qui invece emergono aspetti più raffinati, come "tirare fuori i valori", "formare la personalità" e "portare al rispetto degli altri" - e sorprende quel "non imporre nulla".

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Extra scholam nulla salus?

Foto di Antonio Vigilante*

A: Bisogna finirla con l’extra scholam nulla salus. Credere che solo attraverso la scuola di diventi pienamente umani vuol dire considerare limitatamente umani tutti coloro che non sono stati a scuola, o ne sono usciti anzitempo; significa squalificare come inferiore e disumana qualsiasi cultura che si distacchi da quella scolastica, vale a dire dalla cultura della classe sociale al potere.

B: Ma a cosa approda questo discorso? La scuola non è necessaria, dirai; e lo dirai prima di tutto a quelli che la scuola non l’amano – vale a dire ai non borghesi. Dirai loro che non serve venire a scuola, che la vita è piena di occasioni formative, che si può imparare ovunque e che quella scolastica non è che una delle culture possibili. In questo modo avrai espulso dalla scuola tutti i figli dei proletari, ed avrai restaurato la scuola d’élite, che è il sogno della destra.

A: Di che cosa ci preoccupiamo, esattamente? Io mi preoccupo della formazione dell’uomo e della donna. Tu, mi sembra, ti preoccupi del successo. Le due cose non coincidono. La scuola si presenta come una via per il successo, ed al tempo stesso pretende di essere una istituzione che educa. Io dico che diventare pienamente umani è una cosa che non ha a che fare con il successo. Quale successo, poi? Dalla scuola escono poche persone che diventano la classe dirigente (che accoglie, però, anche persone che non hanno studiato: ed in misura sempre maggiore); molti di più sono quelli che diventano impiegati dello Stato. E’ questo il successo? E’ questa la vita desiderabile per un essere umano? E’ questa una vita degna di essere vissuta: passare anni ed anni seduti ad un banco, per poter poi occupare una sedia in un ufficio? E’ questa la salvezza?
B: Non potrai negare, però, che a scuola passa molta cultura vera: cultura che non appartiene solo alla classe borghese. Stare seduti ad un banco per ore è una tortura, lo concedo. Ma nel chiuso di un’aula è possibile aprire la mente ai più alti sistemi filosofici, aprire il cuore alla poesia più vera. Mozart e Beethoven, Goethe e Saffo, Montaigne e Spinoza sono solo cultura borghese? E non ti sembra che un essere umano perda qualcosa, se non ha la possibilità di accedere all’arte, alla poesia, alla musica, alla filosofia?
A: Proprio perché queste cose sono belle ed importanti – ma non sono le uniche cose belle ed importanti -, la scuola è il posto peggiore per incontrarle. Non c’è contrasto più forte, che quello tra la bellezza della poesia che si studia a scuola e lo squallore della scuola stessa. Il contrasto è tutto a svantaggio della poesia: che, come se non bastasse, viene poi ulteriormente umiliata dall’analisi stilistica, dalle infinite e noiosissime operazioni sul testo, dalla necessità di imparare a memoria una certa quantità di nozioni per superare poi una verifica ed ottenere un buon voto. Nulla viene gustato, di queste bellezze; tutto è solo materia inerte che serve ad ottenere successo.
B: Se è così, allora basteranno alcuni aggiustamenti, per rendere sensata la scuola. Basterà rendere meno squallidi gli ambienti scolastici e meno deprimenti i metodi.
A: Sono cambiamenti auspicabili, ma non sufficienti. Fino a quando si andrà a scuola per ottenere un diploma, tutto quello che si studierà sarà soltanto un mezzo: nulla di più. Fino a quando si andrà a scuola per ottenere un diploma, nulla verrà studiato con interesse. Mancherà la premessa stessa di qualsiasi lavoro educativo: l’interesse, appunto.
B: Non credo che sia possibile riformare la scuola in modo tale da avere studenti realmente intreressati. Fino a quando esisterà la scuola, vi saranno studenti annoiati, che passeranno le mattine a studiare cose per le quali non hanno il minimo interesse. Per abitudine, perché costretti dai genitori – o nella speranza di una sistemazione futura.
A: Dici bene: fino a quando esisterà la scuola.

* Nella foto: la cattedra della mia classe quarta. Con la pedana. Nonostante tutta la pedagogia del Novecento.

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Extra scholam nulla salus?

Foto di Antonio Vigilante*
A: Bisogna finirla con l'extra scholam nulla salus. Credere che solo attraverso la scuola di diventi pienamente umani vuol dire considerare limitatamente umani tutti coloro che non sono stati a scuola, o ne sono usciti anzitempo; significa squalificare come inferiore e disumana qualsiasi cultura che si distacchi da quella scolastica, vale a dire dalla cultura della classe sociale al potere.

B: Ma a cosa approda questo discorso? La scuola non è necessaria, dirai; e lo dirai prima di tutto a quelli che la scuola non l'amano - vale a dire ai non borghesi. Dirai loro che non serve venire a scuola, che la vita è piena di occasioni formative, che si può imparare ovunque e che quella scolastica non è che una delle culture possibili. In questo modo avrai espulso dalla scuola tutti i figli dei proletari, ed avrai restaurato la scuola d'élite, che è il sogno della destra.

A: Di che cosa ci preoccupiamo, esattamente? Io mi preoccupo della formazione dell'uomo e della donna. Tu, mi sembra, ti preoccupi del successo. Le due cose non coincidono. La scuola si presenta come una via per il successo, ed al tempo stesso pretende di essere una istituzione che educa. Io dico che diventare pienamente umani è una cosa che non ha a che fare con il successo. Quale successo, poi? Dalla scuola escono poche persone che diventano la classe dirigente (che accoglie, però, anche persone che non hanno studiato: ed in misura sempre maggiore); molti di più sono quelli che diventano impiegati dello Stato. E' questo il successo? E' questa la vita desiderabile per un essere umano? E' questa una vita degna di essere vissuta: passare anni ed anni seduti ad un banco, per poter poi occupare una sedia in un ufficio? E' questa la salvezza?

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Cent'anni di Arturo Paoli

Frontespizio di Ancora cercate ancora, con dedica
Oggi Arturo Paoli compie cent’anni.
In un’altra Italia, sarebbe festeggiato come uno dei più grandi uomini della nazione. Nell’Italia che abbiamo è una antica quercia solitaria, che parla con voce ferma ma sottile solo ai pochi che hanno voglia di ascoltarla.
Una delle cose che mi interessano da un po’ è la possibilità di incontro tra credenti ed atei. Mi pare che questo incontro sia possibile in due dimensioni, che non so come e quanto siano conciliabili: la mistica e la prassi. La mistica, poiché Dio può essere una consolazione dell’io, il sostegno e puntello metafisico del soggetto – e il mistico e l’ateo possono procedere insieme verso il “Dio prima di Dio”. La prassi, perché anche l’ateo può riconoscere quel Dio-nei-poveri che Vivekananda e Gandhi chiamavano Daridranarayana. Fratel Arturo è uno di quei pensatori religiosi con i quali un ateo può dialogare sulla base della prassi. In Camminando s’apre cammino (Cittadella,  Assisi 1994) afferma che la divisione dei cristiani sta nel pensare Cristo “attraverso la filosofia dell’essere o attraverso la filosofia della prassi” (p. 52). E cosa significhi pensarlo attraverso la filosofia della prassi è presto detto: 
Prima di parlare di pace e di unione, esci, amico, e osserva attentamente se sulla tua porta è scritto: – Qui non c’è posto per i poveri -, perché se è così, il discorso è falsificato non dall’intenzione, ma dalla scelta. Ci scandalizzano i politici imbroglioni, ma l’imbroglio di noi cristiani può essere più sottile perché va alla radice della coscienza. Se chiedi a un religioso chi è Cristo, magari ti risponde con un’eloquenza fantastica; se gli chiedi che cosa fa il Cristo oggi nel mondo, nella storia, potrebbe balbettare come un bambino. (ivi, p. 61)

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Cent'anni di Arturo Paoli

Frontespizio di Ancora cercate ancora, con dedica
Oggi Arturo Paoli compie cent'anni.
In un'altra Italia, sarebbe festeggiato come uno dei più grandi uomini della nazione. Nell'Italia che abbiamo è una antica quercia solitaria, che parla con voce ferma ma sottile solo ai pochi che hanno voglia di ascoltarla.
Una delle cose che mi interessano da un po' è la possibilità di incontro tra credenti ed atei. Mi pare che questo incontro sia possibile in due dimensioni, che non so come e quanto siano conciliabili: la mistica e la prassi. La mistica, poiché Dio può essere una consolazione dell'io, il sostegno e puntello metafisico del soggetto - e il mistico e l'ateo possono procedere insieme verso il "Dio prima di Dio". La prassi, perché anche l'ateo può riconoscere quel Dio-nei-poveri che Vivekananda e Gandhi chiamavano Daridranarayana. Fratel Arturo è uno di quei pensatori religiosi con i quali un ateo può dialogare sulla base della prassi. In Camminando s'apre cammino (Cittadella,  Assisi 1994) afferma che la divisione dei cristiani sta nel pensare Cristo "attraverso la filosofia dell'essere o attraverso la filosofia della prassi" (p. 52). E cosa significhi pensarlo attraverso la filosofia della prassi è presto detto: 

Prima di parlare di pace e di unione, esci, amico, e osserva attentamente se sulla tua porta è scritto: - Qui non c'è posto per i poveri -, perché se è così, il discorso è falsificato non dall'intenzione, ma dalla scelta. Ci scandalizzano i politici imbroglioni, ma l'imbroglio di noi cristiani può essere più sottile perché va alla radice della coscienza. Se chiedi a un religioso chi è Cristo, magari ti risponde con un'eloquenza fantastica; se gli chiedi che cosa fa il Cristo oggi nel mondo, nella storia, potrebbe balbettare come un bambino. (ivi, p. 61)


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Etsi Deus daretur?

Il messaggio di papa Benedetto XVI ai partecipanti al Cortile dei gentili, in Portogallo, ha un interessante punto di contatto con il pensiero di Aldo Capitini, che vorrei segnalare.
Scrive papa Ratzinger:

La morte della persona amata è, per chi l’ama, l’evento più assurdo che si possa immaginare: lei è incondizionatamente degna di vivere, è buono e bello che esista (l’essere, il bene, il bello, come direbbe un metafisico, si equivalgono trascendentalmente). Parimenti, la morte di questa stessa persona appare, agli occhi di chi non ama, come un evento naturale, logico (non assurdo). Chi ha ragione? Colui che ama («la morte di questa persona è assurda») o colui che non ama («la morte di questa persona è logica»)?

Per Capitini, esiste un atto di unità-amore, nel quale Dio stesso si manifesta dall’intimo. In questo atto d’amore, l’altro mi appare come dotato di un valore infinito. Poi però giunge la morte ad annullare quella persona. Come può essere che chi ha valore assoluto venga ridotto a nulla? In effetti, a chi ama la morte della persona amata appare assurda. Per Capitini, è fondamentale tener fermo questo punto: rifiutarsi di considerare accettabile la morte di chi amiamo.
Vediamo come continua Ratzinger:

La prima posizione è difendibile solo se ogni persona è amata da un Potere infinito; e questo è il motivo per cui è stato necessario appellarsi a Dio. Di fatto, chi ama non vuole che la persona amata muoia; e, se potesse, lo impedirebbe sempre. Se potesse… L’amore finito è impotente; l’Amore infinito è onnipotente. Ebbene, è questa la certezza che la Chiesa annuncia: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Sì! Dio ama ogni persona che, perciò, è incondizionatamente degna di vivere. «Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell’amore del Padre, manifesta come l’uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita». (Enciclica Evangelium vitae, n. 25).

Qui ha la massima rilevanza quel solo. E’ davvero così? Possiamo considerare assurda la morte della persona amata solo se pensiamo che esista un Dio che è Potere infinito? Sembrerebbe di sì, ad un primo sguardo. Ma è una soluzione che Capitini rifiuta, perché pensare Dio come un tale Potere vuol dire, se si vuole essere conseguenti, attribuire a Dio l’origine stessa del male: ossia fare di Dio stesso la ragione per cui la persona amata muore.
Se Dio è l’Origine, a Lui va attribuito lo stesso male. Non serve a molto introdurre la figura dell’ha-Shatan, poiché le cose sono due: o l’ha-Shatan è dall’origine, ed all’ora Dio non è Origine unica, né è assoluto, ma è parte di una Diade originaria; oppure Dio è origine anche del male, anche dell’ha-Shatan.
Per Capitini, occorre invece pensare Dio – quel Dio che chiama compresenza (per la quale, precisa, “si può anche non parlare di Dio”) – come anti-origine. Il pensiero teologico occidentale ha sempre messo Dio all’inizio del cosmo, come causa. Capitini compie lo sforzo, assolutamente originale (ma nella stessa direzione procede anche, benché in modo più oscuro e travagliato, Ferdinando Tartaglia), di pensare Dio dall’altra parte, mettendolo non all’inizio, ma alla fine – non come origine, ma come telos.
Afferma ancora Ratzinger:
È necessario riaprire le finestre, vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra, e imparare a usare tutto ciò in modo giusto. Di fatto, il valore della vita diventa evidente solo se Dio esiste. Perciò, sarebbe bello se i non credenti volessero vivere «come se Dio esistesse». Sebbene non abbiano la forza per credere, dovrebbero vivere in base a questa ipotesi; in caso contrario, il mondo non funziona. Ci sono tanti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto, se Dio non sarà posto al centro, se Dio non diventerà di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita.
Il ragionamento di Ratzinger in questo passo è il rovesciamento esatto del pensiero di Dietrich Bonhoeffer. Per il grande teologo tedesco, i credenti sono chiamati a vivere come se Dio non ci fosse: “Davanti a Dio e con Dio, viviamo senza Dio”, scrive in Resistenza e resa. E denuncia, nella stessa opera, il Dio-Tappabuchi della tradizione cristiana: il Dio che fa funzionare il mondo. Un tale Dio Tappabuchi, che fa funzionare il mondo, è esattamente il Dio di Ratzinger. Un Tappabuchi talmente efficiente, che vorrebbe che vi facessero ricorso anche gli atei. Dimenticando che l’ateismo ha come ragione principale proprio la constatazione che le falle restano tali, e non basta Dio a tapparle.
Ma torniamo a Capitini. Il suo pensiero può essere interpretato, per molti versi, come un tentativo laico di interpretare il mondo etsi Deus daretur, come se Dio ci fosse; come se, cioè, la morte non fosse l’ultima verità sugli esseri. E tuttavia Capitini rifiuta tutto l’impianto della religione tradizionale: e rifiuta Dio stesso, concepito come Potere infinito. Il Dio di cui parla è un Dio che è tutto nell’atto di amore, che sta dalla parte dell’intimo; che non è sostantivo, ma avverbio: è l’infinitamente con cui amiamo. Vivere come se Dio ci fosse vuol dire ostinarsi ad amare, ostinarsi a rifiutare la morte come ultima verità, senza tuttavia credere in alcun potere trascendente che salva; e sperare, con la forza dell’amore, che il mondo possa aprirsi, che possano aprirsi crepe nella sua struttura violenza, e che in queste crepe possa insinuarsi qualcosa di nuovo.
E’, questo, un vivere etsi Deus daretur, ed al tempo stesso etsi Deus non daretur. Rifiutando qualsiasi Potere trascendente, che dia senso e valore dall’altro alla nostra vita, ma non rinunciando ad approfondire le ragioni metafisiche (praticamente metafisiche) ed escatologiche dell’amore.

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Etsi Deus daretur?

Il messaggio di papa Benedetto XVI ai partecipanti al Cortile dei gentili, in Portogallo, ha un interessante punto di contatto con il pensiero di Aldo Capitini, che vorrei segnalare.
Scrive papa Ratzinger:

La morte della persona amata è, per chi l'ama, l'evento più assurdo che si possa immaginare: lei è incondizionatamente degna di vivere, è buono e bello che esista (l'essere, il bene, il bello, come direbbe un metafisico, si equivalgono trascendentalmente). Parimenti, la morte di questa stessa persona appare, agli occhi di chi non ama, come un evento naturale, logico (non assurdo). Chi ha ragione? Colui che ama («la morte di questa persona è assurda») o colui che non ama («la morte di questa persona è logica»)?

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Gianfranco Zavalloni, maestro

In anteprima un ricordo di Gianfranco Zavalloni che uscirà nel prossimo numero di Educazione Democratica (gennaio 2013).

Gianfranco Zavalloni, scomparso a soli cinquantaquattro anni per un male incurabile lo scorso mese di agosto, è stato uno dei più validi educatori del nostro paese. Dirigente scolastico, ma soprattutto maestro di scuola materna; e ancora: disegnatore, calligrafo, attore, creatore di burattini, animatore dell’Ecoistituto di Cesena, straordinario sperimentatore delle vie di una educazione nonviolenta, ecologica, creativa. Mentre la scuola si avvia a diventare digitale (pur con le solite contraddizioni del nostro paese: si montano le lavagne elettroniche in aule fatiscenti, in edifici che spesso non rispettano i più elementari criteri di sicurezza), Zavalloni ha praticato e teorizzato una scuola analogica: lenta, non competitiva, alla riscoperta della manualità e del contatto con la terra.

In una comunicazione mandata ad un convegno al quale non aveva potuto partecipare raccontava così, con la sua straordinaria umanità, la sua malattia:

Amo le fiabe, amo i burattini. Nei 33 anni di esperienza da educatore, maestro e dirigente scolastico la passione per fiabe e burattini è stata una costante. E anche oggi, dall’alto di un boccascena del teatro dei burattini, se chiedessi a bimbi e bimbe qual è la storia che desiderano vedere, il 99% delle risposte (ne sono sicuro) sarebbe «Cappuccetto Rosso!!». Evidentemente c’è qualcosa di universale. C’è un momento della fiaba (nella mia versione burattinesca) che mi affascina particolarmente. È il momento in cui il lupo, dopo aver divorato la nonna e cappuccetto rosso, si concede un meritato riposo. A quel punto il cacciatore, dopo aver aperto la pancia al lupo e fatte uscire le malcapitate, con l’aiuto dei bambini riempie di sassi la pancia del lupo per poi ricucirla. Al risveglio il lupo, con la pancia appesantita dai sassi, viene investito dal vociare dei bambini che gli evidenziano la realtà: la pancia è piena di sassi. Ma lui non crede a queste «frottole» e pensa che sia una semplice indigestione, pesantezza di carne umana, ingerita voracemente senza masticare.
Ebbene quel lupo, il 18 ottobre scorso, improvvisamente, ero io. Pensando ad una possibile indigestione, dopo una notte passata con un doloroso mal di pancia, mi sono recato ad uno dei pronto soccorso di Belo Horizonte. E dopo diverse ore, con la pancia piena d’acqua per favorire l’esame, mi sono sottoposto ad una ecografia. L’esito è stato immediato: qui ci sono un po’ di sassi da togliere, ha sentenziato il medico chirurgo. Così, come il lupo contesta i bimbi e le bimbe rispondendo loro «…non è vero, non è vero, state scherzando, mi prendete in giro!!», così anch’io non volevo crederci. E dentro di me pensavo: «si sono sbagliati, la diagnosi è inesatta!». Ma la realtà a volte è cruda. Dopo poco più di un mese, il 2 dicembre, sono entrato (come il lupo poi entra nel pozzo per bere) in una sala operatoria dell’Ospedale S. Orsola di Bologna. Tre chirurghi e una schiera di collaboratori hanno lavorato per 9 ore e mezza per togliere dalla mia pancia tutti i sassi grossi (un rene, il surrene, una enorme massa tumorale, un trombo formatosi nella vena cava…). Sono restati tanti piccoli sassolini sparsi qua e là. Ma questa è già la storia di Pollicino oppure quella di Hansel e Gretel.

La morte è uno dei temi de La pedagogia della lumaca, l’opera più importante di Zavalloni: ed è una cosa che può sorprendere, in un libro che è una esaltazione della gioia di educare, che viene dalla gioia di vivere, solo se non si considerano le sue origini contadine, anzi il suo esser rimasto fino alla fine un uomo della campagna. Per la civiltà contadina la morte non è una minaccia da allontanare per affermare la vita, ma è un momento della vita stessa, fa parte della natura e dei suoi cicli. Zavalloni ricordava con approvazione la proposta di Hundertwasser, il grande pittore, architetto ed ecologista austriaco, di seppellire i defunti sotto ad un albero, che crescendo si nutra di essi, facendoli vivere in sé. E’ l’unica sepoltura che rispetta fino in fondo la legge della natura, che vuole che tutti gli esseri siano alimenti per altre vite.

Non so se la sua sepoltura sia avvenuta in questo modo; mi sembra improbabile. Ma in molti modi chi non è più può continuare ad essere nutrimento. Nel caso di Zavalloni, restano le sue opere, il suo esempio, le sue molteplici iniziative. L’albero è stato piantato, ed è saldo.

Oltre alle origini contadine, hanno contribuito a formare l’uomo e l’educatore Zavalloni le assidue letture della giovinezza. Accanto a don Milani troviamo gli anarchici Bernardi e Ivan Illich e il discepolo di Gandhi Lanza del Vasto, oltre a Fromm, a Schumacher ed al giornalista e scrittore Massimo Fini. Su tutti però prevale ancora un anarchico: l’urbanista Carlo Doglio, vicino al movimento di Comunità di Olivetti ma anche a Danilo Dolci. Doglio è per Zavalloni un maestro in senso pieno: è stato non solo il suo docente di Pianificazione territoriale a Bologna, ma anche il relatore della sua tesi. Alla fine di una commossa rievocazione, Zavalloni scrive: “E’ vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti” (Zavalloni 2010a, 106).

La strada sulla quale si è inoltrato l’educatore Zavalloni è, come accennato, una strada che va in direzione opposta a quella percorsa oggi dai più. Un piccolo sentiero di campagna, si direbbe, poco praticato ma pieno di sorprese per chi vi si inoltra. E’ il sentiero di una pedagogia consapevole delle molte violenze che possono essere giustificate in nome dell’educazione. L’elogio della lentezza non è un vezzo, ma nasce dal semplice rispetto dei soggetti, che è in fondamento stesso dell’educazione. In educazione non è possibile correre e rispettare al contempo la personalità degli educandi; correre vuol dire fare pessima educazione, o non fare affatto educazione. Ma noi siamo in una civiltà della corsa. Non dovrà l’educazione adeguarsi? Se si concepisce l’educazione come semplice socializzazione, portare l’educando allo stato attuale della società, senz’altro. Ma gli scopi dell’educazione sono, per Zavalloni, più complessi. L’educazione è, anche, riflessione critica sulla società e ricerca di una società migliore, come spiegava don Milani ai giudici. Non è possibile, oggi più che mai, fare educazione senza fermarsi a riflettere sulla società attuale, senza chiedersi dove ci sta portando la strada che abbiamo imboccato con la rivoluzione industriale. Zavalloni è tra quelli che ritengono che sia necessaria una svolta, che la civiltà industriale e capitalistica, con la sua ansia produttivistica, ci abbia condotti in un vicolo cieco, dal quale sarà possibile uscire soltanto ripensando criticamente i fondamenti culturali e psicologici del mondo attuale.

La scuola può muoversi tra due poli: quello del soggetto e quello del sistema. Può, cioè, occuparsi dello sviluppo delle persone che le sono affidate, lavorare perché crescano in più dimensioni in un ambiente sereno, oppure preoccuparsi di adattarli a vivere in società, facendo accettare loro i valori dominanti, affinché la società stessa mantenersi salda e perpetuarsi. In teoria, la scuola italiana (ed occidentale) non sceglie uno dei due poli, ma rispetta entrambe le istanze: è una scuola al tempo stesso per la persona e per il sistema, che educa alla formazione piena della personalità ma non trascura la socializzazione e l’inserimento nel mondo del lavoro. In realtà, in una società capitalistica è semplicemente impossibile tenere insieme le due cose. Occuparsi in modo reale, e non solo retorico, dello sviluppo personale, vuol dire giungere a mettere in discussione l’assetto sociale e soprattutto economico. Non è difficile accorgersi che la scuola italiana ha scelto di fatto il polo della società. E’ una scuola che educa al capitalismo, vale a dire all’individualismo, alla competizione, alla quantificazione, alla considerazione della stessa cultura ed educazione come una merce da spendere sul mercato. Non si spiegherebbero altrimenti cose che sembrano far parte in modo naturale della scuola, e che invece sono il risultato di una scelta. Tale è, ad esempio, il voto, che fin dalla scuola primaria separa i bambini gli uni dagli altri, li divide in bravi e meno bravi e li contrappone, in una sorta di insensata gara educativa. Tale è lo stesso setting dell’aula, con i banchi separati in file parallele, in modo che gli studenti possano comunicare tra di loro il meno possibile.

Da dirigente scolastico, Zavalloni è stato un uomo inserito in questo sistema. Ma ha anche mostrato come è possibile aprirlo dall’interno, inserire in esso logiche nuove, approfittando di ogni spiraglio. Così per i voti. Dal momento in cui vengono introdotto i voti, osserva, accadono due cose: i bambini fanno le cose non più per piacere, ma per il voto, e nasce la competizione. Ma non è proprio possibile abolirli? La sua risposta è sì. Non si parla, in fondo, di scuola dell’autononomia? E a cosa serve, l’autonomia, se non a fare scelte autonome, anche coraggiose? E’ ben possibile, nella scuola dell’obbligo, “provare strategie di cooperazione didattica e di tutoraggio che possono far scomparire, ad esempio, il fenomeno della concorrenza e della competizione” (Zavalloni 2010a, 67). Un cambiamento che richiederebbe anche la scomparsa di termini ed espressioni che sono entrati nel linguaggio scolastico provenendo dal mondo dell’economia, come quello di “profitto scolastico”. Cosa vuol dire studiare “con profitto”? Perché non si parla, piuttosto, di “piacere scolastico”? Non avrebbe più senso? Fin dalla scuola primaria i bambini sono, nella percezione dei loro insegnanti, dei piccoli risparmiatori che da subito devono cominciare ad accumulare, per godere poi da adulti di un discreto capitale. Se si considera poi la prassi di assegnare compiti a casa, viene da pensare che questo percorso di accumulo capitalistico dello pseudo-sapere scolastico e del riconoscimento sociale debba essere anche, per scelta deliberata, un percorso ad ostacoli: come se si cercasse di rendere la vita dello studente il più possibile spiacevole e dura, al fine di eliminare del tutto il piacere ed il desiderio. Per Zavalloni i compiti andrebbero aboliti durante le vacanza (e ai suoi maestri manda una lettera che suona come avvertimento: se si ostineranno a dar compiti agli studenti, sappiano che ci sono “alcuni lavori che possiamo fare benissimo insieme nel periodo delle vacanze pasquali”: Zavalloni 2010a, 85), ma soprattutto vanno ripensati. Gli esercizi ripetitivi possono essere fatti in classe (lì dove, occorre notare, lo studente potrà essere seguito – come è giusto che sia – dall’insegnante, senza che nello svolgimento dei compiti pesi dunque il fatto di avere genitori con la laurea o con la licenza elementare); per casa, si possono assegnare attività interessanti, piacevoli e soprattutto creative, che lo studente faccia senza avvertire alcun peso. Quanto al setting dell’aula, come dirigente scolastico Zavalloni aveva richiesto banchi e sedie rispettosi al tempo stesso degli studenti e della natura. E dunque: sedie e banchi ergonomici in legno massello, con i banchi progettati in modo da poter essere uniti per formare un tavolo unico. Poiché banchi e sedie simili non erano in commercio, sono stati appositamente progettati e prodotti da una azienda locale: un esempio di come sia possibile ripensare la scuola dal basso anche strutturalmente, invece di rassegnarsi all’insensato setting tradizionale.

La scuola capitalistica è la scuola della classe borghese. E’, notava Zavalloni, la scuola nella quale i figli dei contadini si vergognano di essere tali, e cercano di nascondere la loro origine. Lo stesso si potrebbe dire dei figli degli operai. Lo studente modello, quello che otterrà più facilmente il “profitto scolastico”, è il figlio del libero professionista, dell’avvocato o dell’ingegnere: ancora il Pierino di cui parlava don Milani. A scuola si studia: non si lavora. Bisogna usare la testa per diventare intellettuali, non le mani. L’agricoltura e l’artigianato non hanno, per chi ha pensato la nostra scuola pubblica, alcun valore formativo. Alla scuola primaria si potranno usare le mani per fare “lavoretti”, ma lavori veri e propri no. Lavorare il legno, lavorare la creta, lavorare la terra: tutto ciò è troppo concreto, troppo materiale per la scuola italiana.

Il contadino-educatore Zavalloni è stato tra gli ispiratori del progetto degli orti di pace, espressione che ribalta quella di orti di guerra, gli orti improvvisati che si diffusero nelle città durante la guerra per rispondere ai bisogni alimentari della popolazione. La diffusione della scuola di massa, in Italia, ha coinciso con la fine della civiltà contadina e l’avvio di un processo di omologazione culturale che ha progressivamente smussato le differenze culturali tra classi sociali, imponendo il modello borghese. Oggi non esiste più, in Italia, qualcosa come una “cultura contadina”. Chi ancora vive del lavoro con la terra quasi se ne vergogna. Zavalloni ricorda che quando, entrando in una classe, chiedeva quanti studenti erano figli di contadini, si alzavano pochissime mani; quando poi raccontava di essere lui stesso figlio di contadini, e spiegava l’importanza del mondo agricolo, le mani alzate aumentavano (Zavalloni 2010b, 11). Il progetto, che intende portare nelle scuole gli orti ed il lavoro della terra, dimostra come l’innovazione nella scuola non debba passare necessariamente attraverso la tecnologia. Lavorare la terra, per dei bambini di città, vuol dire recuperare abilità manuali, sviluppare l’osservazione, fare esperienze utili anche per la crescita delle conoscenze e della riflessione. Ma soprattutto, notava Zavalloni, significa “attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di capacità previsionali” (Zavalloni 2010b, 24). Vuol dire imparare a fermarsi e ad aspettare: in una parola, a rispettare. E forse nulla è più urgente da imparare, per i bambini e per gli adulti che insegnano ai bambini.

Mi hanno sempre colpito molto i disegni di Zavalloni. Sono, a ben vedere, i disegni che potrebbe fare un bambino con la consapevolezza tecnica di un adulto. Nei disegni c’è tutta la spiritualità di Zavalloni, il suo amore per le cose essenziali, la sua fantasia, la poesia, l’amore per l’infanzia – anzi, la capacità di vivere, di stare nell’infanzia anche nell’età adulta. Ogni educazione autentica è al tempo stesso un educarsi; ogni rapporto educativo è bidirezionale e reciproco. Chi educa viene educato nell’atto stesso di educare. Questa verità semplice – che molti negano quasi con sdegno, perché mette in discussione i rapporti di dominio in campo educativo – è stata vissuta quotidianamente da Zavalloni ed era, probabilmente, il suo segreto. Educava i bambini, ma al tempo stesso era a scuola da loro: e questo gli ha permesso di non smarrire mai il rapporto con la poesia, la bellezza e la verità.

Bibliografia

Zavalloni G. (2010a), La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna. Seconda edizione.
Zavalloni G. (2010b), A scuola dai contadini, in Aa. Vv., Orti di pace. Il lavoro della terra come via educativa, a cura di G. Zavalloni, EMI, Bologna 2010.

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Gianfranco Zavalloni, maestro

In anteprima un ricordo di Gianfranco Zavalloni che uscirà nel prossimo numero di Educazione Democratica (gennaio 2013).

Gianfranco Zavalloni

Gianfranco Zavalloni, scomparso a soli cinquantaquattro anni per un male incurabile lo scorso mese di agosto, è stato uno dei più validi educatori del nostro paese. Dirigente scolastico, ma soprattutto maestro di scuola materna; e ancora: disegnatore, calligrafo, attore, creatore di burattini, animatore dell'Ecoistituto di Cesena, straordinario sperimentatore delle vie di una educazione nonviolenta, ecologica, creativa. Mentre la scuola si avvia a diventare digitale (pur con le solite contraddizioni del nostro paese: si montano le lavagne elettroniche in aule fatiscenti, in edifici che spesso non rispettano i più elementari criteri di sicurezza), Zavalloni ha praticato e teorizzato una scuola analogica: lenta, non competitiva, alla riscoperta della manualità e del contatto con la terra.
In una comunicazione mandata ad un convegno al quale non aveva potuto partecipare raccontava così, con la sua straordinaria umanità, la sua malattia:
Amo le fiabe, amo i burattini. Nei 33 anni di esperienza da educatore, maestro e dirigente scolastico la passione per fiabe e burattini è stata una costante. E anche oggi, dall'alto di un boccascena del teatro dei burattini, se chiedessi a bimbi e bimbe qual è la storia che desiderano vedere, il 99% delle risposte (ne sono sicuro) sarebbe «Cappuccetto Rosso!!». Evidentemente c'è qualcosa di universale. C'è un momento della fiaba (nella mia versione burattinesca) che mi affascina particolarmente.È il momento in cui il lupo, dopo aver divorato la nonna e cappuccetto rosso, si concede un meritato riposo. A quel punto il cacciatore, dopo aver aperto la pancia al lupo e fatte uscire le malcapitate, con l'aiuto dei bambini riempie di sassi la pancia del lupo per poi ricucirla. Al risveglio il lupo, con la pancia appesantita dai sassi, viene investito dal vociare dei bambini che gli evidenziano la realtà: la pancia è piena di sassi. Ma lui non crede a queste «frottole» e pensa che sia una semplice indigestione, pesantezza di carne umana, ingerita voracemente senza masticare.

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Due forme

DUE forme di dolore, due forme di gioia.

Il piccolo dolore e la piccola gioia appartengono all’io: sono la frustrazione per le aspirazioni insoddisfatte o la gioia per le aspirazioni realizzate. In entrambi i casi l’io è chiuso in sé, ferito e rancoroso o soddisfatto e pieno di vigore.

Il grande dolore e la grande gioia spingono l’io verso il suo oltre. Nel grande dolore non è questa o quella aspirazione che viene frustrata, ma è la vita stessa, nella sua totalità, che si mostra impossibile. L’io vacilla, tutte le certezze che ci trattengono nel regno dei nomi e delle forme si fanno evanescenti: manca letteralmente la terra sotto ai piedi. Si brancola nel buio, persi nell’indistinto. Il mondo si fa sogno ed incubo, le cose intangibili, l’altro distante ed ostile. Non c’è via, non c’è salvezza. Tutto trema ed è pronto a disfarsi.

E’ quando questo disfacimento giunge a compimento che il grande dolore si apre alla grande gioia. Nella quale, pure, resta una traccia del dolore da cui proviene, del nulla da cui scaturisce e che l’informa di sé. E’ una gioia ebbra, materiata di lacrime e di abbandono, che ha la durezza del distacco e della decisione: un attimo prima di spegnersi nella pace.

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L'altro nell'io

IL PROBLEMA di Shinran: come è possibile, attraverso la pratica dell’io, sradicare l’illusione dell’io? Come può un io salvarsi dall’io?

La soluzione di Shinran è nell’abbandono ad Amida. E’ Amida che compie l’opera, è la forza dall’esterno che irrompe ed opera la conversione. La pratica lascia il posto alla fede.

Ma è, questa, una soluzione? Se l’io è io, e null’altro che io, sono possibili atti che non siano egoistici? Non sarà anche il voto ad Amida un atto egoistico? Può l’io affidarsi all’altro, restando io?

Il passo ulteriore è quello di considerare l’irrompere dell’altro assolutamente indipendente da qualsiasi atto dell’io, sia esso di carattere gnostico o devozionale. Dio, o Buddha Amida, o la Realtà irrompe oltre i limiti dell’io, lo apre, lo spacca: e lo salva. La salvezza è indipendente da qualsiasi atto; la grazia non ha a che fare con i meriti. All’uomo non resta nulla da fare. Anche porsi in attesa è un atto paradossale: può realmente un io porsi in attesa dell’irruzione che lo sgomina? Una tale attesa non può essere che insincera, se ogni atto dell’io è necessariamente egoistico.

Ma c’è un’altra possibilità, ed è quella di considerare diversamente l’io. Forse l’io non persegue solo scopi egoistici; forse c’è anche, nell’io, qualcosa d’altro, una luce nascosta nel buio, una urgenza che chiede altro; un elemento spirituale che spinge l’io oltre l’io. C’è, forse, una morte che abbraccia la vita dell’io, o una vita che abbraccia la morte che è l’io. E’ questo altro dall’io che è nell’io che si manifesta nella malinconia improvvisa, nel senso di spaesamento, nella disperazione, nel senso di disgrazia da cui nessuno, credo, è immune; e, forse, ha a che fare con il dolore che sempre accompagna la bellezza.

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L'altro nell'io

IL PROBLEMA di Shinran: come è possibile, attraverso la pratica dell’io, sradicare l’illusione dell’io? Come può un io salvarsi dall’io?
La soluzione di Shinran è nell’abbandono ad Amida. E’ Amida che compie l’opera, è la forza dall’esterno che irrompe ed opera la conversione. La pratica lascia il posto alla fede.
Ma è, questa, una soluzione? Se l’io è io, e null’altro che io, sono possibili atti che non siano egoistici? Non sarà anche il voto ad Amida un atto egoistico? Può l’io affidarsi all’altro, restando io?

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Due forme

DUE forme di dolore, due forme di gioia.
Il piccolo dolore e la piccola gioia appartengono all’io: sono la frustrazione per le aspirazioni insoddisfatte o la gioia per le aspirazioni realizzate. In entrambi i casi l’io è chiuso in sé, ferito e rancoroso o soddisfatto e pieno di vigore.
Il grande dolore e la grande gioia spingono l’io verso il suo oltre. Nel grande dolore non è questa o quella aspirazione che viene frustrata, ma è la vita stessa, nella sua totalità, che si mostra impossibile. L’io vacilla, tutte le certezze che ci trattengono nel regno dei nomi e delle forme si fanno evanescenti: manca letteralmente la terra sotto ai piedi. Si brancola nel buio, persi nell’indistinto. Il mondo si fa sogno ed incubo, le cose intangibili, l’altro distante ed ostile. Non c’è via, non c’è salvezza. Tutto trema ed è pronto a disfarsi.
E’ quando questo disfacimento giunge a compimento che il grande dolore si apre alla grande gioia. Nella quale, pure, resta una traccia del dolore da cui proviene, del nulla da cui scaturisce e che l’informa di sé. E’ una gioia ebbra, materiata di lacrime e di abbandono, che ha la durezza del distacco e della decisione: un attimo prima di spegnersi nella pace.

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Il paradigma dell'imbuto e il paradigma della situazione

Un paradigma ben consolidato in campo educativo è quello dell’imbuto. Che se ne sia consapevoli o meno, si pensa che il compito di chi educa sia quello di selezionare, tra i comportamenti dell’educando, gli unici che sono degni di restare, e di far in modo che gli altri scompaiano. All’inizio c’è un soggetto con una molteplicità di modi di essere, alla fine c’è un soggetto che è adatto ad entrare in società, che si è lasciato alle spalle ogni sgradevolezza. Tra l’inizio e la fine – tra la bocca larga dell’imbuto e la sua uscita stretta – c’è l’azione di modellamento dell’educazione, la cui essenza è quella di vietare alcune cose e di permetterne altre.

A causa della diffusione del paradigma dell’inbuto la situazione educativa è spesso, per chi la vive, una situazione di malessere. Nei posti in cui si fa intenzionalmente educazione – nelle scuole e nelle famiglie, prima di tutto – si sta più male che bene.

Alcuni degli scrittori maggiori del Novecento hanno demitizzato la famiglia, mettendo a nudo quel groviglio di ostilità, incomprensioni, ossessioni, piccineria borghese, violenza che è la quotidianità di molte famiglie; alcuni dei maggiori pedagogisti del secolo hanno invece demitizzato la scuola, evidenziando le dinamiche di dominio, la passivizzazione, le logiche di classe, la mancanza di vera conoscenza e di creatività. Il malessere degli studenti si esprime in forme diverse, ma ugualmente eclatanti: dai dolori psicosomatici dei bambini più piccoli fino agli atti vandalici degli adolescenti.
E’ diffusa la convinzione che questo star male, che paradossalmente caratterizza i luoghi dell’educazione, sia tuttavia necessario in vista del bene futuro. La convinzione da cui muove questo studio si situa esattamente all’opposto. La situazione educativa è tale, come vedremo, solo se consente al soggetto di sperimentare una forma di benessere e di pienezza; ogni situazione di disagio e malessere è diseducativa.
Il paradigma dell’imbuto porta in primo piano domande come: quando è lecito dire di no ai propri figli? Cosa bisogna consentire e cosa vietare? E’ il problema di come far sì che l’educando, una volta entrato nell’imbuto, si riduca progressivamente fino ad uscire dall’altra parte ed a riversarsi nel recipiente della società. Molti genitori sinceramente preoccupati dell’educazione dei loro figli pensano che sia importante saper dire di no, evitare di assecondarli costantemente e di non frustrarli, saper porre loro limiti e divieti. Quello educativo è il rapporto tra un soggetto che va limitato ed un altro che deve limitarlo; e questa limitazione, questa progressiva selezione dei comportamenti è l’educazione.
Non è difficile accorgersi che il paradigma dell’imbuto è fondato sul disconoscimento di quello che il bambino è. L’educazione è erudizione nel suo senso peggiore. Il bambino è rude, rozzo, incivile, e l’educazione è dirozzamento, raffinamento, eliminazione delle scorie e del superfluo. Il processo è unidirezionale: l’educatore non ha nulla da imparare dal bambino, è al di qua del suo mondo, è un rappresentante della società e delle sue richieste. La socializzazione è il fine dell’educazione secondo il paradigma dell’imbuto; la scolarizzazione uno dei suoi mezzi più efficaci. Scolarizzare vuol dire adattare un soggetto alle richieste di una istituzione totale. Abituato al movimento libero ed alla libera parola, a scuola il bambino impara a stare seduto per cinque ore ed a parlare solo quando vuole l’insegnante; il suo dare del tu a tutti lascia il posto ad un rispettoso lei, offerto a chi rappresenta l’autorità pedagogica; la possibilità di seguire i propri interessi cede il passo allo studio imposto di cose che gli risultano per lo più indifferenti. Il paradigma dell’imbuto giustifica qualsiasi situazione in vista del risultato finale. Esso impedisce di porsi altre domande, che dovrebbero invece essere al centro della riflessione dell’educazione. Il genitore che si chiede: quando e come devo dire di no a mio figlio?, potrebbe e dovrebbe invece chiedersi: quali cose belle posso fare insieme a mio figlio? E’ tutto qui il passaggio dal paradigma dell’imbuto al paradigma della situazione. L’insegnante che programma la propria azione educativa, che mette per iscritto che tipo di persona vuole che i suoi studenti diventino, potrebbe e dovrebbe riflettere invece su quale tipo di situazione vuole che vi sia nella classe. Quanta serenità c’è a scuola? Quanta gioia? Quanta curiosità? Quanta creatività? Quanta ricerca? La scuola è un luogo in cui si sta con piacere, in cui gli studenti vorrebbero andare anche se non fossero costretti? Fare in modo che lo sia dovrebbe essere l’unica preoccupazione degli insegnanti, e l’analisi della situazione e la riflessione su come cambiarla dovrebbe prendere il posto dell’astratta programmazione.
Secondo il paradigma dell’imbuto l’educazione è una questione di contrazione, di selezione, di limitazione. Secondo il paradigma della situazione, al contrario, l’educazione ha a che fare con l’espansione, con l’ampiamento dell’esperienza: è vita nel senso più pieno. L’educazione, scriveva Dewey ne Il mio credo pedagogico, «è vita, e non preparazione alla vita». La vita è ciò che accade qui ed ora; la vita è situazione. In quali situazioni la vita si esprime nella sua pienezza? E’ questo il problema educativo fondamentale. Le situazioni nelle quali la vita è piena sono le situazioni nelle quali l’educazione accade; ed educare non è altro che creare le condizioni perché si realizzino queste situazioni.

[Da uno studio in preparazione.]

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