Gianfranco Zavalloni, maestro
Gianfranco
Zavalloni, scomparso a soli cinquantaquattro anni per un male
incurabile lo scorso mese di agosto, è stato uno dei più validi
educatori del nostro paese. Dirigente scolastico, ma soprattutto
maestro di scuola materna; e ancora: disegnatore, calligrafo, attore,
creatore di burattini, animatore dell'Ecoistituto di Cesena,
straordinario sperimentatore delle vie di una educazione nonviolenta,
ecologica, creativa. Mentre la scuola si avvia a diventare digitale
(pur con le solite contraddizioni del nostro paese: si montano le
lavagne elettroniche in aule fatiscenti, in edifici che spesso non
rispettano i più elementari criteri di sicurezza), Zavalloni ha
praticato e teorizzato una scuola
analogica: lenta, non competitiva, alla riscoperta della manualità e del
contatto con la terra.
In
una comunicazione mandata ad un convegno al quale non aveva potuto
partecipare raccontava così,
con la sua straordinaria umanità, la sua malattia:
Amo le fiabe, amo i burattini. Nei 33 anni di esperienza da educatore, maestro e dirigente scolastico la passione per fiabe e burattini è stata una costante. E anche oggi, dall'alto di un boccascena del teatro dei burattini, se chiedessi a bimbi e bimbe qual è la storia che desiderano vedere, il 99% delle risposte (ne sono sicuro) sarebbe «Cappuccetto Rosso!!». Evidentemente c'è qualcosa di universale. C'è un momento della fiaba (nella mia versione burattinesca) che mi affascina particolarmente.È il momento in cui il lupo, dopo aver divorato la nonna e cappuccetto rosso, si concede un meritato riposo. A quel punto il cacciatore, dopo aver aperto la pancia al lupo e fatte uscire le malcapitate, con l'aiuto dei bambini riempie di sassi la pancia del lupo per poi ricucirla. Al risveglio il lupo, con la pancia appesantita dai sassi, viene investito dal vociare dei bambini che gli evidenziano la realtà: la pancia è piena di sassi. Ma lui non crede a queste «frottole» e pensa che sia una semplice indigestione, pesantezza di carne umana, ingerita voracemente senza masticare.
Ebbene quel lupo, il 18 ottobre scorso, improvvisamente, ero io.Pensando ad una possibile indigestione, dopo una notte passata con un doloroso mal di pancia, mi sono recato ad uno dei pronto soccorso di Belo Horizonte. E dopo diverse ore, con la pancia piena d'acqua per favorire l'esame, mi sono sottoposto ad una ecografia. L'esito è stato immediato: qui ci sono un po' di sassi da togliere, ha sentenziato il medico chirurgo. Così, come il lupo contesta i bimbi e le bimbe rispondendo lor o «...non è vero, non è vero, state scherzando, mi prendete in giro!!», così anch'io non volevo crederci. E dentro di me pensavo: «si sono sbagliati, la diagnosi è inesatta!». Ma la realtà a volte è cruda. Dopo poco più di un mese, il 2 dicembre, sono entrato (come il lupo poi entra nel pozzo per bere) in una sala operatoria dell'Ospedale S. Orsola di Bologna. Tre chirurghi e una schiera di collaboratori hanno lavorato per 9 ore e mezza per togliere dalla mia pancia tutti i sassi grossi (un rene, il surrene, una enorme massa tumorale, un trombo formatosi nella vena cava...). Sono restati tanti piccoli sassolini sparsi qua e là. Ma questa è già la storia di Pollicino oppure quella di Hansel e Gretel.
La
morte è uno dei temi de La
pedagogia della lumaca,
l'opera più importante di Zavalloni: ed è una cosa che può
sorprendere, in un libro che è una esaltazione della gioia di
educare, che viene dalla gioia di vivere, solo se non si considerano
le sue origini contadine, anzi il suo esser rimasto fino alla fine un
uomo della campagna. Per la civiltà contadina la morte non è una
minaccia da allontanare per affermare la vita, ma è un momento della
vita stessa, fa parte della natura e dei suoi cicli. Zavalloni
ricordava con approvazione la proposta di Hundertwasser, il grande
pittore, architetto ed ecologista austriaco, di seppellire i defunti
sotto ad un albero, che crescendo si nutra di essi, facendoli vivere
in sé. E' l'unica sepoltura che rispetta fino in fondo la legge
della natura, che vuole che tutti gli esseri siano alimenti per altre
vite.
Non
so se la sua sepoltura sia avvenuta in questo modo; mi sembra
improbabile. Ma in molti modi chi non è più può continuare ad
essere nutrimento. Nel caso di Zavalloni, restano le sue opere, il
suo esempio, le sue molteplici iniziative. L'albero è stato
piantato, ed è saldo.
Oltre
alle origini contadine, hanno contribuito a formare l'uomo e
l'educatore Zavalloni le assidue letture della giovinezza. Accanto a
don Milani troviamo gli anarchici Bernardi e Ivan Illich e il
discepolo di Gandhi Lanza del Vasto, oltre a Fromm, a Schumacher ed
al giornalista e scrittore Massimo Fini. Su tutti però prevale
ancora un anarchico: l'urbanista Carlo Doglio, vicino al movimento di
Comunità di Olivetti ma anche a Danilo Dolci. Doglio è per
Zavalloni un maestro in senso pieno: è stato non solo il suo docente
di Pianificazione territoriale a Bologna, ma anche il relatore della
sua tesi. Alla fine di una commossa rievocazione, Zavalloni scrive:
“E' vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da
percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante
strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti” (Zavalloni 2010a,
106).
La
strada sulla quale si è inoltrato l'educatore Zavalloni è, come
accennato, una strada che va in direzione opposta a quella percorsa
oggi dai più. Un piccolo sentiero di campagna, si direbbe, poco
praticato ma pieno di sorprese per chi vi si inoltra. E' il sentiero
di una pedagogia consapevole delle molte violenze che possono essere
giustificate in nome dell'educazione. L'elogio della lentezza non è
un vezzo, ma nasce dal semplice rispetto dei soggetti, che è in
fondamento stesso dell'educazione. In educazione non è possibile
correre e rispettare al contempo la personalità degli educandi;
correre vuol dire fare pessima educazione, o non fare affatto
educazione. Ma noi siamo in una civiltà della corsa. Non dovrà
l'educazione adeguarsi? Se si concepisce l'educazione come semplice
socializzazione, portare l'educando allo stato attuale della società,
senz'altro. Ma gli scopi dell'educazione sono, per Zavalloni, più
complessi. L'educazione è, anche, riflessione critica sulla società
e ricerca di una società migliore, come spiegava don Milani ai
giudici. Non è possibile, oggi più che mai, fare educazione senza
fermarsi a riflettere sulla società attuale, senza chiedersi dove ci
sta portando la strada che abbiamo imboccato con la rivoluzione
industriale. Zavalloni è tra quelli che ritengono che sia necessaria
una svolta, che la civiltà industriale e capitalistica, con la sua
ansia produttivistica, ci abbia condotti in un vicolo cieco, dal
quale sarà possibile uscire soltanto ripensando criticamente i
fondamenti culturali e psicologici del mondo attuale.
La
scuola può muoversi tra due poli: quello del soggetto e quello del
sistema. Può, cioè, occuparsi dello sviluppo delle persone che le
sono affidate, lavorare perché crescano in più dimensioni in un
ambiente sereno, oppure preoccuparsi di adattarli a vivere in
società, facendo accettare loro i valori dominanti, affinché la
società stessa mantenersi salda e perpetuarsi. In teoria, la scuola
italiana (ed occidentale) non sceglie uno dei due poli, ma rispetta
entrambe le istanze: è una scuola al tempo stesso per la persona e
per il sistema, che educa alla formazione piena della personalità ma
non trascura la socializzazione e l'inserimento nel mondo del lavoro.
In realtà, in una società capitalistica è semplicemente
impossibile tenere insieme le due cose. Occuparsi in modo reale, e
non solo retorico, dello sviluppo personale, vuol dire giungere a
mettere in discussione l'assetto sociale e soprattutto economico. Non
è difficile accorgersi che la scuola italiana ha scelto di fatto il
polo della società. E' una scuola che educa al capitalismo, vale a
dire all'individualismo, alla competizione, alla quantificazione,
alla considerazione della stessa cultura ed educazione come una merce
da spendere sul mercato. Non si spiegherebbero altrimenti cose che
sembrano far parte in modo naturale della scuola, e che invece sono
il risultato di una scelta. Tale è, ad esempio, il voto, che fin
dalla scuola primaria separa i bambini gli uni dagli altri, li divide
in bravi e meno bravi e li contrappone, in una sorta di insensata
gara educativa. Tale è lo stesso setting dell'aula, con i banchi
separati in file parallele, in modo che gli studenti possano
comunicare tra di loro il meno possibile.
Da
dirigente scolastico, Zavalloni è stato un uomo inserito in questo
sistema. Ma ha anche mostrato come è possibile aprirlo dall'interno,
inserire in esso logiche nuove, approfittando di ogni spiraglio. Così
per i voti. Dal momento in cui vengono introdotto i voti, osserva,
accadono due cose: i bambini fanno le cose non più per piacere, ma
per il voto, e nasce la competizione. Ma non è proprio possibile
abolirli? La sua risposta è sì. Non si parla, in fondo, di scuola
dell'autononomia? E a cosa serve, l'autonomia, se non a fare scelte
autonome, anche coraggiose? E' ben possibile, nella scuola
dell'obbligo, “provare strategie di cooperazione didattica e di
tutoraggio che possono far scomparire, ad esempio, il fenomeno della
concorrenza
e della competizione”
(Zavalloni 2010a, 67). Un cambiamento che richiederebbe anche la
scomparsa di termini ed espressioni che sono entrati nel linguaggio
scolastico provenendo dal mondo dell'economia, come quello di
“profitto scolastico”. Cosa vuol dire studiare “con profitto”?
Perché non si parla, piuttosto, di “piacere scolastico”? Non
avrebbe più senso? Fin dalla scuola primaria i bambini sono, nella
percezione dei loro insegnanti, dei piccoli risparmiatori che da
subito devono cominciare ad accumulare, per godere poi da adulti di
un discreto capitale. Se si considera poi la prassi di assegnare
compiti a casa, viene da pensare che questo percorso di accumulo
capitalistico dello pseudo-sapere scolastico e del riconoscimento
sociale debba essere anche, per scelta deliberata, un percorso ad
ostacoli: come se si cercasse di rendere la vita dello studente il
più possibile spiacevole e dura, al fine di eliminare del tutto il
piacere ed il desiderio. Per Zavalloni i compiti andrebbero aboliti
durante le vacanza (e ai suoi maestri manda una lettera che suona
come avvertimento: se si ostineranno a dar compiti agli studenti,
sappiano che ci sono “alcuni lavori che possiamo fare benissimo
insieme nel periodo delle vacanze pasquali”: Zavalloni 2010a, 85),
ma soprattutto vanno ripensati. Gli esercizi ripetitivi possono
essere fatti in classe (lì dove, occorre notare, lo studente potrà
essere seguito – come è giusto che sia – dall'insegnante, senza
che nello svolgimento dei compiti pesi dunque il fatto di avere
genitori con la laurea o con la licenza elementare); per casa, si
possono assegnare attività interessanti, piacevoli e soprattutto
creative, che lo studente faccia senza avvertire alcun peso. Quanto
al setting dell'aula, come dirigente scolastico Zavalloni aveva
richiesto banchi e sedie rispettosi al tempo stesso degli studenti e
della natura. E dunque: sedie e banchi ergonomici in legno massello,
con i banchi progettati in modo da poter essere uniti per formare un
tavolo unico. Poiché banchi e sedie simili non erano in commercio,
sono stati appositamente progettati e prodotti da una azienda locale:
un esempio di come sia possibile ripensare la scuola dal basso anche
strutturalmente, invece di rassegnarsi all'insensato setting
tradizionale.
La
scuola capitalistica è la scuola della classe borghese. E', notava
Zavalloni, la scuola nella quale i figli dei contadini si vergognano
di essere tali, e cercano di nascondere la loro origine. Lo stesso si
potrebbe dire dei figli degli operai. Lo studente modello, quello che
otterrà più facilmente il “profitto scolastico”, è il figlio
del libero professionista, dell'avvocato o dell'ingegnere: ancora il
Pierino di cui parlava don Milani. A scuola si studia: non si lavora.
Bisogna usare la testa per diventare intellettuali, non le mani.
L'agricoltura e l'artigianato non hanno, per chi ha pensato la nostra
scuola pubblica, alcun valore formativo. Alla scuola primaria si
potranno usare le mani per fare “lavoretti”, ma lavori veri e
propri no. Lavorare il legno, lavorare la creta, lavorare la terra:
tutto ciò è troppo concreto, troppo materiale per la scuola
italiana.
Il
contadino-educatore Zavalloni è stato tra gli ispiratori del
progetto degli orti
di pace,
espressione che ribalta quella di
orti
di guerra,
gli orti improvvisati che si diffusero nelle città durante la guerra
per rispondere ai bisogni alimentari della popolazione. La diffusione
della scuola di massa, in Italia, ha coinciso con la fine della
civiltà contadina e l'avvio di un processo di omologazione culturale
che ha progressivamente smussato le differenze culturali tra classi
sociali, imponendo il modello borghese. Oggi non esiste più, in
Italia, qualcosa come una “cultura contadina”. Chi ancora vive
del lavoro con la terra quasi se ne vergogna. Zavalloni ricorda che
quando, entrando in una classe, chiedeva quanti studenti erano figli
di contadini, si alzavano pochissime mani; quando poi raccontava di
essere lui stesso figlio di contadini, e spiegava l'importanza del
mondo agricolo, le mani alzate aumentavano (Zavalloni 2010b, 11). Il
progetto, che intende portare nelle scuole gli orti ed il lavoro
della terra, dimostra come l'innovazione nella scuola non debba
passare necessariamente attraverso la tecnologia. Lavorare la terra,
per dei bambini di città, vuol dire recuperare abilità manuali,
sviluppare l'osservazione, fare esperienze utili anche per la
crescita delle conoscenze e della riflessione. Ma soprattutto, notava
Zavalloni, significa “attenzione ai tempi dell'attesa, pazienza,
maturazione di capacità previsionali” (Zavalloni 2010b, 24). Vuol
dire imparare a fermarsi e ad aspettare: in una parola, a rispettare.
E forse nulla è più urgente da imparare, per i bambini e per gli
adulti che insegnano ai bambini.
Mi
hanno sempre colpito molto i disegni di Zavalloni. Sono, a ben
vedere, i disegni che potrebbe fare un bambino con la consapevolezza
tecnica di un adulto. Nei disegni c'è tutta la spiritualità di
Zavalloni, il suo amore per le cose essenziali, la sua fantasia, la
poesia, l'amore per l'infanzia – anzi, la capacità di vivere, di
stare nell'infanzia anche nell'età adulta. Ogni educazione autentica
è al tempo stesso un educarsi; ogni rapporto educativo è
bidirezionale e reciproco. Chi educa viene educato nell'atto stesso
di educare. Questa verità semplice – che molti negano quasi con
sdegno, perché mette in discussione i rapporti di dominio in campo
educativo – è stata vissuta quotidianamente da Zavalloni ed era,
probabilmente, il suo segreto. Educava i bambini, ma al tempo stesso
era a scuola da loro: e questo gli ha permesso di non smarrire mai il
rapporto con la poesia, la bellezza e la verità.
Bibliografia
Zavalloni
G. (2010a),
La
pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta,
EMI, Bologna. Seconda edizione.
Zavalloni
G. (2010b), A
scuola dai contadini
,
in Aa. Vv., Orti
di pace. Il lavoro della terra come via educativa,
a cura di G. Zavalloni, EMI, Bologna 2010.