Famiglia
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Scuola: la laicità difficile
Qualche mese fa ha fatto discutere la scelta del preside di un istituto comprensivo di Porto Tolle, nel cattolicissimo Veneto, di non consentire al vescovo di Chioggia di far visita alla sua scuola. L’argomento del dirigente era semplice: la scuola pubblica e statale è laica. La semplicità, sensatezza, evidenza dell’argomento naturalmente non sono state sufficienti ad evitare le polemiche, per lo più politiche: per certe forze conservatrici notizie del genere sono manna dal cielo.
Non si è fatto troppi problemi invece il dirigente dell’istituto “Ungaretti-Madre Teresa” di Manfredonia, che sulla homepage del sito pubblicizza con grande enfasi la visita di monsignor Moscone, nuovo vescovo della Diocesi. “Un pieno di emozioni questa mattina per alunni, docenti, personale e genitori”, si legge. E le foto fanno quasi tenerezza: sembrano uscite dagli anni Cinquanta, quando il Paese era fervidamente, unanimemente cattolico, i pochi anticonformisti, come i coniugi Bellandi di Prato – che si erano permessi di sposarsi solo civilmente – venivano pubblicamente umiliati e Dio, Patria e Famiglia era uno slogan che non faceva sorridere. Se non fosse per gli smartphone che spuntano qua e là, le foto sarebbero perfettamente vintage: il vescovo dall’aria bonaria, il preside compiaciuto, lo stemma episcopale in bella mostra, e soprattutto loro, i bambini. Col grembiulino azzurro, le bandierine, le mani sollevate per accompagnare chissà quale canto.
Cristianesimo: che farsene ormai?
Fa un certo effetto leggere Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede di François Jullien (Ponte alle Grazie). Jullien non è solo uno dei massimi pensatori europei; è uno dei pochissimi che riesca a pensare oltre l’Europa, grazie alle sue competenze di sinologo. In quest’opera si occupa, dunque, di cristianesimo. E comincia così: “Vi chiederete perché mi occupi oggi proprio di questo – ovvero, del ‘cristianesimo’. Che cosa farsene, ormai?”. E poco oltre aggiunge: “Finito il tempo del suo dominio e poi quello della sua denuncia, e oggi nel tempo della sua marginalizzazione, occorre infatti tracciare il bilancio di quel che il cristianesimo ha fatto avvenire nel pensiero”. Non voglio discutere, qui, le risorse che Jullien scopre nel cristianesimo e crede di poter riprendere anche senza la fede; dirò solo che sono risorse che con ogni probabilità sorprenderebbero buona parte dei credenti. Mi interessa soffermarmi sull’incipit, sul punto di partenza del suo discorso. Dunque: il cristianesimo è giunto al momento dei bilanci?
Scuola: la laicità difficile
Cristianesimo: che farsene ormai?
Fa un certo effetto leggere Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede di François Jullien (Ponte alle Grazie). Jullien (nella foto) non è solo uno dei massimi pensatori europei; è uno dei pochissimi che riesca a pensare oltre l'Europa, grazie alle sue competenze di sinologo. In quest'opera si occupa, dunque, di cristianesimo. E comincia così: "Vi chiederete perché mi occupi oggi proprio di questo – ovvero, del 'cristianesimo'. Che cosa farsene, ormai?". E poco oltre aggiunge: "Finito il tempo del suo dominio e poi quello della sua denuncia, e oggi nel tempo della sua marginalizzazione, occorre infatti tracciare il bilancio di quel che il cristianesimo ha fatto avvenire nel pensiero". Non voglio discutere, qui, le risorse che Jullien scopre nel cristianesimo e crede di poter riprendere anche senza la fede; dirò solo che sono risorse che con ogni probabilità sorprenderebbero buona parte dei credenti. Mi interessa soffermarmi sull'incipit, sul punto di partenza del suo discorso. Dunque: il cristianesimo è giunto al momento dei bilanci? E' qualcosa di cui possiamo quasi ormai parlare al passato? Il punto di osservazione italiano è diverso, naturalmente, da quello francese. Lì una società multiculturale ed uno Stato rigorosamente laico, qui una laicità solo formale, quotidianamente immiserita dai crocifissi nelle scuole e nei tribunali, dall'insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, da una classe politica da sempre subalterna alla Chiesa, eccetera. E tuttavia anche da noi l'incrinatura è evidente. La Chiesa cattolica ricorda un po' una donna che un tempo era stata apprezzata, ma che non ha saputo affrontare il passare degli anni; e non ha saputo farlo, proprio perché ha cercato di restare al passo con i tempi. Come una donna non più giovane che ricorra a vistosi interventi di chirurgia plastica, la Chiesa ha cercato di scollarsi di dosso una lunga tradizione di dolorismo, le madonne con gli stiletti nel cuore, gli atti di dolore e di pentimento, s'è convertita alle chitarre e al giovanilismo, e cerca disperatamente di presentarsi come la religione della gioia e della positività. Papa Francesco è perfetto da questo punto di vista: il degno rappresentante in terra del Buddy Christ del film Dogma di Kevin Smith. Il messaggio un tempo era: sei un peccatore, senza il nostro aiuto finirai all'Inferno. Oggi è: Dio ti ama, è morto per te, per la tua felicità e salvezza! Come non ricambiare un dono così generoso? L'ingratitudine è l'argomento principale dell'evangelizzazione postmoderna. Ma non funziona granché.
Quelli che non la bevono
La parola apota fu creata all’inizio degli anni Venti da Prezzolini per indicare “quelli che non se la bevono”, una categoria di uomini in grado di sottrarsi al gioco delle contrapposizioni e considerare le cose con distacco, cercando la verità oltre le passioni di parte. La parola non ha avuto grande successo; l’idea ne ha avuto fin troppo. L’Italia di oggi è il paese degli apoti. Nessuno vuole berla; nessuno vuole lasciar intendere di essere ingenuo. Come una vera epidemia si diffonde nella società il sospetto: dietro tutto dev’esserci dell’altro. Bisogna sospettare, sospettare sempre.
Corruptio optimi pessima, dicevano gli antichi. Non c’è nulla di peggio della corruzione delle cose migliori. L’apotismo attuale è la corruzione di una cosa tanto importante quanto poco diffusa: il pensiero critico. Che è pensiero, appunto: e dunque una cosa difficile. Esige lo studio, l’informazione, la considerazione attenta delle ragioni e dei torti. In una società complessa, sono davvero pochi quelli che possono vantare una capacità critica nei campi diversi che rientrano nella sfera politica: l’economia, l’istruzione, la politica estera eccetera. L’impresa è talmente disperata che si finisce per gettare la spugna. E cercare scorciatoie. Una è quella di sempre: gli stereotipi, gli slogan, la semplificazione isterica della realtà. La strategia sottocognitiva che genera il leghismo salviniano, la politica del rancore, dell’odio, del capro espiatorio. L’altra (che alla prima spesso conduce) è il sospetto come sistema di vita. L’abbiamo visto all’opera l’altro giorno, in occasione della Giornata mondiale del clima. Migliaia di giovani che in tutto il mondo manifestano per difendere il pianeta al seguito di una ragazzina di sedici anni? Ma a chi vogliono darla a bere? Davvero si può essere così ingenui? Davvero una ragazzina può sfidare i potenti della terra? Ci dev’essere dietro qualcosa. Un sito pieno zeppo di pubblicità assicura che si tratta di una trovata pubblicitaria. E che non può avere alcun interesse per l’ambiente, dal momento che è una ragazzina con Asperger, ed è noto che chi ha l’Asperger non è in grado di provare empatia.
Non occorre dimostrare: basta sollevare un sospetto. Anche non legittimo: la legittimità la conquista con la diffusione. E la diffusione è sicura.
L’appartenenza a un movimento politico ha sempre un ritorno in termini di immagine di sé. Il comunista sognava un mondo libero e giusto, e intanto sentiva di appartenere a una avanguardia sociale, e questo sentimento inseriva dinamicità, eroismo perfino nella sua vita quotidiana. Il democristiano poteva sentirsi al contrario custode della democrazia, della sacralità della religione, della famiglia e dei valori tradizionali, ed anche questo, nonostante la disperata mediocrità di tanti politici democristiani, gli conferiva una qualche patina eroica. Perfino l’elettore di Forza Italia guadagnava qualcosa, in termini di immagine di sé. Poteva sentirsi membro, se non altro per simpatia e affinità, di una classe rampante, di successo, dell’avanguardia economica del paese. E’ questa dinamica che ha portato tanti operai a votare per Berlusconi.
Oggi l’italiano medio (che, lo dicono gli studi, cognitivamente è spesso regredito alla condizione di analfabeta funzionale) votando il nuovo movimento degli apoti – sì, sto parlando del Movimento 5 Stelle – può sentirsi uno che la sa lunga, uno che, grazie alle ore spese in rete a leggere e condividere, ha acquisito il terzo occhio: la visione di Quello che c’è dietro. Visione spesso confusa, a dire il vero. Ma cosa si pretende? I poteri forti fanno di tutto per nascondere il Vero. Ma loro sanno, comunque, che Qualcosa c’è. Sempre. Qualcuno darà loro degli ignoranti. Qualcuno dirà che non hanno studiato. Non c’è da stupirsi. Il Sistema ha creato tutte queste cose – le scuole, il sistema sanitario, la scienza… – per escludere dalla vera conoscenza e per calunniare loro, i liberi cercatori della verità. I frequentatori dell’Università della vita, l’unica che possa realmente rilasciare diplomi.
Non c’è nulla che un apota non possa scoprire. Non c’è fenomeno dietro il quale non intuisca un noumeno, per dirla con Kant. Di una sola cosa l’apota non è capace: sospettare che gliela stiano dando a bere, strumentalizzando il suo costante bisogno di essere rassicurato sulle sue capacità di dominio cognitivo del mondo. Quand’anche lo sospettasse, metterebbe a tacere il suo sospetto; e magari si chiederebbe chi sta manovrando nell’ombra per fargli venire dei sospetti.
Articolo pubblicato su l’Attacco, 20 marzo 2019.
Quelli che non la bevono
Corruptio optimi pessima, dicevano gli antichi. Non c'è nulla di peggio della corruzione delle cose migliori. L'apotismo attuale è la corruzione di una cosa tanto importante quanto poco diffusa: il pensiero critico. Che è pensiero, appunto: e dunque una cosa difficile. Esige lo studio, l'informazione, la considerazione attenta delle ragioni e dei torti. In una società complessa, sono davvero pochi quelli che possono vantare una capacità critica nei campi diversi che rientrano nella sfera politica: l'economia, l'istruzione, la politica estera eccetera. L'impresa è talmente disperata che si finisce per gettare la spugna. E cercare scorciatoie. Una è quella di sempre: gli stereotipi, gli slogan, la semplificazione isterica della realtà. La strategia sottocognitiva che genera il leghismo salviniano, la politica del rancore, dell'odio, del capro espiatorio. L'altra (che alla prima spesso conduce) è il sospetto come sistema di vita. L'abbiamo visto all'opera l'altro giorno, in occasione della Giornata mondiale del clima. Migliaia di giovani che in tutto il mondo manifestano per difendere il pianeta al seguito di una ragazzina di sedici anni? Ma a chi vogliono darla a bere? Davvero si può essere così ingenui? Davvero una ragazzina può sfidare i potenti della terra? Ci dev'essere dietro qualcosa. Un sito pieno zeppo di pubblicità assicura che si tratta di una trovata pubblicitaria. E che non può avere alcun interesse per l'ambiente, dal momento che è una ragazzina con Asperger, ed è noto che chi ha l'Asperger non è in grado di provare empatia.
Essere rizomi
Green Book di Peter Parrelly è un film gradevole, ma poco più; certo non passerà alla storia del cinema. C’è una scena, però, che resta. Il film racconta (e romanza) la storia vera di un musicista nero, Don Shirley, che nell’America degli anni Sessanta decide di fare una tournée negli stati del sud. Per farlo ha bisogno di un autista che sia anche in grado di occuparsi della sua incolumità fisica, e lo trova in Tony Vallelonga, un buttafuori italiano non proprio onestissimo e un po’ razzista. C’è questa scena, dunque, in cui l’autista italiano rivendica il suo essere nero, più nero del musicista nero. Perché lui, Tony, è un proletario, è cresciuto nel Bronx, vive la vita difficile di chi è escluso, mentre l’altro sì, è nero, ma è ricco, abita una casa lussuosa, ha una vita di successo. Shirley allora scende dalla macchina, offeso. E poi si sfoga. No, la sua condizione non è quella di un privilegiato. E’ un nero che non è amato dai neri, perché privilegiato; è un pianista classico che non può suonare musica classica, perché non gli è consentito (è musica da bianchi), ed è costretto a fare la musica che piace ai bianchi per sentirsi colti; ed è omosessuale. La sua condizione è quella di chi non è più e non è ancora, per usare un’espressione del filosofo iraniano Dariush Shayegan. Non è più nero e non è ancora bianco. Abita uno spazio intermedio, ed è un abitare difficile.
Confesso che la scena mi ha colpito per la mia condizione di fuoriuscito, che è comune a tanti. Il non più-non ancora è la mia situazione quotidiana: non più pugliese, non ancora toscano. Se parlo di Foggia, mi si dice che non ne ho più il diritto, perché me ne sono andato; e se parlo (se parlo in modo critico) di Siena – la città in cui ora vivo – spesso capita che qualcuno mi dica che posso tornarmene a Foggia. Il non più-non ancora è una condizione che dovrebbe condannare all’afasia: si perde il diritto di parlare, per manifesta non appartenenza.
Si cita spesso una frase di Simone Weil: “Chi è sradicato sradica”. Si trova ne L’enracinement, un libro che, come capita spesso in Simone Weil, è pieno di cose sublimi miste a semplici idiozie. Questo discorso sullo sradicamento, peraltro, è uno degli argomenti del suo antisemitismo: perché gli ebrei, il popolo della diaspora, sono nella sua analisi – semplicemente delirante – “un manipolo di sradicati” che hanno “causato lo sradicamento in tutto il globo terrestre”. Di fronte a queste uscite, che sono tra i momenti più oscuri della filosofia europea del Novecento, vien da fare l’elogio dello sradicamento: dell’essere liberi, autonomi, creativi, in grado di costruire la propria identità e il proprio destino abbandonando gli ormeggi e inoltrandosi in mare aperto. Ma sarebbe retorica o poco più.
Mi viene in mente piuttosto l’immagine del rizoma, che Gilles Deleuze contrapponeva al modello gerarchico dell’albero. La radice affonda nella terra, verticalmente; salda, fissa, immobilizza. Il rizoma cresce libero, orizzontale, lega un punto all’altro; la sua natura non è quella di fissare, ma di connettere. Un sistema rizomatico è un sistema che non ha centro, ma mette in comunicazione diversi centri. E’ un sistema aperto.
Ecco: mi pare che oggi che molti tornano a parlare di radicamento, di patria, di identità, e già si sentono non troppo lontane le parole sangue e terra, sia importante pensarsi come rizomi. Rinunciare all’essere centrati e mettere piuttosto in collegamento, a cominciare da sé stessi, mondi diversi. Attraversare i confini fisici, culturali, mentali. Si dirà che è questo esattamente che vuole il capitalismo. Una massa di persone senza storia, senza legami, che diventano nulla più che consumatori e lavoratori disponibili a qualsiasi collocazione. E’ l’analisi, sintetizzata in slogan ripetuti fino alla nausea che sfiorano ormai il ridicolo, che ha fatto il successo mediatico di Diego Fusaro: il “turbocapitalismo apolide”, eccetera. Ma il rizoma non è la negazione della radice. Il rizoma è connessione: mette in contatti le radici. La mia, la tua. I rizomi – le persone-rizoma – vivono per creare legami fitti, complessi, insoliti, per costruire una radice unica e molteplice che è l’unica possibilità di resistere alla disumanizzazione in corso.
Pubblicato su L’Attacco, 13 marzo 2019.
Sesso: quel divieto di parlarne in cui cresce la violenza
Ieri sera mi sono masturbato guardando un video porno. Se me ne uscissi con questa confessione durante una cena tra amici, le reazioni andrebbero dal sorriso imbarazzato allo sdegno; e probabilmente qualche amicizia ne uscirebbe compromessa. Se lo scrivessi sul mio profilo Facebook, molti mi accuserebbero – è successo per molto meno – di indegnità morale, chiedendo il mio urgente allontanamento da scuola. E se iniziassi così un articolo, come sto facendo ora, molti si chiederebbero dove voglio andare a parare.
E’ convinzione condivisa da coloro che a vario titolo si occupano di società – sociologi, psicologi, educatori – che ci siamo felicemente lasciati alle spalle la repressione sessuale, e che siamo in una società perfino ipersessualizzata. “Uomini e donne ora ricercano il piacere sessuale fine a se stesso, rinunciando persino agli orpelli convenzionali prescritti dal sentimentalismo”, scriveva Christopher Lasch ne La cultura del narcisismo. Era il 1979. In Italia si inaugurava la stagione delle commedie sexy ed ogni città poteva vantare almeno un cinema a luci rosse. Oggi un sito come Pornhub può vantare più di trentatré miliardi di visite all’anno. Ma la liberazione sessuale si è arenata di fronte ad un ultimo tabù: la confessione.
Nella Storia della sessualità Michel Foucault coglieva la relazione singolare che la sessualità occidentale ha intrattenuto con il cattolicesimo: la pratica della confessione ha costretto l’uomo e la donna occidentali a narrare di continuo, in modi anche minuziosi (quale peccato? quante volte?), la propria sessualità. E’ una narrazione che resta confinata nello spazio privatissimo del confessionale, ma è un sempre una narrazione, ossia una presentazione di sé all’altro. Una conseguenza non secondaria della crisi del cattolicesimo – una crisi significativamente legata anche ai continui scandali sessuali dei sacerdoti – è la fine di questa forma di narrazione, alla quale è forse da attribuire il fatto singolare che, mentre il sesso è ovunque, mentre l’accesso alla pornografia è facile come mai in passato, raccontare la propria sessualità resta un tabù.
Si obietterà che esistono libri erotici che scalano le classifiche. Senz’altro: ma la lettura di un libro erotico, o pornografico (alcune pornostar oggi sono anche scrittrici: si pensi a Sasha Grey) sta alla narrazione della propria sessualità come la lettura di un romanzo noir o di un giallo sta alla confessione di un omicidio.
La conseguenza di questo divieto tacito è che non ci è possibile costruire un discorso comune sul sesso: diventiamo etimologicamente idioti, abitiamo mondi privati, chiusi in sé, monadi di piacere senza porte né finestre. E in questi mondi privati, che sono stati sottratti allo sguardo pubblico col pretesto dell’intimità e del pudore, cresce il disagio, il malessere, la patologia (che non viene spesso curata perché non si riesce a parlarne nemmeno al medico), la solitudine. E cresce la violenza.
Se il discorso di ognuno di noi sulla propria sessualità (la narrazione, non la teoria: di teorie sul sesso ne abbiamo fin troppe) è vietato, lo è a maggior ragione quello dei soggetti che più di qualsiasi altro la nostra società costringe fuori dalla scena. Le chiama prostitute, ma il più delle volte non sono che schiave. Donne costrette a subire quotidianamente decine di stupri, ragazze africane o dell’est, a volte minori. La narrazione della propria vita sessuale – del proprio martirio sessuale – da parte di una schiava è la narrazione oscena per eccellenza, il racconto che non bisogna consentire, che bisogna ridurre al silenzio. Credo che uno dei libri più importanti usciti negli ultimi anni in Italia sia Le ragazze di Benin City di Isoke Aikpitanyi e Laura Maragnani. Un libro uscito nel 2007 presso un piccolo editore (Melampo) nel quale una ragazza nigeriana, ridotta in schiavitù in Italia, racconta la sua storia a una giornalista di Panorama. Un libro terribile. Un terribile atto di accusa contro la nostra idiozia sessuale, che diventa stupro, uno stupro continuo, una quotidiana umiliazione della donna nera da parte dell’uomo bianco, una follia violenta che la parola prostituzione riesce a far entrare nei canoni della normalità, quasi della accettabilità sociale, con il contributo di quel razzismo che torna sempre utile per favorire lo sfruttamento, sessuale o lavorativo, della donna e dell’uomo nero. “Le ragazze sono la vittima designata, l’agnello sacrificale. Chiamale come vuoi ma la sostanza è sempre questa. Un’africana stuprata è un’italiana salvata. E l’africana stuprata non può parlare perché non le dà retta nessuno”, scrive Aikpitanyi. Non può parlare. E se parla, il suo discorso non diventa discorso comune. E non perché soggetti come gli schiavi africani sono esclusi dai nostri discorsi comuni, ma perché un discorso comune sul sesso semplicemente non esiste.
Ecco, dunque, dove volevo andare a parare: “ieri sera mi sono masturbato guardando un video porno” potrebbe essere non la provocazione di una persona sopra le righe, non l’uscita infelice di una persona che non conosce o non è in grado di rispettare le regole sociali, e nemmeno l’esternazione di un porco, talmente ossessionato dal sesso da parlarne a sproposito, ma un primo passo, rivoluzionario, per cominciare a costruire un discorso comune e districare l’intreccio di sesso e violenza, di sesso e sfruttamento, di sesso e distruzione che è tra le ferite più dolorose della nostra società.
Pubblicato su Gli Stati Generali, 10 marzo 2019.
Le radici culturali dell'abbandono scolastico
Poco dopo aver letto l’articolo di Valerio Camporesi sul difficile problema dell’abbandono scolastico mi è capitata sotto mano una intervista al filosofo Umberto Galimberti che meriterebbe di essere discussa punto per punto. Mi limiterò qui a considerare la seguente affermazione, che mi sembra un buon punto di partenza per parlare di abbandono scolastico: “Per me fino a 18 anni bisogna tenere una scuola dell’obbligo, inevitabilmente. E i ragazzi vanno in qualche modo sedotti… sedotti con la cultura. Allora vanno a scuola volentieri.”
Dunque: la cultura e la seduzione. La scuola ha la cultura, che per un filosofo come Galimberti è evidentemente qualcosa di straordinario, e tuttavia non basta da sola, ha bisogno di essere resa piacevole e interessante: l’esempio è quello della Commedia letta da Benigni. Ma la scuola ha la cultura? No. La scuola ha una cultura. I programmi scolastici, o per meglio dire le programmazioni dei singoli docenti, offrono agli studenti una fetta di cultura, dalla quale restano escluse molte cose. Restano esclusi molti aspetti della cultura occidentale che non rientrano nel canone occidentale, così come resta esclusa praticamente tutta la cultura orientale, africana, sudamericana. Ma resta esclusa, soprattutto, la cultura delle classi subalterne. La cultura scolastica rappresenta una parte significativa della cultura in cui si riconoscono le classi alte della società italiana: una cultura lodevolissima, fatta di straordinari capolavori letterari, filosofici, artistici, ma che non è la cultura, non ha, di fatto, un valore universale, non è una casa comune degli italiani. Si dirà che è compito della scuola far sì che lo diventi. Può essere. Ma intanto non tutti gli studenti che entrano a scuola si ritrovano in quella dimora culturale: alcuni perché appartenenti a classi subalterne, altri perché stranieri, altri ancora per entrambe le ragioni.
Mi pare che qui vada cercata una delle ragioni dell’abbandono scolastico. Non dico nulla di nuovo, naturalmente. Ma dopo Gramsci, don Milani, Bourdieu, occorre ancora constatare il carattere monoculturale della scuola, la sua incapacità di essere ponte tra culture, di farsi luogo di dialogo tra visioni del mondo. Senza un riconoscimento reciproco non è possibile alcun lavoro educativo e culturale. Se lo studente porta a scuola una cultura diversa da quella scolastica, e se la scuola con quella cultura non è in grado di dialogare, l’esito è solo uno: l’abbandono. Lo studente prende atto della incompatibilità dei due mondi, e sceglie quello al quale sente di appartenere: il mondo della famiglia.
C’è poi la faccenda della seduzione. La Commedia è straordinaria, ma per un adolescente può essere noiosa. E allora si cerchi di renderla divertente. Ma se la Commedia è straordinaria, perché risulta noiosa? Com’è che tutte queste cose eccezionali conciliano il sonno? Si dirà che è perché i ragazzi di oggi sono abituati alla iperstimolazione da videogiochi e smartphone, e faticano a restare concentrati su un testo o su un pensiero complesso. Ma quando eravamo ragazzini noi gli smartphone non esistevano, e Dante ci annoiava a morte ugualmente.
Bisogna riflettere sulla natura dell’apprendimento. Al di fuori della scuola, esso ha due caratteristiche: è naturale e sociale. La più grande impresa della vita, dal punto di vista dell’apprendimento, è la conquista del linguaggio. Che avviene senza alcun insegnamento, in modo spontaneo, ma che non è possibile senza relazioni sociali. Questo riguarda, a conti fatti, tutti i nostri apprendimenti. Impariamo quando ne abbiamo davvero bisogno – un bisogno organico – e lo facciamo in situazioni sociali. Ora, l’apprendimento scolastico non ha né la prima né la seconda caratteristica. E’ un apprendimento artificiale, che si presenta in assenza di bisogno, ma che soprattutto avviene (avviene?) in assenza di una vera situazione sociale: perché una classe che ascolta un docente non è una situazione sociale.
Ed è questa l’altra causa di abbandono scolastico. Una ipotesi che mi sembra meritevole di indagine è che l’abbandono scolastico sia più elevato in quei gruppi sociali nei quali non solo esiste una cultura diversa e lontana da quella scolastica, ma in cui sono più radicate forme di apprendimento sociale per bambini e adolescenti. A soffrire di più, a scuola, sono i bambini che vengono da gruppi nei quali non esiste una distinzione netta, nei compiti sociali, tra loro e gli adulti, e costantemente si chiede la loro collaborazione attiva nella vita sociale. Giunti a scuola, si trovano in un contesto in cui il fare lascia il posto all’ascoltare, che è una competenza che manca anche agli adulti, e si pretende che i bambini esercitino per cinque ore al giorno.
Se queste ipotesi non sono infondate, per combattere l’abbandono scolastico non basta essere più seduttivi. Bisogna diventare culturalmente umili, riconoscendo che esiste vita culturale anche al di fuori del canone scolastico, e cercare una socialità vera. Che vuol dire, tanto per cominciare, mandare una buona volta in pensione i banchi e le cattedre.
Pubblicato su Occhiovolante, 7 marzo 2019.
Essere rizomi
Sesso: quel divieto di parlarne in cui cresce la violenza
E' convinzione condivisa da coloro che a vario titolo si occupano di società - sociologi, psicologi, educatori - che ci siamo felicemente lasciati alle spalle la repressione sessuale, e che siamo in una società perfino ipersessualizzata. "Uomini e donne ora ricercano il piacere sessuale fine a se stesso, rinunciando persino agli orpelli convenzionali prescritti dal sentimentalismo", scriveva Christopher Lasch ne La cultura del narcisismo. Era il 1979. In Italia si inaugurava la stagione delle commedie sexy ed ogni città poteva vantare almeno un cinema a luci rosse. Oggi un sito come Pornhub può vantare più di trentatré miliardi di visite all'anno. Ma la liberazione sessuale si è arenata di fronte ad un ultimo tabù: la confessione.
Le radici culturali dell'abbandono scolastico
Dunque: la cultura e la seduzione. La scuola ha la cultura, che per un filosofo come Galimberti è evidentemente qualcosa di straordinario, e tuttavia non basta da sola, ha bisogno di essere resa piacevole e interessante: l'esempio è quello della Commedia letta da Benigni. Ma la scuola ha la cultura? No. La scuola ha una cultura. I programmi scolastici, o per meglio dire le programmazioni dei singoli docenti, offrono agli studenti una fetta di cultura, dalla quale restano escluse molte cose. Restano esclusi molti aspetti della cultura occidentale che non rientrano nel canone occidentale, così come resta esclusa praticamente tutta la cultura orientale, africana, sudamericana. Ma resta esclusa, soprattutto, la cultura delle classi subalterne. La cultura scolastica rappresenta una parte significativa della cultura in cui si riconoscono le classi alte della società italiana: una cultura lodevolissima, fatta di straordinari capolavori letterari, filosofici, artistici, ma che non è la cultura, non ha, di fatto, un valore universale, non è una casa comune degli italiani. Si dirà che è compito della scuola far sì che lo diventi. Può essere. Ma intanto non tutti gli studenti che entrano a scuola si ritrovano in quella dimora culturale: alcuni perché appartenenti a classi subalterne, altri perché stranieri, altri ancora per entrambe le ragioni.
Bataille l'indù
“Le credenze degli Indù e dei buddisti (sic) attribuiscono un’anima agli animali…”.
Questa perla si trova ne L’esperienza interiore di Bataille (tr. it., Dedalo, Bari 2002, p. 277 nota). Un libro nel quale il filosofo francese si propone di fare “un viaggio ai limiti dell’umano possibile” (p. 34), ma riesce a raggiungere – oltrepassandoli, perfino – soltanto i limiti della pazienza del lettore.
Non gli si può negare qualche onestà. Dopo aver sproloquiato per pagine e pagine sullo yoga, scrive con candore:
Ma in fondo, so ben poco dell’India… I pochi criteri cui mi attengo – più di distacco che di consenso – si legano alla mia ignoranza. Non ho esitazioni su due punti: i libri degli Indù sono, se non pesanti, dispersivi, questi Indù hanno, in Europa, amici che non mi piacciono (p. 49).
Se si concorda, almeno in parte, sugli amici che non piacciono (ah, Filippani Ronconi!), non si può fare a meno di notare che, se è vero che i libri Indù (quali?) sono pesanti e dispersivi, Bataille ha scritto un libro Indù. Più di uno, a dire il vero.
Lo ammette lui stesso in un post-scriptum del 1953:
Non sono soddisfatto di questo libro in cui avrei voluto esaurire la possibilità di essere. Non è che proprio mi dispiaccia. Ma ne odio la lentezza e l’oscurità. Vorrei dire la stessa cosa in poche parole (p. 275).
Inutile dire che il post-scriptum in questione è anche più lento ed oscuro del testo che vorrebbe chiarire. Si spera che emerga dalle carte di Bataille un post-scriptum al post-scriptum.
Bataille l'indù
Questa perla si trova ne L'esperienza interiore di Bataille (tr. it., Dedalo, Bari 2002, p. 277 nota). Un libro nel quale il filosofo francese si propone di fare "un viaggio ai limiti dell'umano possibile" (p. 34), ma riesce a raggiungere - oltrepassandoli, perfino - soltanto i limiti della pazienza del lettore.
Non gli si può negare qualche onestà. Dopo aver sproloquiato per pagine e pagine sullo yoga, scrive con candore:
Ma in fondo, so ben poco dell'India... I pochi criteri cui mi attengo - più di distacco che di consenso - si legano alla mia ignoranza. Non ho esitazioni su due punti: i libri degli Indù sono, se non pesanti, dispersivi, questi Indù hanno, in Europa, amici che non mi piacciono (p. 49).
Se si concorda, almeno in parte, sugli amici che non piacciono (ah, Filippani Ronconi!), non si può fare a meno di notare che, se è vero che i libri Indù (quali?) sono pesanti e dispersivi, Bataille ha scritto un libro Indù. Più di uno, a dire il vero.
Perché non sono patriottico: lettera a una studentessa
Cara *, qualche giorno fa mi hai fatto osservare, con tono di rimprovero, che non sono patriottico. Una osservazione che mi ha spiazzato un po’: come docente credo di dover essere preparato, di dovermi aggiornare, di dover fare il possibile per insegnare bene, cose così. Non mi sono mai posto il problema se un docente debba anche essere patriottico. Vediamo di capirlo insieme. Ti rispondo pubblicamente perché pubblico è il mio lavoro: ogni cosa che faccio o dico in aula è per me lavoro politico e sociale, per il quale devo rispondere a te, ma anche alla più ampia collettività che mi affida l’istruzione e l’educazione di più di un centinaio di ragazzi.
Sul fatto che io non sia patriottico hai perfettamente ragione. Non lo sono per niente. Mi irrita, anzi, tutta la retorica che accompagna il concetto, la parola di patria. Non sono patriottico, soprattutto, perché è un atteggiamento che mi pare in contrasto insanabile con uno dei valori per me fondamentali: la giustizia. Che, per come la vedo io, non è separabile da un’altra cosa: l’equanimità. Per essere giusti occorre riuscire a vedere l’altro come sé. Una cosa che diventa difficile, perfino impossibile quando ci sono un noi e un loro, quando si tracciano confini che prima o poi diventano trincee.
Sappiamo tutti che l’egoismo è un male. E sappiamo anche che esiste una cosa diversa dall’egoismo, che invece è un bene: l’amore di sé. Se non amiamo noi stessi non possiamo nemmeno amare gli altri. L’egoista, invece, è incapace tanto di amare gli altri quanto di amare se stesso. Dietro la sua arroganza, dietro la sua violenza c’è una terribile fragilità. Ora, a me pare che il patriottismo sia una sorta di egoismo in grande. E che sia possibile, anzi necessario un amore di sé in grande. Possiamo chiamarlo amore per il proprio paese, semplicemente.
Mi sembra che nessuna immagine possa esprimere il modo in cui io vedo questo amore meglio di quella dei cerchi concentrici, usata da Gandhi. Come saprai, Gandhi era un nazionalista; una delle sue idee fondamentali è espressa dalla parola swadeshi, che indica il servizio reso al proprio popolo. Per Gandhi questa predilezione non era però escludente: il popolo indiano è inserito nel più ampio contesto dell’umanità, non è un cerchio chiuso, ma un cerchio compreso in cerchi più grandi, ai quali partecipa. Ora, sono convinto che un docente debba amare il proprio paese in questo senso. E che questo amore debba guidare la sua pratica di insegnamento. Una scuola democratica lavora per costruire una società aperta, capace di dialogo e di scambio, curiosa e attenta a cogliere e rispettare la differenza non meno che a cogliere e rispettare la propria identità. Ma lavorare in questa direzione vuol dire anche avere uno sguardo lucido sul male. Gandhi avrebbe reso un pessimo servizio al suo paese, se avesse mancato di denunciare lo scandalo dei matrimoni tra bambini, il fanatismo religioso, il disprezzo verso gli intoccabili, eccetera. Amava il suo paese, e per questo non poteva fare a meno di metterne a nudo i mali. Perché una ferita non vista non viene curata, e una ferita non curata va in cancrena e uccide.
Tra le ragioni per le quali ti sembro poco patriottico c’è il fatto che, come mi hai fatto notare, a lezione parlo di cose come i crimini compiuti dagli italiani in guerra e il nostro colonialismo. Dici che anche altri paesi hanno fatto guerre con i crimini che comportano, e che noi italiani abbiamo fatto e facciamo anche molte cose buone. Naturalmente sono d’accordo su questo secondo punto; non concordo con il primo, sia perché non tutti i paesi sono uguali, e ci sono colonizzatori e colonizzati – né posso mettere su uno stesso piano, in guerra, la Germania nazista e l’Inghilterra, pur venendo da una città che è stata quasi rasa al suolo dai bombardamenti inglesi – sia perché io non sono né inglese né tedesco, ma italiano, ed è giusto che mi preoccupi di quello che abbiamo fatto noi, che hanno fatto anche persone della mia famiglia, come mio nonno che è stato mandato in Etiopia ad uccidere gente inerme o mio zio che è morto congelato in Russia. Affinché non accada di nuovo, come si dice. Non sono troppo convinto, a dire il vero, che chi non studia la storia sia condannato a ripeterla (i fascisti studiavano la storia romana proprio per ripeterla), ma non credo nemmeno che tacere sulla vergogne del colonialismo italiano sia il modo migliore per aiutare gli italiani – e segnatamente i giovani – ad avere una coscienza esatta del proprio passato, e dunque del presente che da quel passato proviene. E lo stesso vale per gli altri mali.
L’Italia è un paese meraviglioso. Ma è anche un paese profondamente ferito. E’ un paese che ha la mafia, la camorra, la ndrangheta, la sacra corona unita, piaghe terribili che non riusciamo a combattere. Tutte cose alle quali solo con molta fatica e vincendo molte resistenze si è riuscito a dare un nome (ancora oggi vi sono città strozzate dalla mafia nelle quali parlare di mafia è tabù). E’ un paese che è stato spesso governato da gente collusa con quelle forze criminali e mafiose. E’ un paese in cui la corruzione è diffusa a tutti i livelli della vita sociale e del mondo economico, senza che vi siano le energie per ribellarsi e scrollarsela di dosso. E’ un paese che ha deciso di non investire in istruzione e cultura, con i risultati che tu e io verifichiamo ogni giorno: scuole che vanno avanti con enormi problemi strutturali, e quando va bene è un’aula che manca e bisogna inventarsi da qualche parte, quando va male è un tetto che crolla travolgendo qualche studente. E’ un paese in cui una evasione fiscale da capogiro non scandalizza nessuno, mentre si dà la caccia all’immigrato.
Tutti questi problemi possono essere affrontati solo se li si vede con assoluta chiarezza. Solo se ne siamo consapevoli ogni giorno, ogni minuto. E’ una consapevolezza triste, dolorosa, ma necessaria. Getta un’ombra sulla luce del Rinascimento, nella quale vorremmo che tutti ci vedessero, ma è l’unica via che abbiamo per sperare nella possibilità di un Rinascimento futuro.
Gli Stati Generali, 26 febbraio 2019.
Perché non sono patriottico: lettera a una studentessa
Sul fatto che io non sia patriottico hai perfettamente ragione. Non lo sono per niente. Mi irrita, anzi, tutta la retorica che accompagna il concetto, la parola di patria. Non sono patriottico, soprattutto, perché è un atteggiamento che mi pare in contrasto insanabile con uno dei valori per me fondamentali: la giustizia. Che, per come la vedo io, non è separabile da un'altra cosa: l'equanimità. Per essere giusti occorre riuscire a vedere l'altro come sé. Una cosa che diventa difficile, perfino impossibile quando ci sono un noi e un loro, quando si tracciano confini che prima o poi diventano trincee.
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