Da un'altra parte
Ho ottenuto il trasferimento a Siena. Da settembre si ricomincia da un'altra parte.
Ci sono due tipi di persone che, in genere, vanno via da Foggia: quelli che lo fanno per necessità e quelli che lo fanno per scelta. I primi sono per lo più proletari e vanno via per lavoro: e partono con profonda nostalgia, e pensano ogni giorno a come tornare; ed in genere tornano, dopo qualche anno, e si sentono felici di essere tornati in quella che non ha mai smesso di essere la propria casa. Quelli che partono per scelta sono per lo più figli della buona borghesia, e vanno via per studiare, e non provano per la città che disprezzo e vergogna; e se tornano, lo fanno con il senso di sconfitta di chi non è riuscito a realizzarsi in posti migliori.
Poi ci sono quelli che vanno via per tristezza.
Molti anni fa discutevo di Foggia con un'amica, oggi affermata scrittrice a Roma, in una circolare (il bus cittadino). Parlavamo di questo: andare o restare. Lei, che studiava a Milano, diceva di Foggia tutto il male possibile; io difendevo le ragioni del restare qui, nonostante tutto. Un ragazzino ci ascoltava, attento. La sua fermata arrivò a Candelaro, uno dei quartieri più infelici di una città infelice. Prima di scendere ci lanciò uno sguardo intenso, poi sorrise e disse: "Comunque Foggia è forte". Lo disse in italiano, perché noi stavamo parlando in italiano - ma si capiva che la frase avrebbe acquistato il suo senso pieno solo in dialetto.
Per molto tempo ho pensato allo sguardo, al sorriso, alle parole di quel ragazzino. Ho pensato che sì, Foggia è forte: più forte della mafia che la soffoca, più forte della politica che la umilia, più forte della povertà, dell'ignoranza, della cialtronaggine che la consumano. E' forte, pensavo, di una forza difficile da comprendere, forse misteriosa, certo sfuggente. Ed ho cercato di farmi forte di questa forza. Consideravo Foggia come un bambino fragile, malato, che però ce la farà, perché vuole vivere con tutto sé stesso: e che bisogna aiutare con tutte le cure possibili perché quel suo telos, che è bene, non sia travolto e spento dal male. Oggi penso di non poter fare nulla per quel bambino, e che anzi il prendermene cura o il semplice preoccuparmi per lui finirebbero per uccidere anche me e chi mi sta accanto.
Molti anni fa un anziano stava in un bar. Era il suo compleanno, stava festeggiando con gli amici. Nulla di che: un caffè, qualche pasticcino. Davanti al bar ci fu un agguato mafioso; l'anziano fu colpito da una pallottola vagante: e morì. Il sindaco - che era un fascista, e nell'indifferenza di tutti aveva fatto costruire due enormi fasci nella piazza principale della città - si disse indignato, ed annunciò una grande manifestazione pubblica di protesta. Che non ci fu mai. Mai.
Imparai allora due cose, ampiamente confermate da quello che è successo poi. La prima è che Foggia è una città in cui puoi morire per caso, per una pallottola vagante. La seconda è che questo, a Foggia, è naturale: rientra nell'ordine delle cose che un foggiano è disposto ad accettare senza inquietarsi troppo.
La mafia a Foggia si chiama società. Non è un caso.
Amo Foggia profondamente. L'amo come si ama la città in cui si è nati, in cui vivono le persone che si amano, in cui ci si è innamorati. Ma è un amore ferito, ormai: e rischia di incancrenire, e diventare qualcosa di peggio dell'odio. E' l'amore disperato, angosciato, doloroso che si prova per una donna che ci ha traditi: e che - lo sappiamo - lo farà ancora, e ancora, e ancora.
I ragazzi dello Scurìa dicono che le città sono di chi le ama. Hanno ragione, anche se sui manifesti elettorali qualche mese fa si leggevano cose non troppo diverse. Hanno ragione: le città sono di chi le ama. Anzi: di chi sa amarle. Come le donne. Non basta amarle, o volerle amare. Bisogna saperle amare, essere in grado di renderle felici, ed essere felici con loro. Un amore ferito non serve a nessuno: né a loro (le città e le donne), né a noi.
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Penso che nessuno ci appartenga,ma che l'Altro o le Città,siano uno specchio che riflette quello che siamo,anche quello che non ci piace di noi stessi,che di solito stigmatizziamo e riconosciamo più facilmente in chi abbiamo di fronte.Ci fermeremo e troveremo un po' di pace,davanti ad uno specchio che rifletta il bello di noi.Ti auguro che tu possa trovarlo proprio da quell' "altra parte" dove sei diretto.
RispondiEliminaNon sono di Foggia ma ci vivo da 40 anni esatti, Sono sceso dal Nord per amore di una donna e, non solo per lei, ci sono rimasto. A Foggia ho trovato il calore della gente, l'ospitalità, il valore dell'amicizia e una vita più "sopportabile" rispetto a quella vissuta per 30 anni al Nord. Qui ho messo un nuovo vestito alla mia anima fredda facendomi sorprendere dalla spontaneità e dall'altruismo. Certo non ero cieco. Vedevo perfettamente che le regole della convivenza sociale erano completamente diverse da prima, come anche l'orientamente politico con l'ago della bussola a destra. Non mi sono adeguato, continuando a rispondere sempre e comunque alla mia coscienza e ai valori che avevo incamerato. Però ho vissuto bene nonostante la decadenza, la depredazione a cui, giorno dopo giorno, la città è sottoposta. E' l'indifferenza il male di questa città e contro di essa ogni lotta risulta vana. Ci ho provato, mi sono battuto e sbattuto ma nulla è cambiato. Adesso si fugge. Un figlio (l'unico) al Nord (la storia si ripete all'incontrario) anche lui insegnante in una cittadina di pianura avvolta di grigiore e di zanzare, anche lui, come te, pazzo per la sua città natale, della sa tutto e di tutto e ci tiene informati delle cose che avvengono nella città dove noi abitiamo. "papà, ti prego, vai almeno qualche volta a vedere il Foggia" e anche "Mamma vai a vedere quel monumento che hanno inaugurato e poi mi riferisci". Talmento "cotto" di questa città che fa di tutto e questo è il paradosso, per venirci il meno possibile. Dopo svariate perplessità e interrogativi,penso di aver intuito il perchè della sua ritrosia a scendere. Lui non vuole vedere la decadenza della città, la mestizia del vivere e l'indifferenza che giganteggia sempre di più. I suoi ricordi sono di una città diversa che almeno a parole aveva ancora la speranza di un futuro felice e quello vuole portarsi dietro per continuare ad amarla.
RispondiEliminaE' tutto qui. Complimenti per quello che scrivi e per come lo scrivi.
Ciao, Antonio.
Francesco
Conosco molti indiani emigrati in America, Canada, Bretagna, che parlerebbero nello stesso modo del loro tormentato paese nativo.
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