Rifare sempre tutto da capo
Marc Chagall, Mother and child, 1956 |
Non è difficile scorgere della violenza in questo secondo atteggiamento. Il genitore cerca di riprodurre sé stesso nel figlio, senza rispettare il suo bisogno di costruirsi in modo autonomo una identità. In molti casi questo processo si compie senza problemi: la società è piena di notai figli di notai. Ma spesso accade che il figlio si ribelli, rivendicando una identità diversa da quella dei genitori. In molti casi, una identità pensata in opposizione. Negli anni della contestazione studentesca molti giovani rifiutarono l'identità borghese delle loro famiglie, cercando una nuova identità nelle esperienze più diverse oppure nell'ideologia.
Che diremo dell'altro atteggiamento, di quello che ho chiamato polo alto? Ho detto che nasce da una preoccupazione comprensibile. A ben guardare, tuttavia, c'è della violenza anche in questo atteggiamento. E' fuori discussione che essere democratici sia meglio che essere fascisti, che essere nonviolenti sia meglio che essere violenti, che pensare in modo critico sia meglio che essere acritici. Ma l'imposizione di una identità, di un progetto di vita, di un modo di essere è sempre violenta, anche quando si tratta della imposizione di una identità socialmente riconosciuta come desiderabile. D'altra parte, non c'è solo l'imposizione, c'è anche il condizionamento. Un genitore che creda nel valore della nonviolenza condizionerebbe suo figlio anche se evitasse di parlargli del valore della nonviolenza: il suo stesso modo di essere costituirebbe una fonte di condizionamento. Bisogna considerare negativo ogni condizionamento? Si tratterebbe con ogni evidenza di una conclusione assurda. In tal caso bisognerebbe isolare il bambino, impedire il rapporto con qualunque persona adulta, perché chiunque potrebbe condizionarlo. Non c'è alcuna violenza in questo tipo di condizionamento, così come non c'è violenza nella proposta di una visione del mondo. Un genitore democratico ha tutto il diritto - naturalmente - di comportarsi democraticamente, ma ha anche il diritto di parlare a suo figlio del valore della democrazia. L'errore - la violenza - compare quando viene a mancare il dialogo. Ogni proposta di valori, di idee, di scelte politiche o esistenziali o religiose è positiva fino a quando è occasione di un dialogo, di uno scambio; diventa imposizione e violenza se lo scambio non c'è. Il grande pediatra Marcello Bernardi raccontava di essersi imbattuto più volte in genitori che credevano nel valore della nonviolenza, e per questo erano disposti a punire i figli tutte le volte che avevano atteggiamenti violenti o mostravano il desiderio insano di possedere una pistola giocattolo.
Non c'è relazione educativa che non sia dialogica. Ma il dialogo richiede la capacità di mettere tra parentesi, almeno fino a quando dura il dialogo stesso, le proprie convinzioni. Dialogare vuol dire esporsi al rischio di mettere in crisi le proprie scelte, di accorgersi della fragilità dei propri valori e delle proprie idee, della difficoltà di difenderli in una discussione aperta. E' per questo che educare è così difficile: occorre rifare sempre tutto da capo, ritrovarsi sempre al punto zero, azzardare ogni volta il primo passo. L'educazione non tollera il dogmatismo; esige, piuttosto, lo scetticismo. Che non vuol dire non credere a nulla, ma essere costantemente aperti alla ricerca (skepsis, in greco vuol dire appunto ricerca). L'educatore è colui che si assume questa fatica: essere sempre provvisorio, aperto, inconcluso. In cammino.
Pubblicato con il titolo Educazione alla libertà: il dialogo nella mia rubrica Educazione e libertà, nel sito Il bambino naturale.