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blog di antonio vigilante

Rumi, Freud e Neruda

Il Mathnawi di Rumi si apre con la storia di un re che acquista una giovane schiava di cui è innamorato. La ragazza però si ammala, e per guarirla il re chiama i migliori medici: ma nulla. Prega allora Dio, che in sogno gli annuncia che l’indomani arriverà un medico speciale, mandato da lui. E l’uomo arriva, visita la schiava e dichiara che tutte le cure sono state inutili, per una ragione particolare:

بی‌‌خبر بودند از حال درون ** أستعیذ الله مما یفترون‌‌
Non conoscevano lo stato interno. Io cerco rifugio in Dio contro ciò che essi inventano. [Traduzione qui ed oltre di Gabriele Mandel; testo persiano qui.]

E questo medico speciale, diverso dagli altri, comincia la sua cura. Chiede al re di lasciarlo solo con la ragazza, poi la fa parlare, tenendole il polso. La fa parlare della sua nascita, della sua famiglia, della sua città. Il suo obiettivo è cercare la spina nel suo cuore:

خار در دل گر بدیدی هر خسی ** دست کی بودی غمان را بر کسی‌‌
Se ogni misero essere potesse vedere la spina nel cuore, quando mai i dolori riuscirebbero a trionfare sulla gente?

Le tiene il polso per una ragione: quando, nel corso del suo racconto, la ragazza avrà trovato la spina, l’origine del suo dolore, il medico lo capirà dal fremere del suo polso.

Il resto del racconto ha un senso mistico ed esoterico, ma in questo poema, composto una cinquantina d’anni prima della Divina Commedia, troviamo l’intuizione della terapia psicoanalitica. E un verso, ancora, che alle nostre orecchie suona parecchio familiare:

شاد باش و فارغ و ایمن که من ** آن کنم با تو که باران با چمن‌‌
Sta’ felice e spensierata, non temere di nulla, poiché io farò per te quello che la pioggia fa per il prato.

E’ il Neruda di Juegas todos los dias:

Quiero hacer contigo lo que la primavera hace con los cerezos.
Voglio fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Quello che il medico divino fa con la schiava – quello che la pioggia fa al prato – appare ai nostri occhi terribilmente crudele. Ma Rumi avverte:

تو قیاس از خویش می‌‌گیری و لیک ** دور دور افتاده‌‌ای بنگر تو نیک‌‌
Tu giudichi in base a te stesso; ma sei ben lontano. Riflettici bene!

Ci sono primavere dolorose, e ciliegi che, al momento della fioritura, sembrano feriti a morte.

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Rumi, Freud e Neruda

Manoscritto del Mathnawi, 1478.
Il Mathnawi di Rumi si apre con la storia di un re che acquista una giovane schiava di cui è innamorato. La ragazza però si ammala, e per guarirla il re chiama i migliori medici: ma nulla. Prega allora Dio, che in sogno gli annuncia che l'indomani arriverà un medico speciale, mandato da lui. E l'uomo arriva, visita la schiava e dichiara che tutte le cure sono state inutili, per una ragione particolare:
بی‌‌خبر بودند از حال درون ** أستعیذ الله مما یفترون‌‌
Non conoscevano lo stato interno. Io cerco rifugio in Dio contro ciò che essi inventano. [Traduzione qui ed oltre di Gabriele Mandel; testo persiano qui.]
E questo medico speciale, diverso dagli altri, comincia la sua cura. Chiede al re di lasciarlo solo con la ragazza, poi la fa parlare, tenendole il polso.  La fa parlare della sua nascita, della sua famiglia, della sua città. Il suo obiettivo è cercare la spina nel suo cuore:

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Antispecisti: nuova specie o nuova setta?

Sono diventato vegetariano nei lontani anni Ottanta, quando di anni ne avevo sedici o diciassette, e nessuno in Italia aveva la minima idea di cosa fossero seitan e tofu. Sono diventato vegetariano per una repulsione verso la violenza sugli animali alimentata dall’aver assistito all’uccisione di maiali e pecore nelle masserie del Gargano, ma è stato decisivo un fattore che era importante per il vegetarianesimo nell’antichità, e che ora sembra scomparso del tutto o quasi: l’ascetismo. In quegli anni studiavo la filosofia indiana, una scoperta decisiva per la mia formazione, e mi ero convinto che fosse necessario, per la mia crescita spirituale, un certo controllo del corpo e delle sue passioni; il vegetarianesimo serviva anche a questo. Confesso che c’era però anche dell’altro, nel mio essere vegetariano in quella prima fase adolescenziale. C’era un certo piacere di distinguermi dalla massa, di affermare la mia singolarità, perfino la mia stranezza, che evidentemente era un momento della mia formazione – autoformazione – individuale.
Mi è tornato in mente quest’ultimo aspetto del mio vegetarianesimo adolescenziale leggendo l’ultimo libro di Leonardo Caffo, giovane filosofo che è tra i punti di riferimento del movimento antispecista italiano: Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi). Per Leonardo Caffo l’antispecismo è una posizione che ha fondamenta solide, difficili da contrastare: “non esistono buone ragioni per il massacro quotidiano di milioni di animali. O almeno, non ne esistono più” (p. 10). Ha ragione. Sul piano razionale, la partita è presto vinta. L’alimentazione dominante nei paesi ricchi è un assurdo etico, ecologico, economico e perfino sanitario. Ma l’essere umano non segue che parzialmente la ragione. Per lo più, il comportamento è il risultato di stimoli che non sono razionali. Ed ecco dunque che l’antispecista, ossia quell’essere umano che cerca di uscire dall’antropocentrismo e considerare il punto di vista dell’animale, si trova ad essere isolato. Raro, dice Caffo (p. 19). Il quale spinge questa singolarità fino a parlare di postumanità ed annunciare “l’alba di una nuova specie” (p. 61). Chi continua a mangiare carne, anteponendo il sapore della cotoletta al rispetto etico della vita non umana, non è solo un soggetto moralmente condannabile. E’ il rappresentante di una umanità che sta per essere superata, la zavorra della specie. Il vegano invece è l’avanguardia della nuova umanità, l’umano che ha conquistato una visione etica superiore, e che per questo non può che distaccarsi dal resto della specie.
In un libro dal titolo simpatico, Il maiale non fa la rivoluzione (Sonda 2013), Caffo, in polemica soprattutto con le istanze politiche dell’antispecismo di Marco Maurizi, aveva avanzato le ragioni di un antispecismo debole, che non associa la causa animale ad altre cause politiche, considerando la lotta per la liberazione animale un momento di una più ampia lotta per la liberazione degli oppressi dal sistema capitalistico, affermando che quella dell’antispecismo “è una lotta non per l’uomo o anche per l’uomo, – ma solo e soltanto per gli animali non umani”. Pur ribadendo il suo antispecismo debole, Caffo si rende ora conto che “il capitalismo è il modo attraverso cui Homo sapiens ha espresso l’antropocentrismo ai danni del pianeta e della diversità” (p,69), per cui l’antispecismo non può che essere anche anticapitalistico: che è come dire che, piaccia o meno, il maiale dovrà farla, la rivoluzione – o almeno dovrà farla qualcuno al suo posto.
Ma come fare la rivoluzione? Il capitalismo è un sistema che si caratterizza per la sua straordinaria plasticità: riesce a trarre vantaggio anche dai suoi oppositori, che se hanno successo hanno anche un mercato. Il capitalismo diversifica l’offerta di beni e servizi: a qualcuno vende la maglia firmata, ad altri la maglia con il volto del Che. Ed ai vegani i prodotti per vegani. La dieta vegana è una tra le tante alternative offerte dal sistema per adeguarsi alla diffusa ideologia del benessere psicofisico: insieme allo yoga, la mindfulness e un bel po’ di roba “olistica”. E’ comprensibile un certo nervosismo di chi è vegano nei confronti di questa appropriazione consumistica di una scelta etica. Probabilmente le conclusioni del libro di Caffo sono il risultato di questo nervosismo. Perché Caffo non dice solo che gli antispecisti rappresentano l’avanguardia di una nuova specie, ma butta giù un progetto per “gestire la speciazione” che è una sorta di vademecum per il postumano vegano, sia pure sotto forma di “esperimento mentale”. Poniamo di essere parte di questa nuova specie. “Come gestiamo questo privilegio?” (p. 92). La risposta è: riunirsi in microcomunità isolate, in sintonia la natura, che seguono uno stile di vita monastico. E così Caffo, che non voleva fare la rivoluzione, né farla fare al maiale, ci conduce nel bel mezzo della controcultura anarco-pacifista, sotto il segno di Thoreau.
Gli ingredienti ci sono tutti. No, non per cambiare il capitalismo, né, purtroppo, per liberare gli animali dallo sfruttamento e dalla riduzione a cose del consumismo. Ci sono tutti gli elementi per creare una setta: la convinzione di essere speciali, diversi, moralmente e spiritualmente superiori agli altri, avanguardia di un nuovo mondo. E’ una cosa che può far sorridere, e che si è tentati di liquidare come antispecismo adolescenziale (l’antispecismo di chi ha bisogno soprattutto di crearsi una identità antagonista), ma non posso fare a meno di considerare, anche, che ricacciare l’altro in una specie inferiore è la premessa di qualsiasi forma di violenza nei suoi confronti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di un antispecista.
Nell’immagine: foto di Timo Stammberger

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 20 dicembre 2017.

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Antispecisti: nuova specie o nuova setta?


Sono diventato vegetariano nei lontani anni Ottanta, quando di anni ne avevo sedici o diciassette, e nessuno in Italia aveva la minima idea di cosa fossero seitan e tofu. Sono diventato vegetariano per una repulsione verso la violenza sugli animali alimentata dall'aver assistito all'uccisione di maiali e pecore nelle masserie del Gargano, ma è stato decisivo un fattore che era importante per il vegetarianesimo nell'antichità, e che ora sembra scomparso del tutto o quasi: l'ascetismo. In quegli anni studiavo la filosofia indiana, una scoperta decisiva per la mia formazione, e mi ero convinto che fosse necessario, per la mia crescita spirituale, un certo controllo del corpo e delle sue passioni; il vegetarianesimo serviva anche a questo. Confesso che c'era però anche dell'altro, nel mio essere vegetariano in quella prima fase adolescenziale. C'era un certo piacere di distinguermi dalla massa, di affermare la mia singolarità, perfino la mia stranezza, che evidentemente era un momento della mia formazione - autoformazione - individuale.

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Dare senso all'Alternanza Scuola Lavoro

L’Alternanza Scuola Lavoro è una strategia chiave nel piano del Ministero per fare della scuola italiana, già ampiamente aziendalizzata, lo strumento per la formazione delle giovani generazioni ai valori del neoliberismo ed abituarle fin da subito al lavoro precario e sottopagato. Essa, peraltro, toglie tempo prezioso allo studio serio, sostituito con attività prive di qualsiasi valore formativo, come fare le fotocopie o consegnare panini al McDonald’s. E’ questo, in sintesi, la critica corrente all’Alternanza Scuola Lavoro. Non voglio, qui, replicare a questa interpretazione, che ha qualcosa di vero, ma anche molto di falso. Mi interessa mostrare piuttosto in che modo l’Alternanza Scuola Lavoro, comunque la si consideri, possa diventare una pratica estremamente formativa per i nostri studenti.

Se provate a chiedere ad un adolescente quali sono i suoi valori, è molto probabile che vi risponda che il suo valore principale è la famiglia; seguiranno, poi, gli amici, l’amore e poco altro. Può essere che l’ordine cambi, ma la famiglia si confermerà nove volte su dieci uno dei valori fondamentali. E’ una cosa un po’ sorprendente per chi è stato adolescente in anni in cui ribellarsi alla famiglia era un passaggio fondamentale per diventare adulti, ma non sembra una cattiva cosa. Se però si discute con loro di questi valori, viene fuori dell’altro. Viene fuori che la famiglia è un valore perché rappresenta il nido protettivo, sicuro, l’unico contesto in cui è possibile avere davvero fiducia in qualcuno, mentre fuori dalla famiglia non è così. Alla positività della famiglia corrisponde la negatività della società. Se si pone agli adolescenti una qualsiasi questione politica – nel senso più pieno e autentico: come si può affrontare questo problema sociale? come si può cambiare? – ci si trova spesso di fronte ad un muro di scetticismo, spesso perfino cinismo. Le cose non possono cambiare, è sempre stato così e sempre sarà così, e amen. E’ la nota impoliticità delle nuove generazioni, esito di una pluridecennale azione di distrazione mediatica, con la quale il giovane ribelle degli anni Settanta è stato trasformato nell’adolescente spettatore di oggi, ottimo consumatore dei prodotti dell’industria del divertimento.
E’ evidente che si tratta di un problema urgente, di cui la scuola non può non farsi carico, così come è evidente che anni di educazione civica non sono stati sufficienti, così come non basta il più recente insegnamento di Cittadinanza e Costituzione. Che fare?
Una pratica diffusa ormai in tutto il mondo è il Service Learning. La sua origine è negli Stati Uniti, dove molto deve alla prospettiva pedagogica di John Dewey, ma anche all’impegno sociale di Jane Addams, che nel 1889 fondò presso Chicago la Hull House, un centro per l’educazione sociale degli immigrati, soprattutto italiani. Nei paesi sudamericani si chiama Aprendizaje Servicio Solidario (apprendimento servizio solidale) e risente soprattutto dell’insegnamento di Paulo Freire, il teorico della pedagogia degli oppressi, che ha dedicato la vita al riscatto delle classi popolari attraverso l’educazione, in Sudamerica, Africa ed anche nel nostro paese (collaborò in Sicilia con Danilo Dolci nella scuola sperimentale di Mirto).
L’idea del Service Learning è semplice: l’apprendimento scolastico dev’essere collegato a qualche forma di servizio offerto alla comunità. Gli studenti individuano un problema della propria comunità (ma si può scegliere anche una comunità lontana), elaborano una ipotesi di contributo, studiano il problema attraverso le loro normali discipline e infine escono da scuola per realizzare il loro progetto. Ad esempio, un Liceo artistico può impegnarsi per la riqualificazione di un quartiere degradato della città. Dopo aver ascoltato l’assessore all’urbanistica, si può ipotizzare un intervento che preveda l’uso dell’arte per il miglioramento estetico degli edifici fatiscenti. Discussa l’idea con i residenti del quartiere, gli studenti approfondiscono il problema teoricamente, considerando esperienze simili (ad esempio la riqualificazione di Tirana al tempo del sindaco Edi Rama, ma anche il lavoro di Francesco Del Casino ad Orgosolo), quindi passano alla fase operativa. Lo studio diventa progetto, e gli studenti sperimentano concretamente il contributo che possono dare alla società, il valore e la soddisfazione dell’impegno, l’importanza di progettare insieme ad altri: il senso autentico della politica.
Si dirà: ma si tratta di un modo di fare Alternanza che va contro le intenzioni del Ministero. Non è proprio così. Con il nome di Dentro/Fuori la scuola il Service Learning è presente tra le sperimentazioni sostenute dal movimento Avanguardie Educative dell’Indire, l’Istituto del Miur che si occupa della ricerca e dell’innovazione educativa . In accordo con il Ministero del Lavoro, il Miur ha poi avviato il progetto Get Up (Giovani ed esperienze trasformative di Utilità sociale e partecipazione), che intende formare gli studenti ad “essere autonomi e responsabili nei confronti della loro comunità”, e che propone sul piano metodologico le Cooperative Scolastiche ed il Service Learning. E, poiché pare che non si riesca ad uscire dalla logica della competizione nemmeno quando si parla di cooperazione e solidarietà, il prossimo anno si terranno le Olimpiadi del Service Learning.
Le prime sperimentazioni, nel nostro paese, sono state avviate lo scorso anno scolastico, anche se non mancano esperienze degli anni passati che possono essere considerate forme di Service Learning (penso al progetto La scuola adotta un monumento, nato a Napoli già nel 1992). E’ opportuno cercare ad una via italiana al Service Learning, che possiamo chiamare senz’altro Apprendimento Servizio (o, se preferiamo la forma sudamericana, Apprendimento Servizio Solidale), pensandolo alla luce della nostra tradizione pedagogica, che con don Milani, Aldo Capitini, Danilo Dolci e molti altri ha dato contributi notevolissimi alla riflessione sui rapporti tra educazione ed impegno sociale e politico.

Nell’immagine: Jane Addams incontra un gruppo di bambini che visitano la Hull House, Chicago 1935. Fonte: www.history.com

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 19 dicembre 2017.

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Dare senso all'Alternanza Scuola Lavoro

L'Alternanza Scuola Lavoro è una strategia chiave nel piano del Ministero per fare della scuola italiana, già ampiamente aziendalizzata, lo strumento per la formazione delle giovani generazioni ai valori del neoliberismo ed abituarle fin da subito al lavoro precario e sottopagato. Essa, peraltro, toglie tempo prezioso allo studio serio, sostituito con attività prive di qualsiasi valore formativo, come fare le fotocopie o consegnare panini al McDonald's. E' questo, in sintesi, la critica corrente all'Alternanza Scuola Lavoro. Non voglio, qui, replicare a questa interpretazione, che ha qualcosa di vero, ma anche molto di falso. Mi interessa mostrare piuttosto in che modo l'Alternanza Scuola Lavoro, comunque la si consideri, possa diventare una pratica estremamente formativa per i nostri studenti.

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In piedi quando entra il docente?

Se fosse vero che, come dice il Corriere della Sera, “la maggioranza dei professori è d’accordo”, sarebbe davvero preoccupante. Ma è già abbastanza preoccupante che a quasi centocinquant’anni dalla nascita di Maria Montessori, e nel suo paese (che tuttavia non l’ha mai amata troppo), si discuta di questo. Il tema è: alzarsi in piedi all’ingresso dei docenti. Se ne discute, sulle colonne del Corriere, partendo dal cestino lanciato contro una prof in una scuola: che è come discutere di giornalismo partendo da Vittorio Feltri. Del resto, la rappresentazione degli adolescenti come orde di scalmanati, restii ad ogni tentativi di incivilimento, con il cervello in pappa per troppo uso di Internet e telefonini, è il punto di partenza di una parte significativa dei ragionamenti attuali sulla scuola e l’educazione. Una rappresentazione denigratoria delle nuove generazioni che è vecchia quanto il mondo, ma è assolutamente inutile farlo notare.

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In piedi quando entra il docente?

Se fosse vero che, come dice il Corriere della Sera, "la maggioranza dei professori è d'accordo", sarebbe davvero preoccupante. Ma è già abbastanza preoccupante che a quasi centocinquant'anni dalla nascita di Maria Montessori, e nel suo paese (che tuttavia non l'ha mai amata troppo), si discuta di questo. Il tema è: alzarsi in piedi all'ingresso dei docenti. Se ne discute, sulle colonne del Corriere, partendo dal cestino lanciato contro una prof in una scuola: che è come discutere di giornalismo partendo da Vittorio Feltri. Del resto, la rappresentazione degli adolescenti come orde di scalmanati, restii ad ogni tentativi di incivilimento, con il cervello in pappa per troppo uso di Internet e telefonini, è il punto di partenza di una parte significativa dei ragionamenti attuali sulla scuola e l'educazione. Una rappresentazione denigratoria delle nuove generazioni che è vecchia quanto il mondo, ma è assolutamente inutile farlo notare.

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Il Piccolo Principe & io


Presso l’editore Il Poligrafo di Padova è uscito il libro Ancora una volta Piccolo Principe. L’essenziale diventa “visibile” agli occhi di Maria Alessandra Soleti, di cui ho avuto il piacere di scrivere la presentazione. Eccone qualche pagina:

In principio era Kipling. Ci sarebbe questa frase in una ipotetica (ed evitabile) storia del mio personale rapporto con la lettura, che sarebbe un capitolo rilevante di una mia ancor più evitabile autobiografia. Just So Stories for Little Children, tradotto con Storie proprio così. Mi vedo ancora – ed è uno dei pochi ricordi della mia infanzia – in cartoleria, con mia madre, e quella richiesta insolita: voglio un libro. Quel libro. Un libro grande, cartonato, con molti disegni. Un libro che racconta le storie, strane e divertenti, di come e perché gli animali sono diventati come sono: perché la giraffa ha il collo lungo, perché il cammello ha le gobbe, perché l’elefante ha la proboscide. Eccetera. Solo da adulto avrei scoperto le illustrazioni originali di Kipling, che trovo bellissime. Quell’edizione invece era illustrata da disegni per bambini, che fecero bene il loro lavoro: non mi sarei appassionato alla lettura di quel libro (e forse alla lettura tout court) senza quelle illustrazioni. In principio era il testo, ma anche l’immagine. In principio era l’immagine che porta al testo. Eidos e Logos. Così è stato per me, così è stato per molti. Voi che leggete queste righe starete forse pensando al libro illustrato che è stato fatale per voi, che ha aperto il mondo magico della lettura e della fantasia. Ma sarà ancora così tra vent’anni? I ventenni, i trentenni di domani parleranno di un libro quasi magico, di figure animate dalle parole, di parole animate dalle figure? Può essere. Ma può essere anche che nei loro ricordi ci sia un’app su un tablet. Può essere che a compiere la stessa funzione iniziatica non sia stato un libro di carta, ma un software. Può essere che ricordino immagini animate, completate da suoni, e testi interattivi.

Qualcuno vedrà in ciò una degenerazione. Possiamo esserne non consapevoli, ma qualcosa ci spinge sempre, nostro malgrado, ad essere laudatores temporis acti, a pensare che il passato era meglio del presente. La carta ci appare più calda, più affettuosa, più sensorialmente appagante dello schermo di un computer, di un tablet, di un cellulare. Ma non abbiamo passato anche noi, da bambini, ore davanti alla televisione? Era forse freddo, lo schermo di un televisore, quando lo usavamo per entrare nei mondi fantastici di Jeeg Robot, di Mazinga Z, di Riù? Perché lo schermo di un pc o di un tablet dovrebbe essere più freddo di quello di un televisore?
Appartengo ad una generazione infelice per molti versi, fortunata per altri. Ho assistito al tramonto di ogni verità collettiva, alla fine penosa di tutte le grandi narrazioni; ho visto il mio paese governato per anni, per decenni da soggetti tali, che se si fossero scelti a caso dei detenuti di una qualsiasi galera, il livello di onestà pubblica ne avrebbe guadagnato; ho visto dominare incontrastati la mafia, i servizi segreti deviati, la massoneria deviata, la finanza corrotta, la delinquenza politica. Ma ho anche assistito a cambiamenti straordinari, che non sempre si verificano nel corso di una sola vita. Quando ero ragazzino l’omofobia, per dire, era incontrastata, mentre oggi assisto alle prime coraggiose unioni civili. Ho visto le televisioni in bianco e nero, poi quelle a colori, poi i primi pc, poi i primi cellulari, grandi come citofoni, poi i primi smartphone ed i tablet. Ho visto i libri diventare elettronici, le immagini animarsi, i testi diventare interattivi. Ho la fortuna di aver mantenuto sempre un po’ della curiosità e della meraviglia di quand’ero bambino: per cui mi ritrovo oggi a provare davanti ad un libro elettronico le stesse sensazioni che avrebbe provato negli anni Ottanta un bambino di sette anni il cui libro di carta si fosse, per una strana magia, improvvisamente animato. (Sì, vi sento. State dicendo che negli anni Ottanta i libri erano animati: li animava la fantasia dei bambini. Ma chi può mettere limiti alla fantasia di un bambino? Se un libro con qualche figura portava lontano, dove porterà un libro elettronico?).
Ho incontrato Il Piccolo Principe tardi: addirittura a trent’anni. E mi pare, tuttavia, di averlo incontrato al tempo giusto. Perché Il Piccolo Principe non è, come si crede, un libro per bambini; anzi lo è, ma non nel senso comune dell’espressione. E’ un libro che insegna agli adulti cosa è un bambino; ed è un libro che parla al bambino che è rimasto, latente, nascosto ed intimorito, nell’adulto. E’ un libro che gli parla per fargli coraggio, per farlo venir fuori. Non riesco a liberarmi, spesso, dall’impressione che quel viaggio misterioso abbia qualcosa a che fare con la Commedia dantesca. Il poeta fiorentino deve intraprendere, per purificarsi, il suo cammino nell’umanissimo Inferno, con i suoi gironi. Il Piccolo Principe nel suo misterioso viaggio visita i pianeti che rappresentano i diversi inferni del nostro essere adulti, uomini e donne concreti, adattati, impegnati con la realtà. Descrive con poesia, ma anche con implacabile realismo, le trappole della nostra vita quotidiana: la trappola del potere, in primo luogo, alla quale pochi sfuggono, e poi quella del denaro, quella della vanità, e quella del sapere (sì, anche il sapere può essere una trappola). E indica la via d’uscita, a portata di mano eppure terribilmente difficile. Essere bambini. Imparare da loro, essere come loro. Conquistare il loro sguardo, la loro poesia, la loro semplicità. Nella mia libreria ideale (cioè: nell’ordinamento ideale della mia libreria; quello reale risente di troppi traslochi) il libro di de Saint-Exupéry starebbe in mezzo a due altri libri che sono per me fondamentali: da un lato Il fanciullo nella liberazione dell’uomo di Aldo Capitini, dall’altro Il diritto del bambino al rispetto di Janusz Korczak. Capitini, il filosofo italiano della nonviolenza, insegna la radicale differenza del bambini, il “figlio della festa”, colui che appartiene alla dimensione della compresenza, il mondo liberato dal male, dalla violenza, dalla morte, un mondo che non è constatabile oggettivamente e non è nemmeno oggetto di fede nel senso religioso, ma nel quale già siamo nel momento in cui, posti di fronte all’altro, rinunciamo alla violenza. A questo mondo appartiene il bambino, con il suo impertinente “dire tu”, con il suo insensato parlare alle cose, agli animali, alle piante, con quella freschezza che ci strappa un sorriso, ma che ci proponiamo di raddrizzare, di “educare”, di socializzare: di spegnere. Il bambino imparerà a dare del lei, e che le persone sono persone e le cose sono cose, e che la realtà ha le sue leggi ferree, le sue distinzioni, i suoi muri, le sue crepe. Korczak ci mostra le infinite violenze cui, col pretesto dell’educazione, sottoponiamo il bambino. Un libro che si conclude con parole che dovrebbero essere scritte sulla parete di ogni aula scolastica: “Rispetto, se non umiltà, per la bianca, la candida, l’immacolata, la santa infanzia”. Si dirà: ma no, questo è romanticismo. Non c’è nulla di immacolato nell’infanzia, ci ha insegnato Freud. E la santità, poi! Un concetto vecchio, nel quale finge di credere solo qualche cattolico. Leggiamo la riga che precede. “I prìncipi del cuore sono proprio i bambini, questi poeti e pensatori”. Eccolo qui, il nostro piccolo principe. Poeta e pensatore. Korczak scrive queste righe nel 1929. Tredici anni dopo, la mattina di un giorno di agosto del 1942, il dottor Korczak accompagnerà i suoi bambini dell’orfanotrofio del ghetto ebraico di Varsavia. Un carro per bestiame li porterà a Treblinka, dove saranno sterminati tutti. Ed eccoli qui, l’adulto e il bambino. L’homo rapax – così lo chiama Korczak – e la sua vittima. Rileggiamo le parole finali del suo libro pensando a questi bambini che si avviano in fila verso il campo di sterminio. Sì, la bianca, la santa infanzia. Con buona pace di Freud. La santa infanzia sacrificata ieri nei campi di sterminio, sacrificata ieri, oggi e (se non cambiamo le cose) domani sull’altare della ragionevolezza feroce e insensata che costruisce i nostri palazzi, le nostre strade, la nostra ammirevole civiltà.

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Il Piccolo Principe & io


Presso l'editore Il Poligrafo di Padova è uscito il libro Ancora una volta Piccolo Principe. L'essenziale diventa "visibile" agli occhi di Maria Alessandra Soleti, di cui ho avuto il piacere di scrivere la presentazione. Eccone qualche pagina:

In principio era Kipling. Ci sarebbe questa frase in una ipotetica (ed evitabile) storia del mio personale rapporto con la lettura, che sarebbe un capitolo rilevante di una mia ancor più evitabile autobiografia. Just So Stories for Little Children, tradotto con Storie proprio così. Mi vedo ancora - ed è uno dei pochi ricordi della mia infanzia - in cartoleria, con mia madre, e quella richiesta insolita: voglio un libro. Quel libro. Un libro grande, cartonato, con molti disegni. Un libro che racconta le storie, strane e divertenti, di come e perché gli animali sono diventati come sono: perché la giraffa ha il collo lungo, perché il cammello ha le gobbe, perché l'elefante ha la proboscide. Eccetera. Solo da adulto avrei scoperto le illustrazioni originali di Kipling, che trovo bellissime. Quell'edizione invece era illustrata da disegni per bambini, che fecero bene il loro lavoro: non mi sarei appassionato alla lettura di quel libro (e forse alla lettura tout court) senza quelle illustrazioni. In principio era il testo, ma anche l'immagine. In principio era l'immagine che porta al testo. Eidos e Logos. Così è stato per me, così è stato per molti. Voi che leggete queste righe starete forse pensando al libro illustrato che è stato fatale per voi, che ha aperto il mondo magico della lettura e della fantasia. Ma sarà ancora così tra vent'anni? I ventenni, i trentenni di domani parleranno di un libro quasi magico, di figure animate dalle parole, di parole animate dalle figure? Può essere. Ma può essere anche che nei loro ricordi ci sia un'app su un tablet. Può essere che a compiere la stessa funzione iniziatica non sia stato un libro di carta, ma un software. Può essere che ricordino immagini animate, completate da suoni, e testi interattivi.

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Il turbamento di Maria

A proposito della rappresentazione di Maria. Nella bella mostra su Ambrogio Lorenzetti a Siena, che è possibile visitare fino al 21 gennaio 2018 al museo Santa Maria della Scala di Siena, è esposto tra l’altro questo disegno che proviene da San Galgano [clicca sull’immagine per ingrandirla], dove Lorenzetti ha affrescato la cappella annessa alla rotonda di Montesiepi (quella con la spada nella roccia). La rimozione degli affreschi ha consentito di recuperare il disegno che l’artista aveva fatto sull’arriccio. Ed ecco allora questa singolarissima annunciazione, che naturalmente i committenti rifiutarono. Lorenzetti, autore di raffigurazioni assolutamente canoniche della Vergine, in questo caso ha una intuizione di una modernità sconcertante. Maria non è lieta della novella, non accoglie con letizia l’angelo, ma è una donna spaventata, che si tiene al muro, che vorrebbe fuggire dall’assalto. Una donna che sta per essere violata. Violata da Dio.

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Il turbamento di Maria

A proposito della rappresentazione di Maria. Nella bella mostra su Ambrogio Lorenzetti a Siena, che è possibile visitare fino al 21 gennaio 2018 al museo Santa Maria della Scala di Siena, è esposto tra l'altro questo disegno che proviene da San Galgano [clicca sull'immagine per ingrandirla], dove Lorenzetti ha affrescato la cappella annessa alla rotonda di Montesiepi (quella con la spada nella roccia). La rimozione degli affreschi ha consentito di recuperare il disegno che l'artista aveva fatto sull'arriccio. Ed ecco allora questa singolarissima annunciazione, che naturalmente i committenti rifiutarono. Lorenzetti, autore di raffigurazioni assolutamente canoniche della Vergine, in questo caso ha una intuizione di una modernità sconcertante. Maria non è lieta della novella, non accoglie con letizia l'angelo, ma è una donna spaventata, che si tiene al muro, che vorrebbe fuggire dall'assalto. Una donna che sta per essere violata. Violata da Dio.

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Mia nonna e CasaPound

Quest’anno faremo incontrare i nostri studenti con alcuni richiedenti asilo ospitati nel territorio. E’ il terzo anno che lo facciamo. Lo facciamo perché riteniamo che sia compito della scuola consentire agli studenti di conoscere la realtà sociale, e poter parlare con dei migranti è un modo per avere conoscenze di prima mano, per così dire, su un fatto sociale importante, al centro del dibattito politico. Per quanto mi riguarda, è una preziosa occasione di approfondimento delle mie discipline: insegno Scienze Umane, e potersi mettere in cerchio con persone provenienti dalla Nigeria, dal Bangladesh e dal Pakistan e confrontare i nostri punti di vista, i valori, le prospettive, è un modo per fare antropologia concreta. Ben prima che se ne accorgessero anche i giornali, abbiamo ascoltato dalla loro bocca – ma i racconti erano a bassa voce, quasi che quel male potesse ancora colpirli, a raccontarlo – dell’inferno libico, quella zona franca nella quale i migranti restano intrappolati anche per anni: e molti vi lasciano la vita.

La risposta degli studenti è stata generalmente positiva, ma quest’anno alcuni di loro hanno fatto sapere che nei giorni degli incontri non verranno a scuola. Sono studenti politicamente vicini a CasaPound, il movimento neo-fascista che ha nel suo simbolo la tartaruga, che intende richiamare la testudo dell’esercito romano – perché, spiegano nel loro sito, “la forza quando scaturita da un ordine verticale e da un principio gerarchico è destinata a dominare le barbarie, anche se in numero inferiore”.

Sono abbastanza vecchio da aver visto diverse Italie. Non, per fortuna, quella fascista: ma uno strascico di Italia contadina ho fatto in tempo a vederlo; ed ho visto l’Italia priva o quasi di immigrati stranieri, l’Italia democristiana e socialista, craxiana e andreottiana, l’Italia prima della presunta invasione dei migranti. Non era una Italia migliore. Soprattutto, non lo era per i poveri.

Quand’ero bambino mia nonna fece una cosa che mi sembrò straordinaria, audace, azzardata, ma che per lei era semplicemente normale. Mia nonna era una contadina madre di dodici figli. Era a pranzo da noi, quando bussò un venditore di tappeti egiziano. Abitavamo in un pianterreno – in un basso – e la tavola era poco distante dalla porta. Andammo ad aprire, pronti a mandarlo via, ma mia nonna si oppose. Per la sua cultura contadina era una grave mancanza ai propri doveri di ospitalità. Nella sua cultura c’era questa idea strana, per noi: se qualcuno bussa mentre stai mangiando, hai il dovere di invitarlo a mangiare con te; e se si rifiuta, puoi ritenerti offeso. E nella sua cultura contadina non c’era alcuna distinzione tra l’italiano e lo straniero. E dunque l’egiziano mangiò con noi, e bevve, evitando il vino.

Oggi un gesto del genere è semplicemente impossibile. Intendiamoci: non dico che è impossibile che qualcuno accolga uno straniero. Conosco famiglie che, quasi rispondendo all’invito sprezzante dei razzisti, hanno accolto in casa per diversi mesi persone richiedenti asilo. Si tratta di persone colte, di sinistra, mosse da una visione della politica che non delega a nessuno la pratica della solidarietà. Ma si tratta, comunque, di una solidarietà organica, per dirla con Durkheim; una solidarietà che nasce dalla riflessione e dall’ideale. La solidarietà contadina era meccanica, tradizionale, non aveva a che fare con alcuna riflessione. Era semplicemente un modo di essere.

Che è successo, nel frattempo? Cosa è cambiato? Cosa ha reso impossibile quel gesto? La risposta non è difficile. Sappiamo che la civiltà contadina è stata travolta dalla società dei consumi, e dunque dal capitalismo. Abbiamo letto Pasolini. La scena che ho raccontato si svolge alla fine degli anni Settanta. Un bel po’ dopo il boom economico, ma i cambiamenti sociali, soprattutto nella società meridionale, sono lenti. Ho assistito nel corso degli anni Ottanta al progressivo ma rapido spegnersi di quel mondo che avevo conosciuto da bambino.

Una sciocchezza ripetuta fino alla nausea da gente come Diego Fusaro è che “il pensiero unico mondialista ultracapitalista mira a legittimare e a produrre il nuovo modello antropologico del migrante come valore in sé positivo”. Una sciocchezza, perché il capitale, se proprio vogliamo chiamarlo così, è la cosa più mobile che esiste. Non ha bisogno che tu ti muova: ti viene a prendere a casa. La fabbrica chiusa a Melfi può essere riaperta in Romania, non c’è alcun bisogno che gli operai romeni vengano in Italia. Anzi, la cosa può costituire un problema. E’ bene che i romeni restino in Romania, gli indonesiani in Indonesia e i cinesi in Cina, per farsi sfruttare ognuno a casa propria. Perché se vengono in Italia, o in Francia, o in Germania, entrano in contatto – nonostante il crollo dei partiti di sinistra – con una cultura dei diritti che rischia di contaminarli. Le migrazioni non sono una strategia del capitalismo; esprimono, piuttosto, una delle sue esternalità.

Liberismo e capitalismo non hanno bisogno di migranti, profughi, richiedenti asilo, gente che si sposta da una parte all’altra del mondo col suo carico di sofferenza, gente che muore in mare, gente che viene torturata nelle carceri libiche, gente che rivendica il diritto alla vita negato. La loro stessa esistenza è un atto d’accusa contro il presunto ordine mondiale del capitalismo, contro le promesse salvifiche del neoliberismo. Al contrario, occorre che il lato oscuro del capitalismo venga nascosto, che l’ospite indesiderato venga tenuto fuori dalla porta. Oggi se ne occupa Minniti, come ieri Berlusconi. Con scelte criminali per le quali nessuno mai li processerà. Che ne siano consapevoli o meno, quelli che vedono un nemico nel richiedente asilo, quelli che protestano per l’accoglienza di chi fugge dalla morte, quelli che calunniano i migranti diffondendo notizie false, quelli che istigano gli studenti affinché si rifiutino anche solo di confrontarsi con un migrante non sono che l’espressione più pura della logica egoistica, escludente ed omicida di quel capitalismo che dicono di voler combattere, ma nel quale sono immersi fino al collo.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 26 novembre 2017.

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Mia nonna e CasaPound

Quest'anno faremo incontrare i nostri studenti con alcuni richiedenti asilo ospitati nel territorio. E' il terzo anno che lo facciamo. Lo facciamo perché riteniamo che sia compito della scuola consentire agli studenti di conoscere la realtà sociale, e poter parlare con dei migranti è un modo per avere conoscenze di prima mano, per così dire, su un fatto sociale importante, al centro del dibattito politico. Per quanto mi riguarda, è una preziosa occasione di approfondimento delle mie discipline: insegno Scienze Umane, e potersi mettere in cerchio con persone provenienti dalla Nigeria, dal Bangladesh e dal Pakistan e confrontare i nostri punti di vista, i valori, le prospettive, è un modo per fare antropologia concreta. Ben prima che se ne accorgessero anche i giornali, abbiamo ascoltato dalla loro bocca - ma i racconti erano a bassa voce, quasi che quel male potesse ancora colpirli, a raccontarlo - dell'inferno libico, quella zona franca nella quale i migranti restano intrappolati anche per anni: e molti vi lasciano la vita.

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Il sorriso di Maria?

La banalità quotidiana di papa Francesco su Twitter è la seguente:

Il sorriso semplice e puro di Maria sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.

Naturalmente noi dell’aspetto di Maria non sappiamo nulla, e nemmeno del suo sorriso. La rappresentazione di Gesù, come è noto, è basata su un falso: la lettera di Publio Lentulo, nella quale si parla di un uomo con i capelli color nocciola, che “nella presenza è il più bell’uomo che si possa immaginare; tutto simile alla madre la quale è la più giovane che si sia mai vista in queste parti”.

La frase di papa Francesco andrebbe dunque modificata così:

Il modo in cui gli artisti rappresentano il sorriso semplice e puro di Maria sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.

Anche qui, però, c’è qualcosa che non va. Chi conosce un po’ di storia dell’arte, sa che in realtà non è così frequente, poi, che gli artisti rappresentino la Madonna sorridente. Non sorride, per dire, la Madonna di Crevole di Duccio di Buoninsegna, ha il volto corrucciato quella del Masaccio agli Uffizi, mentre nella Trinità che si trova in Santa Maria Novella, sempre del Masaccio, ha una espressione difficile da descrivere – si direbbe tra lo stupore e lo stordimento – ma che sicuramente ha poco a che fare con la letizia. E del resto, sarebbe strano il contrario. Parliamo di una donna che ha partorito per Dio un bambino che appena conquistata l’età della ragione l’ha abbandonata, rifiutandosi anche di chiamarla madre (per tutto il Vangelo la chiama “donna”), e che poi si fa crocifiggere per realizzare il piano di Dio.

Non mancano, certo, Madonne sorridenti. Sono le Madonne con il vestito bianco e il manto azzurro e i capelli biondi e gli occhi azzurri delle statue di gesso che si vendono davanti ai santuari. La banalità quotidiana di papa Francesco va dunque ulteriormente tradotta come segue:

Il sorriso semplice e puro di Maria nelle scadenti statue di gesso della Madonna che si vendono davanti ai santuari sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.

Amen.

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Il sorriso di Maria?

La banalità quotidiana di papa Francesco su Twitter è la seguente:
Il sorriso semplice e puro di Maria sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.
Naturalmente noi dell'aspetto di Maria non sappiamo nulla, e nemmeno del suo sorriso. La rappresentazione di Gesù, come è noto, è basata su un falso: la lettera di Publio Lentulo, nella quale si parla di un uomo con i capelli color nocciola, che "nella presenza è il più bell'uomo che si possa immaginare; tutto simile alla madre la quale è la più giovane che si sia mai vista in queste parti". 
La frase di papa Francesco andrebbe dunque modificata così:
Il modo in cui gli artisti rappresentano il sorriso semplice e puro di Maria sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.
Anche qui, però, c'è qualcosa che non va. Chi conosce un po' di storia dell'arte, sa che in realtà non è così frequente, poi, che gli artisti rappresentino la Madonna sorridente.

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Diamo una possibilità di scelta ai bambini

Qualche sera fa osservano, in pizzeria, un gruppo di cinque bambini che occupavano il margine di una tavolata. Ognuno di loro aveva lo smartphone, sul quale stava giocando, ma non isolato dagli altri; si mostravano lo smartphone l’un l’altro, commentando. A un certo punto la bambina più grande del gruppo ha invitato gli altri a mettersi in posa. Ha scattato una foto, poi non soddisfatta del risultato ne ha fatta un’altra, e un’altra ancora. Quando il risultato l’ha convinta, ha mostrato la foto agli altri. Quindi l’ha mandata in rete – su WhatsApp, immagino – e ha atteso i commenti. I bambini sembravano divertirsi molto.

Ho ripensato a questa scena partecipando, a Cesena, a un bel convegno che il Centro di Documentazione Educativa ha dedicato alla figura di Gianfranco Zavalloni, il compianto autore della Pedagogia della lumaca. Educatore, ma anche artista (trovo meravigliosi, per poesia, raffinatezza e semplicità, i suoi disegni), Zavalloni era una di quelle rare persone che mettono in tutto quello che fanno l’impronta di una gioia di vivere in grado di resistere ad ogni offesa della vita. Si parlava, al convegno, delle trasformazioni del gioco e dell’infanzia. Che ne è, oggi, dei giochi che hanno accompagnato l’infanzia per secoli? Chi gioca ancora alla campana, o alla lippa? Lo schermo dello smartphone ha preso il posto della strada, come ambiente ludico.

Per chi è cresciuto giocando in strada o, con più fortuna, in campagna, sbucciandosi periodicamente le ginocchia, sporcandosi, facendo un baccano terribile che suscitava le ire degli anziani del quartiere, spaccando vetrine e retrovisori delle automobili parcheggiate, questa mutazione è difficile da accettare. Semplicemente, non sembra normale. Non sembra normale che i bambini si muovano così poco (e non mancano bambini cui i genitori, per rendere meno faticosi i purtroppo inevitabili spostamenti fisici, comprano l’hoverboard), che passino tanto tempo davanti a uno schermo, che non vivano la città, e ancor meno la natura. Gianfranco Staccioli, tra i maggiori esperti italiani di pedagogia ludica, si è chiesto – e ha chiesto – quanta libertà effettiva vi sia in questo modo di giocare. I bambini giocano, o sono giocati? Certo, all’industria fa comodo che i bambini giochino così. Fa girare l’economia, aumenta il PIL. Ma è un bene per i bambini?
Zavalloni è autore, tra l’altro, dei Diritti naturali dei bambini e delle bambine, che comprendono il diritto di sporcarsi, di usare le mani, di giocare in strada, di arrampicarsi sugli alberi. Un diritto che i bambini in gran parte hanno perso. Ma è quello che vogliono i bambini, o si tratta di quello che noi pensiamo che dovrebbe essere e fare un bambino, legato alla nostra esperienza di adulti che sono stati bambini in tempi ormai lontani? Detto altrimenti: rispettare oggi un bambino non vuol dire, anche, prendere atto del suo rapporto con i dispositivi digitali?

L’errore che facciamo è quello di considerare uno smartphone come un semplice strumento, mentre
esso è diventato da tempo, ormai, qualcosa di diverso: un senso. Il nostro sesto senso. Occhi, orecchie, naso, olfatto, tatto e smartphone. Non sembri una battuta: non lo è. Lo smartphone diventerà sempre più parte integrante del nostro corpo – sta succedendo già con gli smartwatch – perché ci dà accesso ad una seconda realtà, cui apparteniamo non meno che a quella cui gli altri sensi ci danno accesso. Per moltissime persone, ormai, la vita si svolge a questi due livelli. Andiamo in un ristorante, mangiamo, poi lo recensiamo su Tripadvisor. O meglio: scegliamo un ristorante leggendo le recensioni su Tripadvisor, ci andiamo, mangiamo, ci facciamo qualche foto da mettere su Facebook ed Instagram o da mandare agli amici su WhatsApp, poi facciamo la recensione su Tripadvisor. Lo smartphone ci dà accesso a questo secondo livello della nostra esperienza, che nelle nostre vite di adulti si è presentato ad un certo punto, ma che per i bambini c’è da sempre. Per loro vivere vuol dire stare tra queste due realtà, che nella loro esperienza sono pienamente integrate. Faccio questa analisi senza esprimere alcun giudizio. Credo che la sospensione del giudizio sia un esercizio sempre utile, e doveroso quando c’è il rischio di moralismo. E tuttavia non posso non riflettere su quel dubbio insinuato da Staccioli. I nostri bambini giocano, o sono giocati? La loro esclusione dalle strade e dalle piazze è un fatto che dobbiamo accettare come inevitabile, o qualcosa da rimettere al centro della nostra riflessione pubblica?

Può essere che un bambino trovi, nella realtà digitale cui accede attraverso lo smartphone, le stesse possibilità di una esperienza ricca, divertente, avventurosa che un bambino degli anni Ottanta trovava giocando nelle strade, nei cantieri dei palazzi in costruzione, negli orti. Ma noi adulti abbiamo il dovere di offrire loro una alternativa. Di dar loro la possibilità, anche, di arrampicarsi sugli alberi, di correre in bicicletta, di sbucciarsi le ginocchia correndo nei prati. Di metter loro davanti un giocattolo fatto di legno o di latta o di materiali riciclati, come alternativa alle app; o meglio: di insegnare loro come si costruisce un giocattolo. Può essere che preferiscano comunque lo smartphone, ma può essere anche che (ri)scoprano la ricchezza, la bellezza e il divertimento del mondo cui si accede con i cari vecchi cinque sensi.

C’è un diritto dei bambini dal cui riconoscimento dipende la possibilità di tutti gli altri diritti, compresi i dieci di Zavalloni, ed è il diritto di essere liberi dalla paura. In una società attraversata da vecchie e nuove paure, è inevitabile che la paura collettiva finisca per scaricarsi sui bambini. Ai quali può capitare di tutto, se si affacciano al di fuori degli ambienti protetti della famiglia della scuola. Lo stesso tragitto dalla prima alla seconda, e poi dalla seconda alla prima, deve avvenire sotto la stretta sorveglianza dell’adulto. Siamo estremamente premurosi con i bambini. Ma premura viene da premere: e premere può significare essere vicino, ma anche schiacciare.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 19 novembre 2017.

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Diamo una possibilità di scelta ai bambini

Qualche sera fa osservano, in pizzeria, un gruppo di cinque bambini che occupavano il margine di una tavolata. Ognuno di loro aveva lo smartphone, sul quale stava giocando, ma non isolato dagli altri; si mostravano lo smartphone l'un l'altro, commentando. A un certo punto la bambina più grande del gruppo ha invitato gli altri a mettersi in posa. Ha scattato una foto, poi non soddisfatta del risultato ne ha fatta un'altra, e un'altra ancora. Quando il risultato l'ha convinta, ha mostrato la foto agli altri. Quindi l'ha mandata in rete - su WhatsApp, immagino - e ha atteso i commenti. I bambini sembravano divertirsi molto.
Ho ripensato a questa scena partecipando, a Cesena, a un bel convegno che il Centro di Documentazione Educativa ha dedicato alla figura di Gianfranco Zavalloni, il compianto autore della Pedagogia della lumaca. Educatore, ma anche artista (trovo meravigliosi, per poesia, raffinatezza e semplicità, i suoi disegni), Zavalloni era una di quelle rare persone che mettono in tutto quello che fanno l'impronta di una gioia di vivere in grado di resistere ad ogni offesa della vita. Si parlava, al convegno, delle trasformazioni del gioco e dell'infanzia. Che ne è, oggi, dei giochi che hanno accompagnato l'infanzia per secoli? Chi gioca ancora alla campana, o alla lippa? Lo schermo dello smartphone ha preso il posto della strada, come ambiente ludico.

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Il karma di Agamben

1. Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri) è una delle non frequenti incursioni della filosofia italiana – di uno dei maggiori filosofi italiani, in questo caso – nel pensiero orientale, al di fuori del settore specialistico (e in Italia ancora quasi allo stato nascente) della filosofia comparata ed interculturale.
Il problema del libro è quello dell’azione responsabile e dunque imputabile; o meglio: del rapporto tra azione e soggettività. Un rapporto che si fissa, nell’etica occidentale, nel concetto di colpa. Ci si può chiedere se sia davvero opportuno mettere in discussione questo nesso, ma qui vorrei soffermarmi sulla lettura del buddhismo da parte di Agamben.
Come è noto, uno dei problemi più rilevanti del buddhismo dal punto di vista filosofico è la contraddizione tra la negazione dell’esistenza di un sé o anima e la concezione del karma e della rinascita. Se non esiste un sé, cos’è che rinasce? Come è possibile che vi sia continuità tra una vita e un’altra, se non c’è un sé sostanziale? Per Agamben, questa contraddizione apparente nasce da una precisa strategia: “si tratta di spezzare il nesso che lega il dispositivo azione-volontà a un soggetto”; “il soggetto come attore responsabile dell’azione è solo una apparenza dovuta alla nescienza o all’immaginazione (nei termini della nostra ricerca, esso è una finzione prodotta dai dispositivi del diritto e della morale)” (p. 128). 

Non c’è molto altro, oltre queste righe citate; se la prima parte del libro contiene una analisi raffinata dei concetti di causa e colpa in Occidente, la parte finale, dedicata al karman, si sviluppa per passaggi rapidi ed essenziali. Proviamo a ragionare su quelle poche righe. 

2.In uno dei testi fondamentali del buddhismo, il Milindapanha, il saggio Nagasena risponde alla domanda secca del re greco Menandro (Milinda) : “Chi nasce è lo stesso o un altro?”. La sua risposta è che chi nasce è al tempo stesso sé stesso e un altro, esattamente come noi, nello scorrere della nostra vita, siamo al tempo stesso noi stessi ed altri. Il neonato che eravamo, il bambino, l’adolescente, non esistono più in età adulta, e tuttavia l’adulto è al tempo stesso quel neonato, quel bambino, quell’adolescente. Come una fiamma che faccia luce per tutta la notte è al tempo stesso la stessa fiamma (alimentata dallo stesso olio e stoppino) e non lo è, poiché si rinnova di continuo [La rivelazione del Buddha. I testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, pp. 126-7]. Un altro esempio fatto da Nagasena illustra il rapporto tra questa dottrina e l’etica. Se l’individuo (namarupa, nome e forma) che rinasce non fosse lo stesso della vita precedente, pur essendo diverso, “allora una persona sarebbe liberata dalle azioni malvagie” (p. 133). E continua: si immagini un uomo che ha rubato dei manghi, e che viene processato per questo. Certo, i manghi che lui ha rubato non sono gli stessi che sono stati piantati dall’uomo che l’accusa (sono cambiati, crescendo), ma ciò non scagiona l’uomo.
E’ qui evidente la preoccupazione buddhista di confermare la responsabilità del soggetto, nonostante la negazione della sostanzialità del sé.

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Il karma di Agamben

1.Karman. Breve trattato sull'azione, la colpa e il gesto di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri) è una delle non frequenti incursioni della filosofia italiana - di uno dei maggiori filosofi italiani, in questo caso - nel pensiero orientale, al di fuori del settore specialistico (e in Italia ancora quasi allo stato nascente) della filosofia comparata ed interculturale. 
Il problema del libro è quello dell'azione responsabile e dunque imputabile; o meglio: del rapporto tra azione e soggettività. Un rapporto che si fissa, nell'etica occidentale, nel concetto di colpa. Ci si può chiedere se sia davvero opportuno mettere in discussione questo nesso, ma qui vorrei soffermarmi sulla lettura del buddhismo da parte di Agamben. 
Come è noto, uno dei problemi più rilevanti del buddhismo dal punto di vista filosofico è la contraddizione tra la negazione dell'esistenza di un sé o anima e la concezione del karma e della rinascita. Se non esiste un sé, cos'è che rinasce? Come è possibile che vi sia continuità tra una vita e un'altra, se non c'è un sé sostanziale? Per Agamben, questa contraddizione apparente nasce da una precisa strategia: "si tratta di spezzare il nesso che lega il dispositivo azione-volontà a un soggetto"; "il soggetto come attore responsabile dell'azione è solo una apparenza dovuta alla nescienza o all'immaginazione (nei termini della nostra ricerca, esso è una finzione prodotta dai dispositivi del diritto e della morale)" (p. 128). 
Non c'è molto altro, oltre queste righe citate; se la prima parte del libro contiene una analisi raffinata dei concetti di causa e colpa in Occidente, la parte finale, dedicata al karman, si sviluppa per passaggi rapidi ed essenziali. Proviamo a ragionare su quelle poche righe. 

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Leonardo Caffo e la conoscenza dell'altro

Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi) è l’ultimo libro di Leonardo Caffo, un giovane filosofo che è considerato tra i principali riferimenti filosofici dell’antispecismo italiano. Mi riprometto di scriverne con calma, ma intanto mi preme buttare giù una considerazione a margine.
Nel suo libro (pubblicato da Einaudi: la circostanza non è secondaria) Caffo cita più volte Lao Tzu, l’autore del Tao Te Ching.
Lo fa una prima volta a pagina 12:

Ma così tutto, come è giusto che sia, si complica – perché “quella che il bruco chiama fine del mondo”, dice Lao Tzu, “il resto del mondo chiama farfalla”.

Ora, dopo il “dice Lao Tzu”, ci vorrebbe la fonte. Ma la fonte non c’è. Lao Tzu, del resto, non è mica Aristotele: le (pseudo)citazioni su Facebook bastano e avanzano.

Una seconda citazione è a pagina 82:

Il monaco sa, col Tao Te Ching (XXXIX), che “il fondamento dell’essere sta nel far parte dell’Uno: l’anima è cosciente che se dentro di sé ha l’uno, allora gli esseri che vivono dentro di sé hanno l’uno, il capo regge e organizza la società se dentro di sé ha l’uno. Tutto ciò che è, è così per via dell’Uno.”

Qui va un po’ meglio, Caffo si degna di indicare l’opera ed il capitolo, ma manca ancora il riferimento in nota. Di chi è la traduzione? Trattandosi di un’opera cinese, è una domanda non irrilevante. Una domanda che è destinata a restare senza risposta, almeno per me: la tradizione citata non è tra quelle che conosco. Il testo cinese del capitolo XXXIX è questo (cito dal Chinese Text Project) :

昔之得一者:天得一以清;地得一以宁;神得一以灵;谷得一以盈;万物得一以生;侯王得一以为天下贞。其致之,天无以清,将恐裂;地无以宁,将恐发;神无以灵,将恐歇;谷无以盈,将恐竭;万物无以生,将恐灭;侯王无以贵高将恐蹶。故贵以贱为本,高以下为基。是以侯王自称孤、寡、不谷。此非以贱为本耶?非乎?故致数誉无誉。不欲琭琭如玉,珞珞如石。

Il testo citato da Caffo sembra una libera, liberissima interpretazione  della prima parte del capitolo, che suona così nella traduzione classica di J.J.L.Duyvendak (Adelphi):

Coloro che in antico hanno raggiunto l’unità sono i seguenti:
Il cielo ha raggiunto l’unità ed è diventato chiaro.
La terra ha raggiunto l’unità ed è diventata tranquilla.
Gli spiriti hanno raggiunto l’unità e si sono animati.
Le valli hanno raggiunto l’unità e si sono riempite.
I diecimila esseri hanno raggiunto l’unità e sono nati.
I re vassalli hanno raggiunto l’unità e sono diventati i rettificatori di Tutto-sotto-il-cielo.
Ciò che ha causato tutto questo (è l’unità). 

Come si vede, il testo ha poco o nulla a che fare con quello citato da Caffo. L’impressione è che, più che di una traduzione, si tratti di una parafrasi fatta da un occidentale, che usa il linguaggio e le categorie occidentali per leggere Lao Tzu. Non c’è traccia nel testo di Lao Tzu dell’anima. C’è la parola , che Duyvendak traduce correttamente con spiriti, perché rimanda non solo all’idea di una essenza spirituale, ma anche a quella di soprannaturale e magico.

A pagina 79 troviamo finalmente l’indicazione di una fonte:

Conoscere l’altro non è studiarlo, quella è una vivisezione metaforica (e spesso reale) che non coglie il punto: “anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo, sostiene Lao Tzu.

Segue la nota:

Lao Tzu, citato in Y. Kieffer e L. Zanini, Il kung fu, Xenia, Milano 1997, p. 1.

Dunque: Leonardo Caffo non ha letto Lao Tzu, anche se lo cita tre volte. E anche se del Tao Te Ching esistono ormai diverse edizioni, anche economiche. Non ha letto quello che è uno dei testi fondamentali per approssimarsi alla civiltà cinese, ma non sembra aver letto nemmeno alcuna seria storia della filosofia cinese. Lao Tzu lo cita di seconda, anzi terza mano da un libretto divulgativo sul kung fu.

La faccenda sembra poco significativa, ma non lo è. L’ultimo passo citato parla di conoscenza dell’altro. E si sbaglia: conoscere l’altro è, in primo luogo, studiarlo. Andare in libreria o in biblioteca e prendere il Tao Te Ching. Magari studiarsi anche un po’ di cinese, che male non fa, anche se a scuola ci insegnano che il greco è formativo, e il cinese no. Un viaggio interculturale di mille miglia inizia con un passo: aprire un libro. Ma Leonardo Caffo è un filosofo italiano, e i filosofi italiani non sentono di aver bisogno non dico di confrontarsi con, ma anche solo di documentarsi seriamente sulla filosofia orientale. Ed è una delle ragioni della miseria della filosofia italiana.
Il fatto che la più importante casa editrice italiana lasci passare pseudocitazioni da social network in un suo libro, poi, è un indice significativo dello stato attuale dell’editoria italiana.

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Leonardo Caffo e la conoscenza dell'altro

Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi) è l'ultimo libro di Leonardo Caffo, un giovane filosofo che è considerato tra i principali riferimenti filosofici dell'antispecismo italiano. Mi riprometto di scriverne con calma, ma intanto mi preme buttare giù una considerazione a margine.
Nel suo libro (pubblicato da Einaudi: la circostanza non è secondaria) Caffo cita più volte Lao Tzu, l'autore del Tao Te Ching.
Lo fa una prima volta a pagina 12:
Ma così tutto, come è giusto che sia, si complica - perché "quella che il bruco chiama fine del mondo", dice Lao Tzu, "il resto del mondo chiama farfalla".
Ora, dopo il "dice Lao Tzu", ci vorrebbe la fonte. Ma la fonte non c'è. Lao Tzu, del resto, non è mica Aristotele: le (pseudo)citazioni su Facebook bastano e avanzano.

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Cosa sta succedendo a Facebook?

Ieri ho segnalato, con un articolo sugli Stati Generali, l’assurda censura in cui è incorso su Facebook lo scrittore Marco Rovelli, noto per il suo impegno per i diritti civili, il cui profilo è stato bloccato con l’accusa di aver scritto la parola “negro”. Qualche ora dopo il mio articolo, è capitato anche a me di subire la rimozione di un contenuto giudicato non rispettoso degli standard di comunità. Si trattava, in questo caso, di un vecchio post contenente l’affermazione “Antonio Vigilante è terronista”, un post autoironico (terronista da terrone: sono un pugliese che vive a Siena) assolutamente innocuo. Per aver linkato l’articolo in cui parlavo di questa censura, oggi sono stato bloccato per un giorno.


E’ una affermazione semplicemente falsa. Il mio post – e l’articolo cui rimandava – non attaccava nessuno un base alla razza, all’etnia, alla nazionalità, alla religione, all’orientamento sessuale, al genere o alla disabilità. Non meno di Rovelli, anche se temo con efficacia minore, mi occupo dei diritti civili, come è possibile constatare anche scorrendo gli articoli pubblicati su Gli Stati Generali. L’articolo è stato censurato (e io sono stato bloccato) per un’altra ragione: perché conteneva una critica a Facebook.  In sostanza, Facebook (o qualcuno per conto di Facebook, ma non è dato sapere chi) censura in modo assolutamente arbitrario e privo di logica; se qualcuno protesta, passa al provvedimento successivo del blocco temporaneo; ed avvisa, intanto, che più blocchi ripetuti possono portare alla disattivazione permanente dell’account. Abbiamo dato a Facebook un potere immenso. Gli abbiamo consegnato la nostra storia, la nostra identità, la narrazione di noi stessi, la nostra passione, le foto delle persone che amiamo e dei nostri momenti felici e gli sfoghi dei momenti tristi. Lo abbiamo fatto credendo che fosse uno strumento, un mezzo neutro per mettere in comunicazione le persone, esattamente come una piazza virtuale. Le cose evidentemente non stanno così. Facebook è un potere arbitrario, che procede con modalità apertamente kafkiane – si è bloccati senza sapere perché, senza sapere da chi, senza avere la possibilità di far valere le proprie ragioni – e che non ammette la libertà di critica. Per fortuna, è un potere al quale ci si può sottrarre con un clic. Lo farò dopo aver recuperato e messo al sicuro sul mio computer le foto del mio cane, morto qualche giorno fa, che ingenuamente ho pensato di salvare sul mio profilo; ammesso che, dopo questo articolo, Facebook mi dia il tempo di farlo.

Aggiornamento

Rientrato nel mio profilo dopo un giorno di blocco, trovo questo avviso:

Siamo alla follia.Semplicemente.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 18 ottobre 2017.

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Sono un terronista (e Facebook mi censura)

Per una singolare coincidenza, poche ore dopo il mio articolo sulla assurda censura di Marco Rovelli, Facebook mi ha notificato di aver rimosso un mio contenuto che avrebbe violato gli standard della comunità. Per quello che riesco a capire, le cose sono andate come segue. Molto tempo fa – tanto tempo, che nemmeno me ne ricordavo – ho scritto un post nel quale mi davo del “terronista”. Una uscita ironica (non particolarmente brillante, lo ammetto) che alludeva alla mia condizione di foggiano (quindi terrone) a Siena. E’ un aggettivo che uso qualche volta con i miei amici senesi, insieme al verbo terronizzare. Cose come: “Basta lavorare, lasciatevi terronizzare un po’, andiamo a prendere un caffè”. Ora, è successo che a qualcuno – che segue le mie cose con tanta attenzione da scovare un post che avevo dimenticato – quell’aggettivo non è piaciuto. Può essere che gli sia sfuggita la n, ed abbia letto terrorista, o che davvero abbia pensato che ce l’avessi con i terroni. E si è indignato tanto, da non scrivermi per chiedermi il senso di quel post (glielo avrei spiegato volentieri), ma da segnalarmi a Facebook. Come se avessi incitato a mettere i terroni sulla graticola.  All’oscuro censore di Facebook è giunta questa segnalazione, e invece di farsi una risata, ha ritenuto opportuno, anzi necessario rimuovere il mio post e segnalarmelo.

Confesso: la cosa mi ha fatto sorridere. Ma poi è subentrata la riflessione. Una riflessione triste. Ho spesso usato la segnalazione di contenuti inappropriati per chiedere la rimozione di post razzisti o fascisti. Non larvatamente fascisti o razzisti: considero importante la libertà di pensiero. Ricorro alla segnalazione solo quando si tratta di opinioni potenzialmente omicide: quando si incita ad uccidere i Rom o i neri. E nove volte su dieci ricevo da Facebook la risposta che il contenuto segnalato non viola gli standard di comunità. Il fatto che un contenuto innocuo, (auto)ironico, privo di qualsiasi malizia venga invece censurato, mi fa pensare a due scenari. Nel primo, mi figuro un oscuro censore alle prese con una mole di lavoro che lo manda semplicemente fuori di testa. Dopo otto ore di lavoro folle, si vede arrivare l’ennesima segnalazione. E non ha la lucidità necessaria per considerarla in modo razionale. Nel secondo scenario l’oscuro censore è uno che nemmeno sa quello che fa, un nerd malpagato messo a gestire una cosa più grande di lui. In ogni caso, la libertà di espressione di due miliardi di persone è in mani tanto oscure quanto fragili.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 17 ottobre 2017.

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Facebook censura Marco Rovelli

“Questi racconti sono la versione moderna della Storia della colonna infame di Manzoni. Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati.” Sono parole di Erri De Luca che si trovano sulla quarta di copertina di Lager italiani (Rizzoli), il libro del 2006 con il quale Marco Rovelli denunciava la vergogna dei Centri di Permanenza Temporanea, nati dalla stessa logica concentrazionaria che ha dato origine ai lager nazisti. Rovelli era andato nei Centri, aveva incontrato i reclusi , aveva ascoltato le loro storie e le aveva raccontate in un libro che è ancora oggi importante per capire le (bio)politiche di gestione delle migrazioni nel nostro paese. Ed ha continuato questo lavoro di ascolto e di narrazione legato alla difesa dei diritti umani e civili nei dieci anni successivi, ad esempio con la bellissima storia del musicista rom Jovica Jovic (La meravigliosa vita di Jovica Jovic, appunto) pubblicata da Feltrinelli del 2013. Bene: questa mattina Rovelli è stato bloccato da Facebook. L’accusa: aver scritto la parola “negro”. Il post incriminato – che è stato rimosso, e dopo il quale Rovelli è stato bloccato – è il seguente:

Karl Brandt sorride felice dagli inferi: la felice famiglia Rosenberg si fa un selfie e caca sulla testa pulciosa di un hippie drogato comunista e mezzo negro.

Precedentemente gli era stato cancellato un altro post, nel quale commentando le parole di Salvini riguardo alla mano libera che darebbe alle forze dell’ordine se andasse al governo aveva scritto che si tratterebbe della libertà di menare “zecche e negri”. Non occorre evidentemente spendere molte parole per dimostrare che se si blocca Rovelli con l’accusa di razzismo si compie una mostruosità. Qualche parola è bene spenderla – oltre che per manifestare solidarietà a Rovelli – per ragionare sul sistema. Negli Standard della comunità di Facebook si legge:

Facebook rimuove i contenuti che incitano all’odio, compresi quelli che attaccano direttamente una persona o un gruppo di persone in base a: • razza; • etnia; • nazionalità di origine; • affiliazione religiosa; • orientamento sessuale; • sesso; • disabilità o malattia. Le organizzazioni e le persone impegnate a promuovere l’odio contro questi gruppi protetti non possono avere una presenza su Facebook. Come per tutti i nostri standard, confidiamo nelle segnalazioni della nostra comunità per individuare questi contenuti.

Un criterio condivisibilissimo, ma c’è qualcosa che non funziona se poi si traduce in una pratica di censura che opera indifferentemente su Matteo Salvini e su Marco Rovelli. Come è noto, si parte dalla segnalazione di un utente. Qualcuno che può essere stato sinceramente irritato dall’uso di quella parola, ma più probabilmente qualcuno cui Rovelli non sta simpatico, anche per le sue battaglie per i diritti civili. Dal momento che le segnalazioni possono essere pretestuose, diventa centrale quello che accade dopo: l’analisi della segnalazione. Poiché Facebook non è soltanto un sito Internet, ma un social network con due miliardi di utenti che lo usano come principale strumento per rendere pubblico il proprio pensiero – poiché, cioè, Facebook è uno dei canali principali attraverso i quali si manifesta oggi, di fatto, la libertà di pensiero e di espressione – diventa fondamentale che le persone che valutano le segnalazioni sappiano il fatto loro. Ma chi sono? Proprio perché Facebook ha due miliardi di utenti, e i contenuti da segnalare costituiscono una mole di lavoro immensa, è improbabile che le segnalazioni possano essere trattate da personale qualificato. Secondo un rapporto dell’Unesco [1], Facebook avrebbe esternalizzato questo lavoro ad agenzie di cui non è nemmeno dato conoscere il nome (per il rapporto Unesco in passato era la oDesk, ma non si sa quale sia ora). Ci si trova di fronte ad una situazione kafkiana. C’è un potere che può metterci a tacere, imporci di cancellare quello che abbiamo scritto, espellerci; è un potere che agisce in modo discutibile, censurando un noto difensore dei diritti civili con l’accusa di razzismo; ed è un potere affidato ad oscuri impiegati, cottimisti della censura di cui non è dato conoscere i nomi. Si dirà: non occorre stare su Facebook. Ottima cosa sarebbe sottrarsi a questo potere semplicemente uscendo da quel social network, e magari anche da altri. Ma, che piaccia o meno, Facebook è oggi una realtà nella realtà; è una sfera pubblica nella quale accadono fatti sociali, ed una delle forme principali nelle quali oggi si manifesta (nei modi spesso discutibili che conosciamo) la partecipazione al dibattito pubblico. L’utopia della rete democratica, che favorisce il confronto pubblico e quindi la crescita del dialogo, si è infranta di fronte alla distopia di social network nei quali si tenta di arginare un’onda imponente di odio omofobico, misogino, razzistico con interventi censori casuali, inefficaci e spesso, come in questo caso, semplicemente stupidi.

[1] Unesco, Fostering freedom online: the role of Internet intermediaries, 2014, p. 147, nota 755. Url: http://unesdoc.unesco.org/images/0023/002311/231162e.pdf

 Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 17 ottobre 2017.

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Cosa sta succedendo a Facebook?

Ieri ho segnalato, con un articolo sugli Stati Generali, l'assurda censura in cui è incorso su Facebook lo scrittore Marco Rovelli, noto per il suo impegno per i diritti civili, il cui profilo è stato bloccato con l'accusa di aver scritto la parola "negro". Qualche ora dopo il mio articolo, è capitato anche a me di subire la rimozione di un contenuto giudicato non rispettoso degli standard di comunità. Si trattava, in questo caso, di un vecchio post contenente l'affermazione "Antonio Vigilante è terronista", un post autoironico (terronista da terrone: sono un pugliese che vive a Siena) assolutamente innocuo. Per aver linkato l'articolo in cui parlavo di questa censura, oggi sono stato bloccato per un giorno.

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Sono un terronista (e Facebook mi censura)

Per una singolare coincidenza, poche ore dopo il mio articolo sulla assurda censura di Marco Rovelli, Facebook mi ha notificato di aver rimosso un mio contenuto che avrebbe violato gli standard della comunità. Per quello che riesco a capire, le cose sono andate come segue. Molto tempo fa - tanto tempo, che nemmeno me ne ricordavo - ho scritto un post nel quale mi davo del "terronista". Una uscita ironica (non particolarmente brillante, lo ammetto) che alludeva alla mia condizione di foggiano (quindi terrone) a Siena. E' un aggettivo che uso qualche volta con i miei amici senesi, insieme al verbo terronizzare. Cose come: "Basta lavorare, lasciatevi terronizzare un po', andiamo a prendere un caffè". Ora, è successo che a qualcuno - che segue le mie cose con tanta attenzione da scovare un post che avevo dimenticato - quell'aggettivo non è piaciuto. Può essere che gli sia sfuggita la n, ed abbia letto terrorista, o che davvero abbia pensato che ce l'avessi con i terroni. E si è indignato tanto, da non scrivermi per chiedermi il senso di quel post (glielo avrei spiegato volentieri), ma da segnalarmi a Facebook. Come se avessi incitato a mettere i terroni sulla graticola.  All'oscuro censore di Facebook è giunta questa segnalazione, e invece di farsi una risata, ha ritenuto opportuno, anzi necessario rimuovere il mio post e segnalarmelo.

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Facebook censura Marco Rovelli

"Questi racconti sono la versione moderna della Storia della colonna infame di Manzoni. Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati." Sono parole di Erri De Luca che si trovano sulla quarta di copertina di Lager italiani (Rizzoli), il libro del 2006 con il quale Marco Rovelli denunciava la vergogna dei Centri di Permanenza Temporanea, nati dalla stessa logica concentrazionaria che ha dato origine ai lager nazisti. Rovelli era andato nei Centri, aveva incontrato i reclusi , aveva ascoltato le loro storie e le aveva raccontate in un libro che è ancora oggi importante per capire le (bio)politiche di gestione delle migrazioni nel nostro paese. Ed ha continuato questo lavoro di ascolto e di narrazione legato alla difesa dei diritti umani e civili nei dieci anni successivi, ad esempio con la bellissima storia del musicista rom Jovica Jovic (La meravigliosa vita di Jovica Jovic, appunto) pubblicata da Feltrinelli del 2013. Bene: questa mattina Rovelli è stato bloccato da Facebook. L'accusa: aver scritto la parola "negro". Il post incriminato - che è stato rimosso, e dopo il quale Rovelli è stato bloccato - è il seguente:

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7 ottobre, sabato

Le accarezzavo le orecchie e la testa. Negli ultimi cinque anni della mia vita accarezzarle le orecchie e la testa è stato il modo per ancorarmi a qualcosa di buono, di dolce, di bello. Accarezzarle le orecchie e la testa mentre lei chiudeva gli occhi per godersi quel momento. Ma questa notte non c’era nulla di dolce, né di bello. Solo l’oscena ingiustizia di assistere alla sua agonia senza poter far nulla. Vederla andare, senza saperla davvero accompagnare. Perché quando le accarezzavo la testa lei era già altrove. Strappava alla morte ogni respiro, lottando con tutta sé stessa. Finché voler vivere non è stato più sufficiente.
Si muore. Lo so. Sabbe sankhara anicca. Me lo ripeto mille volte al giorno. Ho sentito morire molte persone, e molte mi erano care. Ma mai una morte mi è sembrata così ingiusta, così inaccettabile.
La morte di un cane. Sì. Un semplice cane. Soltanto un cane. Ma negli occhi di quel cane – negli occhi di Happy – c’era tutto il dolore, la dignità, la pazienza, la compassione dell’umanità offesa.

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7 ottobre, sabato


Le accarezzavo le orecchie e la testa. Negli ultimi cinque anni della mia vita accarezzarle le orecchie e la testa è stato il modo per ancorarmi a qualcosa di buono, di dolce, di bello. Accarezzarle le orecchie e la testa mentre lei chiudeva gli occhi per godersi quel momento. Ma questa notte non c'era nulla di dolce, né di bello. Solo l'oscena ingiustizia di assistere alla sua agonia senza poter far nulla. Vederla andare, senza saperla davvero accompagnare. Perché quando le accarezzavo la testa lei era già altrove. Strappava alla morte ogni respiro, lottando con tutta sé stessa. Finché voler vivere non è stato più sufficiente.
Si muore. Lo so. Sabbe sankhara anicca. Me lo ripeto mille volte al giorno. Ho sentito morire molte persone, e molte mi erano care. Ma mai una morte mi è sembrata così ingiusta, così inaccettabile.
La morte di un cane. Sì. Un semplice cane. Soltanto un cane. Ma negli occhi di quel cane - negli occhi di Happy - c'era tutto il dolore, la dignità, la pazienza, la compassione dell'umanità offesa.

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Perché antifascismo ed anticomunismo non sono la stessa cosa

Sto leggendo Oltre i cento passi (Piemme) di Giovanni Impastato, fratello di Peppino.  Se la figura di Peppino Impastato oggi è nota a tutti, o quasi, lo si deve al bel film di Marco Tullio Giordana: I cento passi, appunto. Ma, come spesso succede, il personaggio del film si è sovrapposto a quello reale fin quasi a farlo scomparire. Peppino Impastato è per tutti il ragazzo che gridava che “la mafia è una montagna di merda” davanti alla casa del mafioso Tano Badalamenti (una scena improbabile, scrive il fratello, perché “gli Impastato consideravano Badalamenti un parvenu”). Giovanni rivendica l’altro Peppino: non il “chierichetto della legalità”, ma il “comunista rivoluzionario”. Una figura certo meno comoda, meno vendibile dopo la fine dei comunismi.
Sul suo profilo Facebook il teologo Vito Mancuso, commentando l’approvazione alla Camera della legge contro la propaganda fascista, ha scritto oggi: “Giusto punire la propaganda fascista. Ma giusto sarebbe punire anche la propaganda comunista, a sua volta nemico mortale della libertà”.  E’ un giudizio diffuso, anche se spesso sulla bocca (o sulle tastiere) di persone meno raffinate di Mancuso (e che non varrebbe la pena di commentare, se non venisse ormai anche da persone come Mancuso). In astratto, il giudizio sembra condivisibile. Non si può negare che il comunismo abbia negato la libertà, ed un bel po’ di altri diritti elementari (compreso quello alla vita), nella maggior parte dei paesi in cui si è realizzato. Ma le questioni non vanno considerate in astratto, bensì nella concretezza della situazione storica.

L’Italia è un paese che ha avuto il fascismo, non il comunismo. Milioni di italiani hanno avuto, a causa del fascismo, tragedie e lutti nelle loro famiglie: lo zio ucciso per antifascismo, ma anche l’altro mandato a morire in Russia per permettere a un dittatore di sedersi al tavolo delle trattative. Milioni di Italiani hanno conosciuto la privazione della libertà, la guerra, le bombe, la miseria, per le ambizioni personali di Mussolini. I russi hanno subito anche di peggio, da Stalin. Ma noi siamo italiani, non russi. Siamo in un paese democratico la cui Costituzione è stata scritta anche dai comunisti. In un paese in cui il Partito Comunista è stato, insieme alla Democrazia Cristiana, il principale protagonista di decenni di democrazia imperfetta, ma non peggiore di quella della Seconda Repubblica. In un paese in cui un comunista come Peppino Impastato ha dato la sua vita per combattere la mafia. Prima di lui la mafia aveva ucciso il sindacalista socialista Placido Rizzotto; dopo di lui ucciderà il sindacalista comunista Pio La Torre. Ma l’elenco sarebbe lungo. Siamo in un paese in cui, in nome del socialismo, un bracciante pugliese è riuscito a riscattarsi dalla sua condizione di analfabetismo ed ha organizzato il proletariato agricolo perché lottasse per i propri diritti. Si chiamava Giuseppe Di Vittorio: ed oggi può accadere che, nella sua stessa Capitanata, un sindaco appena eletto faccia rimuovere la targa a lui dedicata all’ingresso del palazzo pubblico. E comunista era anche un altro foggiano, Dino Frisullo, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per i diritti die migranti e dei curdi, pagando con la prigionia nelle carceri turche. Per i mass-media era un pacifista, ma lui rivendicava il suo comunismo. “Se morissi adesso o fra due giorni o un anno, ecco il mio testamento, il testamento di un comunista / Avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso”, scriveva.

Ora, per Vito Mancuso, questo comunista “avido e curioso” non sarebbe diverso da un fascista, e non diversi dai fascisti sarebbero Impastato, Di Vittorio, Rizzotto, Frisullo. E i tanti italiani che nel comunismo hanno trovato la via per riscattarsi dalla secolare sottomissione delle masse proletarie italiane (spesso ammazzati dalle forze dell’ordine, come il bracciante lucano Rocco Girasole – anche questo un nome tra i tanti). Non è solo una menzogna storica. E’ un grave errore politico, in un tempo in cui non esiste più in Parlamento una sinistra (il Partito Democratico è un partito di centro nel quale sono sempre più frequenti posizioni apertamente di destra) e forze politiche che rappresentano istanze più fasciste che di destra si preparano a guidare il paese.

Nell’immagine: Giuseppe Di Vittorio in comizio.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali del 13 settembre 2017.

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