blog di antonio vigilante

L'educazione e la sua ombra

Quando si parla di libertà nell'educazione, di rifiuto di ogni forma di violenza educativa, di rispetto rigoroso della personalità del bambino e dei suoi diritti, capita spesso di sentire la seguente obiezione, soprattutto da parte di genitori: "Tutto ciò è assolutamente condivisibile, ma è solo teoria. La pratica dell'educazione è una cosa diversa. Nessun genitore vorrebbe essere violento con i suoi figli, ma crescere dei figli è difficile, ed a volte capita di dover ricorrere alla violenza". Segue, in genere, la narrazione di qualcuna di queste situazioni estreme, nelle quali sarebbe impossibile seguire i principi di una pedagogia libertaria e nonviolenta.
In genere si tratta di situazioni di due tipi.
La prima situazione è quella di un bambino che si trova in pericolo o che rifiuta qualcosa che per lui è indispensabile. Può essere che il bambino si ostini a fare una cosa che per lui è oggettivamente pericolosa, come attraversare da solo una strada molto trafficata, o che non voglia a nessun costo prendere uno sciroppo che è necessario per la sua salute. Che fare? Non bisognerà rinunciare ai nostri cari principi libertari ed esercitare una qualche pressione, forse anche una violenza? Sarà bene spiegargli perché deve attraversare accompagnato o prendere lo sciroppo, sperando nella sua comprensione. Ma se non comprende, occorre costringerlo senz'altro.

Questo dimostra che non è possibile educare rispettando la libertà del bambino? Non proprio.
E' importante distinguere l'educazione dall'allevamento. E' educazione tutto ciò che favorisce la crescita personale, spirituale, morale, intellettuale del bambino; è allevamento, invece, la cura del suo benessere fisico, della sua crescita corporea, della sua incolumità. La relazione tra le due cose è assai stretta, ma non fino al punto che non sia possibile distinguerle. Anche se è destinato ad essere trasceso dall'educazione, l'allevamento ne costituisce la premessa indispensabile: un genitore non può occuparsi della crescita personale del suo bambino senza prima garantirgli la salute e la sicurezza. E' importante che anche l'allevamento segua il principio del massimo rispetto della personalità del bambino. In passato sono state diffuse pratiche che, in nome dell'allevamento, mortificavano anche fisicamente il bambino: si pensi all'usanza di fasciare i bambini, che qualcuno vorrebbe riportare in auge in nome della presunta saggezza dei vecchi tempi. Se il bambino rifiuta una cosa che riteniamo essere buona per lui, è bene fermarci un attimo a riflettere. Non può essere che abbia ragione lui? Noi pensiamo che faccia freddo e che per questo debba coprirsi. Lui si rifiuta e strilla. Non può essere che abbia caldo, e potrebbe essere per lui dannoso coprirsi?
E tuttavia vi sono casi nei quali non è possibile evitare l'imposizione. Nessun bambino prende una medicina amara con piacere; bisogna costringerlo a prenderla, anche se piange e ri rifiuta, così come bisogna costringerlo a porgere il braccio per fare un prelievo di sangue, e tante altre cose.
Costrizione, dunque. Ma non costrizione educativa. Si tratta di qualcosa che ha invece a che fare con l'allevamento, che rappresenta in questo caso l'ombra, per così dire, dell'educazione. Riguarda indirettamente l'educazione, nel senso che la rende possibile, ma resta una cosa diversa.
E' errato considerare questi casi di costrizione necessaria la prova dell'inevitabilità della costrizione in educazione.
Vi sono poi i casi disperati. In genere i genitori li raccontano all'esperto - il pediatra, lo psicologo, più raramente il pedagogista - non senza una qualche agitazione. Il bambino è diventato impossibile. Fa i capricci di continuo, è violento, maleducato, rende la vita impossibile ai genitori. Che fare? Chi censurerà mai un genitore che aggredisce verbalmente un bambino insolente, e magari giunge a prenderlo a schiaffi? In effetti, se si considera la scena raccontata dal genitore, pare quasi impossibile dargli torto. A tratti vivaci, ci viene dipinta l'immagine di due poveri genitori vessati da un piccolo tiranno. Ma quella scena può essere compresa soltanto se allarghiamo la visuale. Perché il bambino si comporta così? Può essere che stia vivendo un momento difficile, per varie ragioni. Può essere, ad esempio, che a scuola subisca le angherie di qualche compagno, e che questo lo renda nervoso o irritabile. Può essere che si senta meno amato del fratellino più piccolo, che è al centro delle attenzioni perché più bisognoso di cure. Può essere che i genitori stessi abbiano difficoltà di relazione, e che questa instabilità del sistema-famiglia si rifletta sul bambino. Senza approfondire questo quadro, è difficile capire il comportamento del bambino. Quel che è certo, è che un intervento violento - sia nella forma verbale del rimprovero che in quella fisica dello schiaffo - non ha alcun valore educativo. Otterrà, forse, l'effetto di mettere a tacere momentaneamente il bambino, ma di sicuro non lo aiuterà a crescere.
Dietro la scena raccontata all'esperto di turno c'è, spesso, una intera storia di errori educativi. Se le relazioni con il bambino sono state basate fin dalla nascita su forme diverse di violenza - il rimprovero, il ricatto, la minaccia, la punizione -, è assolutamente normale che il bambino ad un certo punto diventi a sua volta violento e che si comporti in modo da suscitare risposte violente. Le quali a loro volta confermano il comportamento violento, in un circolo vizioso dal quale è molto difficile uscire.
Il bambino ha imparato la lingua della violenza, e imparare un nuovo linguaggio relazionale, già a cinque o sei anni, può essere difficile. Addirittura impossibile, se chi gli sta intorno continua a parlare la vecchia lingua.
E' chiaro che la domanda "Cosa dovrei fare?", con la quale si cerca di mettere all'angolo chi sostiene il principio del rispetto educativo e del rigoroso rifiuto di ogni forma di violenza, è una domanda alla quale non è possibile dare che una sola risposta: "Smettere di fare quello che hai sempre fatto". Ma è una risposta che sono disposti ad ascoltare soltanto quei genitori che di fatto hanno già cominciato a parlare un'altra lingua. Gli altri continueranno a parlare della presunta distanza tra la teoria e la pratica, tra le belle idee dei pedagogisti e la concreta e difficile (e che sia tale nessuno lo negherà) prassi dell'educazione.

Articolo per Il bambino naturale.

9 commenti :

  1. Sostanzialmente sostieni che tutto ciò per cui l'uso della forza è necessario non è educazione, ma allevamento.

    In questo modo in effetti, esce quasi completamente dall'ambito di competenze dell'insegnante.

    Potrebbe diventare una comoda definizione per chi voglia scrivere best-sellers sulla pedagogia nonviolenta.

    Capisco però cosa intendi per allargare il quadro a fronte di un bambino violento.

    Mi chiedo però che utilità abbia dire "a quel punto non c'è più nulla da fare".

    Che vantaggio ne ha il tossicodipendente se diciamo ai suoi genitori "beh, dovevate pensarci prima, ora è molto difficile che smetta di drogarsi".
    Non credi che un pedagogista (e un intellettuale in generale) dovrebbe evitare le banalità?

    Non hai da suggerire qualche libro che non riferisca teorie, ma riporti pratiche educaticative non violente che abbiano riportato un qualche successo?

    L'educazione (e in particolare l'educazione dei figli), si impara per analogia e per sperimentazione (nel bene e nel male). Errori sono dunque inevitabili, ma certamente la teoria non corredata da esempi concreti e replicabili è di scarso aiuto concreto.

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  2. Non mi pare di aver detto "a quel punto non c'è più nulla da fare". Ho detto che è possibile uscire da un circolo vizioso diseducativo solo se i genitori si rendono conto dei loro errori; impossibile, se invece vanno dall'esperto di turno solo per cercare conferme della giustezza della loro pratica educativa.
    Curioso che tu voglia un libro per conoscere pratiche educative nonviolente che abbiano avuto successo. Non conosci proprio nessun genitore che non ricorra alla violenza come metodo educativo? E cosa intendi, poi, con "successo"?

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  3. Non conosco proprio nessun genitore che non sgridi i propri figli.
    E sono d'accordo che la violenza verbale possa essere dannosa e pericolosa come quella fisica.

    Temo però di non conoscere nemmeno un genitore che non li abbia mai sculacciati.

    E' chiaro che, se semplicemente definisci questi tipi di violenza "inevitabili per l'allevamento", escono dall'ambito di competenza dell'educatore, rendendo facile affermare che l'educazione non ha mai ragioni per utilizzare la violenza.

    Affermazione molto condivisibile. Da best-seller.

    Ma è solo un gioco retorico.
    Tant'è che contemporaneamente affermi che, per l'allevamento, la violenza può essere addirittura inevitabile.

    Pensi davvero che per il bambino colga la sottile differenza fra un padre che lo alleva e un padre che lo educa mentre lo picchia?

    Per successo di un'azione educativa intendo che il bambino trae giovamento nel medio e lungo periodo dall'azione stessa, scoprendo chi vuole essere e come vuole vivere.

    E reitero la mia richiesta di materiale. :-)
    Non era retorica.

    Sono figlio di una madre amorevole e di un padre severo. Ricordo diversi schiaffoni immeritati.

    Io non sono il padre che vorrei essere. Nemmeno so identificare i miei errori. Sgrido mia figlia. Raramente la sculaccio. Ma lodo ciò che fa bene e le spiego anche cosa sbaglia.

    Sono felicissimo di migliorare, ma non mi fido di teorie pedagogiche. Il Rousseau che scrisse Émile, o dell'educazione abbandonò i propri figli.

    Troppo facile.
    Come dire a dei genitori che "a loro volta confermano il comportamento violento, in un circolo vizioso dal quale è molto difficile uscire.
    Il bambino ha imparato la lingua della violenza, e imparare un nuovo linguaggio relazionale, già a cinque o sei anni, può essere difficile.".


    D'accordo!
    Ma per favore, condividi concrete esperienze di educazione non-violente, in modo che si possa trarne spunto, per analogia.

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  4. Ma forse parliamo di cose molto diverse, astraendo situazioni ed esperienze diverse.

    Tu la vedi dal punto di vista di un insegnante che si trova davanti genitori che non vogliono (o non sanno?) affrontare la violenza del figlio.

    Io la vedo dal punto di vista del padre di due figlie piccole che vorrebbe aiutarle a divenire persone felici, educandole nel modo migliore possibile.

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  5. 1. Sono due volte che parli di best-seller. Ti rassicurerà, spero, sapere che i miei libri in genere non vendono più di dieci copie.

    2. Probabilmente un figlio non coglie la differenza tra un genitore che lo strattona (non ho parlato di picchiare) perché deve salvargli la vita ed uno che lo strattona perché ritiene che la cosa sia educativa. Tuttavia, nel secondo caso evidentemente gli strattoni, considerati educativi, sono molto più frequenti: e dunque la differenza ha una importanza notevolissima per la qualità della vita del bambino.

    3. Trovo curiosa la tua richiesta. Cosa vuoi che ti faccia, nome e cognome dei genitori che usano criteri nonviolenti per educare i loro figli? E per farci cosa? Tu hai già deciso che non ti interessano le teorie pedagogiche e che non è possibile educare i figli senza violenza. Se ti dicessi che tizio e caia lo fanno, diresti che sono degli ipocriti.

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  6. No evidentemente non ci siamo capiti.

    1. Non pensavo ai tuoi libri. E che provo un enorme fastidio quando in libreria trovo libri di psicologi alla moda che spiegano teorie educative trandy quanto banali.
    Penso però che tu abbia colto la critica (forse un po' troppo veemente, scusa) al metodo del tuo ragionamento.

    2. Ottima obbiezione. Chiaramente il danno psicologico di uno strattone dipende molto dall'età del bambino (può essere molto forte per un bambino molto piccolo e irrilevante per un adolescente). Io però pensavo alle sculacciate, che rientrano nella categoria del "picchiare".

    3. No, ti ho chiesto libri. I libri possono raccontare esperienze di relazione educativa senza per questo proporre teorie psico-pedagogiche. I nomi e cognomi puoi magari comunicarmeli in privato. Non vedo perché dovrei considerarli ipocriti. Al contrario, mi piacerebbe molto contattarli.

    Non sostengo che non sia possibile educare i figli senza l'uso della forza (fisica o verbale), sostengo che non l'ho mai visto realmente fare.

    Ma come ti scrivevo in precedenza, sono convinto che ad educare si impara esclusivamente copiando altri (tipicamente i genitori, ma non solo) e sperimentando (a costo di inevitabili errori). A me (solo a me?) servono esempi reali, situazioni vissute, soluzioni concrete da cui si possa trarre esempio.

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  7. Le sculacciate sono del tutto al di fuori del mio discorso. Non ho detto che sculacciare è allevamento. Ho parlato di una certa coercizione, che può far parte dell'allevamento, mentre non fa mai parte dell'educazione. Sculacciare è una cosa che si fa per punire, e la punizione non ha nulla a che vedere con l'allevamento.
    Quanto alle esperienze, uno in genere non scrive un libro per mostrare "quanto sono bravo ed educare mio figlio senza violenza". In ogni caso, prova a dare uno sguardo al blog di Caterina Bernardi (nipote di Marcello Bernardi, famoso pediatra e pedagogista libertario): http://unabambinaetantianimali.style.it

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  8. Quanto alle esperienze, uno in genere non scrive un libro per mostrare "quanto sono bravo ed educare mio figlio senza violenza".

    No, magari uno potrebbe scrivere un libro per condividere le difficoltà, i fallimenti e i successi di tale approccio, nella speranza di aiutare altri.

    Grazie per il link.

    Ricambio: http://pinguinineldeserto.org/libro.html
    Non è un libro di pedagogia, ma è il tipo di testo che ti chiedevo. Poca teoria e molta pratica.

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  9. Peraltro, una domanda: si può punire senza fare uso della forza?

    E se sì, si può educare senza punire?

    In effetti, molto spesso la minaccia della punizione è sufficiente. Ma solo se tale minaccia è credibile.

    Senza punizione c'è modo di porre limiti? Se sì, è possibile un educazione che non ponga dei limiti (al di là di quelli necessari alla sopravvivenza)?

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