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blog di antonio vigilante

"Mattinata era una farfalla". Una storia di vita

Nelle scienze umane le storie di vita sono uno strumento fondamentale per indagare a fondo il cambiamento sociale. Come è cambiata nel tempo la vita delle persone? Quali erano i valori condivisi qualche decennio fa? Quali le condizioni di vita? In che modo la vita dei singoli si lega ai grandi eventi storici? Per rispondere a queste e ad altre domande si può chiedere alle persone anziane di raccontare semplicemente la propria vita, con un tipo di intervista che lascia grande libertà all’intervistato, con domande che servono solo a stimolare il racconto ed a far sì che non tralasci punti importanti.
Poiché queste storie di vita sono anche un modo per ascoltare la voce degli anziani, che nel nostro mondo si avverte sempre più debolmente, ho spesso proposto ai miei studenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia di intervistare i loro nonni, nell’ambito del corso di Metodologia della ricerca. Il risultato è spesso una narrazione di grande interesse, anche piacevole da leggere, uno spiraglio su un passato che è dietro l’angolo, ma che sembra dimenticato. Dopo il boom economico il nostro paese ha rimosso letteralmente il suo vissuto di povertà, di sofferenza, di emigrazione; gli anziani sono diventati dei testimoni scomodi di un mondo con cui non vogliamo più avere a che fare.[read more]

Qui di seguito propongo una di queste narrazioni. Si tratta della storia di vita di Lorenzo di Mauro, nato a Mattinata nel 1934. Ad intervistarlo la nipote Giusy Bisceglia.

Puoi parlare dei primi ricordi, l’infanzia, la famiglia, i giochi, la scuola…?
Non esistevano… Non gioco e no niente… Che gioco dovevamo avere prima? Che ci stava? Non ci stava niente. Non ci stava manco la sedia.

La scuola non l’hai frequentata?
Un anno e mezzo di scuola ho fatto. Il motivo perché è morto mio padre. Mio padre è morto a trentun anni, io non ho potuto andare a scuola per motivi di soldi, che non ci stava la lira, non ci stava niente, mia madre era sola, perciò non ho potuto andare a scuola, sono stato sotto a un padrone a lavorare, perciò ho dovuto rifiutare la scuola per andare a lavorare, perché non c’era niente da mangiare, non avevo dei genitori, mia madre era sola, e mia madre per darci a mangiare a noi andare a lavare della roba per guadagnare qualcosa.

Come vestivi da giovane?
Da giovane mancava tutto, mancavano i divertimenti, non ci stava niente, da giovane posso dire una cosa io, che i divertimenti non esistevano proprio, non esistevano proprio i divertimenti, e io posso dire che in quell’anno e mezzo di scuola che ho fatto sono stato vestito da balilla, nel periodo fascista, tutto vestito nero, però… si stava bene come ordine, però il resto mancava tutto, non esisteva niente, esisteva molta povertà. Nel ’43 è stata la guerra e non ci stava niente da mangiare, ma niente di niente, e quando si comprava un po’ di grano, il grano, si metteva a cuocere il grano, si metteva un po’ di zucchero sopra e mangiavano il grano, perché mancava il pane, mancava la pasta, mancava tutto.
La sera quando andavo a letto non potevo dormire perché la pancia era vuota, avevo fame, non potevo dormire. E comunque la vita di prima non facciamo cambio con quella di adesso, perché adesso, adesso si butta il pane, ci siamo dimenticati il passato, però adesso il pane si butta perché c’è, ma prima mancava tutto tutto tutto. Durante la guerra non ci stava niente.

E tuo padre come è morto?
Mio padre è andato sotto le armi, dopo di cinque giorni che è venuto da sotto le armi l’ha preso un male di pancia e è morto con l’appendicite, il 1936 è morto, io avevo due anni. Quando sentivo di chiamare papà, tatà si diceva allora, agli altri bambini, io chiamavo pure io, e chiamando piangevo. Io vedevo che mia madre piangeva e dicevo “ma’, perché piangi” e mamma non diceva a noi “è morto tuo padre”, visto che noi ci siamo fatti un po’ grandi lo abbiamo capito, no? E comunque per me con quattro fratelli la vita è stata dura, siamo stati costretti sempre a lavorare, da piccoli, all’età di nove dieci anni stavamo già sotto i padroni a lavorare. E come andavo a scuola, se dentro la mia casa mancava tutto? Non soltanto dentro la mia casa, allora mancava dappertutto, allora le scuole le facevano quelli che avevano un po’ di soldi.

E i dottori non potevano curare l’appendicite di tuo padre?
No, è stato un dolore… così… subito, perché con l’appendicite a peritonite prima si moriva. Che poi il dolore che è venuto a mio padre è stato di sera, quando usciva la processione a Mattinata l’hanno operato, al ritorno della processione mio padre è morto.
Quando il dottore l’ha operato ha detto alla mamma, alla mia nonna, di andare a Monte Sant’Angelo a prendere il dottore, e mancavano pullman, non è che stava l’aereo come adesso che per prendere una medicina vai a Roma a prenderla, mancava tutto, e così è uscito la processione e l’hanno operato, e al ritorno della processione è morto, aveva trentun anni.

Ma parecchi morivano per l’influenza, anche?
Sì, sì, perché mancava tutto, mancavano i dottori, mancava… non è che ci stava l’ospedale come adesso, che adesso, che adesso un piccolo male e subito c’è il dottore, prima si faceva in casa, l’hanno operato in casa a mio padre, senza anestesia, niente. Si metteva la pentola dell’acqua bollente sul fuoco, si metteva la forbice dentro, gli accessori dentro, e il dottore operava. Tra parentesi a Mattinata a quell’ora ne sono morti tre o quattro, tanti anni fa, e comunque adesso come dottori, come ospedali, cose… adesso stiamo bene, ogni minima cosa siamo nell’ordine di essere aiutati, ma prima mancava tutto tutto tutto.

Avevi amici?
Io? Sì, ma prima uno come faceva a tenere gli amici, perché non è… uno può tenere gli amici se va all’asilo, e l’asilo, c’hai gli amici se uno va a scuola, e durante la scuola, quando esci dalla scuola c’hai gli amici, ma prima le scuole chi le faceva?

Andavi a lavorare, non potevi trovare qualche amico?
Sì, sì, mentre che lavoravi tutt’al più potevi avere un amico, due amici, tre quattro persone durante il lavoro, ma non come adesso, adesso c’è il pallone, si sente la partita al pallone, esci in piazza e trovi a centinaia gli amici, ma prima non esisteva proprio questo qua.

Tua moglie è stata la tua prima ragazza?
Sì, sì, mia moglie è stata la prima, la prima, e se ti dico perché mi sono sposato piccolo, perché ci siamo sposati piccoli, perché dentro a casa nostra, povera, non è che aspettavano che tu stavi fino a trent’anni e avevi la possibilità di avere il corredo, eh, soltanto il vestito che portavi addosso, perché mancavano i soldi per fare il corredo, tra parentesi io mi sono sposato perché… eh, la mia avventura è stata lunga, mio padre è morto a trentun anni, io avevo la mamma, e mia madre s’è sposata di nuovo, ha avuto tre figli, e cinque ne aveva il primo marito, e quattro ne eravamo noi, e due loro, quattordici persone, perciò io ho passato una vita in mezzo a quattordici persone, dentro una casa, e non è che ci stavano quattordici piatti, come adesso, un piatto ciascuno, si metteva in mezzo un piatto soltanto e si mangiava dentro quel piatto, quello che ci stava, e dovevi mangiare sempre al posto tuo, no che ti dovevi spostare dal posto tuo, ti dovevi mettere vicino al posto tuo con la forchetta in mano, dovevi mangiare sempre vicino al tuo posto, e non è che eri sicuro di mangiare, perché parecchie volte la pentola bolliva e mancava la roba da mettere dentro, l’acqua bolliva e mancava la pasta, mancava la farina, e io oppure qualche altro mio fratello andavamo al negozio, dicevo “signo’, ha detto mia madre mi puoi dare due chili di farina, che poi quando fa i soldi li porta”, e ti rispondeva “dì a tua madre che mi deve pagare ancora un chilo, due chili di prima”, perché non ci stava niente, insomma, la vita di prima è stata una vita… però una cosa era bella prima, che ci stava il rispetto familiare, un grande rispetto, quello che non c’è adesso, perché adesso sorelle e sorelle non si parlano, fratelli e fratelli non si parlano, un figlio se deve stare un mese senza andare a casa dei genitori, ci sono, invece prima no, prima i genitori non venivano lasciati soli, quel pezzettino di pane che ci stava veniva diviso tutti uniti, e se andava a terra un pezzetto di pane, quando si prendeva il pane si baciava, e dopo lo mettevi in bocca, invece adesso il pane lo trovi nei secchi della spazzatura, lo trovi per terra, nemmeno i cani lo mangiano, e io quando vedo queste cose qua, mi fa male il cuore veramente, e io lo prendo il pane e lo cerco di proteggere, di mettere da qualche parte, invece ci sono bambini che adesso il panino per terra lo prendono a calci, e non lo mangiano nemmeno i cani, perché ce n’è.

E’ stato difficile trovare lavoro?
Ecco, mo ti dico questo qua. Venticinque febbraio ’57 sono sposato, di giovedì, dopo di due settimane ho avuto la chiamata per partire all’estero, sono andato in Austria, e non avevo nemmeno il bagaglio, la valigia, da mettere la roba dentro, sono andato al negozio, dal tabaccaio, l’ho presa la valigia e… che poi quando sono andato là l’ho mandato i soldi della valigia, e mi è stato così duro di lasciare mia moglie due settimane sposata, quando sono arrivato a salire sulla montagna, mi sono girato dietro e ho guardato Mattinata. Ho pianto.
Ho pianto veramente. Poi sono andato a Verona, sono stato cinque giorni a Verona, poi sono partito in Austria, e andavo a lavorare dentro una fabbrica di marmo, con gli stivali ai piedi, con i guanti alle mani, e dentro una baracca, a dormire dentro una baracca, che poi piano piano ci hanno dato la sistemazione buona, e poi ho fatto sei anni ancora all’estero in Germania, sono stato ancora sei anni all’estero in Germania, e sono stato uno che… sempre attaccato alla famiglia, che anche in Germania di fronte al letto dove dormivo avevo il quadro con tutta la famiglia, di mia nonna, di mia moglie, dei figli e di tutto, tra parentesi all’estero non è che era bello starci, lontano dalla famiglia è la più cosa brutta di stare lontano dalla famiglia.
Dunque, quando sono partito in Germania io ero un operaio comune, ho fatto il contratto da manovale meccanico, e io non sapevo tenere nemmeno il martello in mano, sono andato nella fabbrica, quattro settimane nel reparto solo a guardare, e piano piano, piano piano, piano piano ci ho messo delle mani, ed ho imparato tante, tante cose, a distanza di un anno io lavoravo come i tedeschi, e mi davano la busta paga identica come i tedeschi.

E’ stato difficile imparare la lingua?
Per imparare la lingua… se uno c’ha tante scuole, non ci fa tanta attenzione, se uno non c’ha scuole, c’ha qualcosa così, ci fa tanta, tanta attenzione a imparare. Io ho imparato la lingua tedesca… un anno sono stato in Austria, e in Austria parlano il tedesco… quando sono partito in Germania mi hanno chiesto chi sa parlare il tedesco, e io perché sono stato già un anno in Austria, sapevo qualcosa, e sono andato a lavorare dentro questa fabbrica qua, e piano piano piano piano l’ho imparato, ma bene bene bene bene, che quello che mi chiedevano sapevo rispondere tutto, durante il lavoro lo stesso, tra parentesi… non dico il cento per cento, ma il settanta per cento, lo so parlare.
E poi dopo di tre anni che ho lavorato in fabbrica ho lavorato tre anni alla posta, all’ufficio postale, e prima di assumermi a lavorare mi hanno domandato alcune domande in tedesco, e io gli ho risposto bene, mi hanno preso a lavorare, ho lavorato tre anni all’ufficio postale a Stoccarda… tra parentesi mi sono trovato bene, ho imparato il tedesco, ho… ti so rispondere in tedesco anche quando uno sogna la notte… ti dico che ancora adesso che sono dal ’65 che sono tornato a casa lo so bene bene bene, non mi sono dimenticato di niente, perché ho lavorato per quasi vent’anni in campeggio pure, in campeggio ci stanno i tedeschi, ho avuto sempre contatti a parlare, a parlare, a parlare… in conclusione dei fatti il tedesco è difficile, però se uno c’ha la volontà, impara.

Quando sei tornato dalla Germania le condizioni di vita erano migliorate?
Sì, erano migliorate, ho comprato la casa, ho comprato un po’ di terreno, ho fatto tutto per tutto per i figli, ci siamo voluti sempre bene, siamo una famiglia unita, e tra parentesi la più che ho avuto troppo stretta è stata mia moglie, perché non ci siamo mai abbandonati, io le mandavo i soldi e lei li sapeva gestire.

Dopo la nascita dei figli ci sono state ancora difficoltà, altri sacrifici?
No, sacrifici non ce ne sono stati, perché si dice che nella famiglia numerosa ti aiuta Dio, però quello che mi ha lasciato perplesso è che io mi sono sposato, due settimane e sono partito in Germania, ritorno dopo un anno e trovo un figlio, a Matteo, in due settimane abbiamo costruito, e sono partito, dopo un anno vengo a casa e trovo un bambino, e il bambino quando mi ha visto prendeva paura di me, nel letto, diceva “questo qua chi è?”, e è stata una cosa dolorosa proprio, perché la lontananza dei figli… e poi venivo sempre in ferie nello stesso periodo e ho avuto cinque sei figli, sempre nella data di gennaio sono nati… Cinque, cinque figli tutti e cinque a gennaio.

Com’era Mattinata una volta?
Mattinata nel periodo della guerra era bella, era una farfalla come paese, era troppo bella, a Mattinata s’è costruito nel periodo quando hanno emigrato in guerra, e s’è costruito un po’ di Mattinata, s’è fatto più grande, poi quando che hanno cominciato a migrare al Belgio, in Francia e in Germania, Mattinata s’è sviluppata almeno almeno per dieci volte di quando era prima, perché emigrando i soldi si sono guadagnati e ognuno s’è fatto la casa, chi s’è fatto la casa, s’è fatto il terreno, c’è stato un miglioramento di vita, però adesso, adesso, non è più come una volta, adesso la casa dei giovani non la fa più nessuno, perché la Germania è finita, la Francia è finita, tutte le nazioni che abbiamo emigrato lavoro non ce ne hanno nessuna nemmeno per conto loro, e tra parentesi i giovani di oggi per traversare questa, questo passaggio qua è dura, tra parentesi si sposano anche di meno, adesso.

Ora si usa la convivenza…
Ecco. Perché… manca la possibilità, manca il lavoro, manca tutto… sì, fanno le scuole, ma anche che fanno le scuole, quando uno è fatto ragioniere, è fatto maestro di scuola, non prende il posto nemmeno a quarant’anni… e non è che un maestro può migrare in Germania, che ci va a fare in Germania, che in Germania lavoro non ce n’è più, deve emigrare al nord, e al nord se trova un posto di lavoro, se no… eh.. oggi è critica, stiamo meglio come mangiare, assistenza e tutto, però stiamo attraversando pure un periodo non tanto bello.

Quanti figli hai?
Ce ne ho nove. Per fortuna i figli che c’ho tutti otto sono sposati e uno non ancora, che i figli non è che c’hanno nove figli come ho fatto io, massimo due, per ogni figlio, tra parentesi tutti i nipoti ne sono diciassette, tra parentesi se avessero fatto nove come ho fatto io avrei ottanta nipoti, i figli adesso non si fanno più per la paura di portarli avanti, perché oggi i figli costano, anche allora costavano i figli, ma allora allora era un altro…

Ma non costavano di più i figli allora?
No no, a tenere la famiglia numerosa per me è stato… niente, ho attraversato una vita tranquilla, per nove figli, ti dico che io mi sono trovato bene, però sono stato un grande lavoratore, ho sempre lavorato, i figli sono stati sempre uniti a noi, hanno lavorato anche loro, portando i soldi a casa.

So che ti piace vedere i telegiornali, soprattutto la politica. Perché?
Vedi, io… se devo dire la verità… perché ho passato… il passato quando non esisteva pane, quando non esisteva niente, ho passato una vita brutta, che il padrone ha fatto sempre il suo interesse, ma io come operaio con i padroni so’ stato sempre un collaboratore, che collaboravo coi padroni, ma i padroni cercavano di fare sempre a non pagarmi, e sono stato sempre un sindacalista, ma sindacalista sono stato, che mi piaceva fare il mio dovere e pretendevo anche quello che mi spettava, tra parentesi adesso mi piace a sentire la politica, mi piace a sentire la politica, io no… se sto a Mattinata, se sto in casa, lo sento dieci volte al giorno il telegiornale, che mi piace a sentire, perché delle cose che stanno accadendo adesso, dei politici, sono poco quello che fanno nei riguardi del basso popolo, pensano sempre per i grandi.[/read]

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"Mattinata era una farfalla". Una storia di vita

Il centro storico di Mattinata
(http://www.garganowebtravel.com)
Nelle scienze umane le storie di vita sono uno strumento fondamentale per indagare a fondo il cambiamento sociale. Come è cambiata nel tempo la vita delle persone? Quali erano i valori condivisi qualche decennio fa? Quali le condizioni di vita? In che modo la vita dei singoli si lega ai grandi eventi storici? Per rispondere a queste e ad altre domande si può chiedere alle persone anziane di raccontare semplicemente la propria vita, con un tipo di intervista che lascia grande libertà all’intervistato, con domande che servono solo a stimolare il racconto ed a far sì che non tralasci punti importanti.
Poiché queste storie di vita sono anche un modo per ascoltare la voce degli anziani, che nel nostro mondo si avverte sempre più debolmente, ho spesso proposto ai miei studenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia di intervistare i loro nonni, nell’ambito del corso di Metodologia della ricerca. Il risultato è spesso una narrazione di grande interesse, anche piacevole da leggere, uno spiraglio su un passato che è dietro l’angolo, ma che sembra dimenticato. Dopo il boom economico il nostro paese ha rimosso letteralmente il suo vissuto di povertà, di sofferenza, di emigrazione; gli anziani sono diventati dei testimoni scomodi di un mondo con cui non vogliamo più avere a che fare.

Qui di seguito propongo una di queste narrazioni. Si tratta della storia di vita di Lorenzo di Mauro, nato a Mattinata nel 1934. Ad intervistarlo la nipote Giusy Bisceglia.

Puoi parlare dei primi ricordi, l’infanzia, la famiglia, i giochi, la scuola…?
Non esistevano… Non gioco e no niente… Che gioco dovevamo avere prima? Che ci stava? Non ci stava niente. Non ci stava manco la sedia.

La scuola non l’hai frequentata?
Un anno e mezzo di scuola ho fatto. Il motivo perché è morto mio padre. Mio padre è morto a trentun anni, io non ho potuto andare a scuola per motivi di soldi, che non ci stava la lira, non ci stava niente, mia madre era sola, perciò non ho potuto andare a scuola, sono stato sotto a un padrone a lavorare, perciò ho dovuto rifiutare la scuola per andare a lavorare, perché non c’era niente da mangiare, non avevo dei genitori, mia madre era sola, e mia madre per darci a mangiare a noi andare a lavare della roba per guadagnare qualcosa.

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Il diavolo e le fratture dell'occidente

Il diavolo come caprone
(F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626)
“Solo il cristianesimo ha dipinto il diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel mondo”, scriveva Nietzsche in Umano, troppo umano (1). E’ vero. L’oriente conosce una gran quantità di demoni, ma inutilmente si cercherebbe una figura paragonabile a quella del diavolo. Il negativo non rappresenta l’anti-divinità, ma è incorporato nel divino: è così che ad esempio Shiva può essere al tempo stesso il distruttore di mondi e il dispensatore di felicità, l’asceta per eccellenza e il dio che si venera attraverso il fallo (linga).
Perché l’occidente ha bisogno del diavolo? Perché è diabolico esso stesso. Diavolo deriva dal greco dia-ballein, separare, dividere (che è il contrario di synballein, unire, da cui simbolo). Il diavolo è dunque colui che divide, che crea separazioni, fratture, inimicizie, in primo luogo frapponendosi tra l’uomo e Dio, poi mettendo l’uno contro l’altro gli stessi esseri umani. Ma possiamo dare un’altra interpretazione: il diavolo come colui che è stato separato, diviso, emarginato. La considerazione della figura del diavolo nella cultura occidentale offre più di qualche appiglio per questa interpretazione. Nell’iconografia, il diavolo è in primo luogo rappresentato con dei tratti animaleschi, quali le corna ed il piede caprino. Il diavolo ha dunque un rapporto con l’animale. Ora, l’animale è per eccellenza ciò che l’occidente ha separato dall’umano. Nella visione del mondo giudaico-cristiana l’uomo è separato dal resto del creato, che è chiamato a dominare, poiché è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Vero è che in Qohelet si legge che “la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti” (3, 19), ma si tratta di una posizione assolutamente isolata nel contesto delle Scritture, che al contrario esaltano la dignità dell’uomo ed il suo destino di salvezza. Gli esseri umani hanno un’anima e sono chiamati alla vita ultraterrena, gli animali no.
L’essere umano non è tuttavia solo anima; egli ospita in sé la natura, è sospeso tra il cielo e la terra, tra lo spirituale e l’animale. Il diabolico s’insinua dunque all’interno dello stesso essere umano, nella frattura tra la parte spirituale, volta a Dio ed al bene, e quella passionale, volta al male, al desiderio, alla carne. La battaglia è contro la natura fuori di sé, ma anche contro la natura in sé. E’ una battaglia difficile, poiché l’essere umano, nonostante la sua natura spirituale, avverte in modo irresistibile il richiamo della natura. Di qui le infinite tentazioni del diavolo di cui sono piene le vite dei santi.
Il diavolo che tenta si presenta per lo più sotto forma di donna. Ed è qui la terza frattura: quella tra uomo e donna. L’uomo rappresenta, nonostante le sue infinite debolezze, la ragione, la donna è invece per sua natura passionale, legata alla natura, animalesca. L’uomo è apollineo, spirituale, la donna dionisiaca, votata al vizio, corrotta. La teologia cattolica non manca di riconoscere la dignità della donna, anche se con ragionamenti che celano un fondo di disprezzo. Sant’Agostino, ad esempio, si chiede nei Sermones come mai Cristo è voluto nascere da una donna. Se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente non nascere da una donna. Se non lo avesse fatto, avrebbe dimostrato che c’era la possibilità, per lui, di essere contaminato dalla donna (ex illa contaminari potuisse). E’ nato da donna, dunque, per dimostrare di essere al di sopra di ogni contaminazione. Non solo. Nascendo da una donna, Cristo è venuto a “consolare il sesso femminile” (sexum consolari femineum), mostrando che anche le donne possono salvarsi, nonostante abbiano introdotto il peccato nel mondo. “Generando Cristo, la donna compenserà il peccato di aver ingannato gli uomini” (Compenset femina decepti per se hominis peccatum, generando Christum) (Sermones, 51, 2.3). Posizioni teologiche come questa, benché autorevolissime, non sono riuscite ad arginare una misoginia e quasi orrore della donna – in particolare della donna che sfugge al controllo della rigida morale dominante, pensata dall’uomo, ed al ruolo imposto di madre o vergine – che troverà un esito tragico nella caccia alle streghe, che è stata in realtà un olocausto femminile, la soppressione violenta di qualsiasi forma di femminilità che anche di poco si discostasse dal cliché imposto, e mettesse a repentaglio le fratture consolidate.
Una strega rende omaggio al diavolo.
(F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626)
Il diavolo, poi, è nero. E non solo perché il nero è il colore del buio che si oppone alla luce (e la stessa parola Dio proviene da una radice sanscrita che indica luminosità), ma anche perché il nero è il colore della pelle dei popoli africani. Nell’iconografia, il diavolo si incarna spesso nella figura dell’etiope o in quella dell’egiziano, così come saranno neri, nella rappresentazione dominante, i musulmani nemici della fede, contro i quali si faranno le crociate, ossia la lotta del bene contro il male. Più sorprendente è che il diavolo appaia a volte sotto la figura del niger puer, il bambino nero. In tale forma appare ad esempio a Sant’Antonio abate ed a San Gregorio Magno (1). Sorprende perché in occidente il bambino indica purezza ed innocenza, e lo stesso Gesù Cristo viene rappresentato spesso come bambino. Ma Sant’Agostino la pensava diversamente. Nelle Confessioni considera espressioni di peccato l’avidità con cui il neonato esige il seno materno e, più tardi, le bugie ed i piccoli furti commessi dai bambini. Quando Cristo disse che dei bambini è il regno dei cieli, per Agostino non voleva esaltare l’infanzia e la sua innocenza, che non esiste, ma semplicemente riferirsi alla loro statura come segno di umiltà: Humilitatis ergo signum in statura pueritiae, rex noster, probasti, cum aisti: Talium est regnum caelorum (Confessiones, I, 19). Il bambino è (ancora) un essere irrazionale, rappresenta una alterità, una differenza che bisognerà piegare attraverso la disciplina ed il rigore dell’educazione.
Naturalmente sono imparentati con il diavolo anche gli ebrei, pur non essendo di pelle nera. Lo sono in quanto non cristiani, e lo sono per l’accusa di deicidio. La quarta frattura è quella tra i cristiani e tutti coloro che incarnano una differenza etnico-religiosa: gli ebrei, perseguitati fin dal quarto secolo, i musulmani combattuti con le crociate, i neri e gli indios del Sudamerica, massacrati e ridotti in schiavitù. Per Bernardo di Chiaravalle l’omicidio degli infedeli non è un vero e proprio omicidio, ma un malicidium: “Quando [il cristiano] uccide il malfattore (malefactorem) non è omicida ma, per così dire, malicida (non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida), e senz’altro è stimato vendicatore di Cristo contro quelli che agiscono male e difensore dei cristiani” (De Laude Novae Militiae, III, 4).
Immagine del XV secolo che mostra
le relazioni degli ebrei con gli animali ed il diavolo. 
C’è infine l’eresia, o per meglio dire la non ortodossia. L’occidente cristiano è ossessionato dall’ortodossia. Quelle che in oriente sono semplici correnti o scuole, varianti di un tema di fondo, in occidente diventano sette da combattere con il ferro e col fuoco. L’annuncio di pace e di amore del Vangelo non costituisce affatto un freno. Quelli che sono al di fuori della Chiesa, chiarisce Sant’Agostino parlando dei donatisti, non sono nemmeno un esseri umani, poiché non hanno lo Spirito Santo: Non habent itaque Spiritum sanctum, qui sunt extra Ecclesiam: de illis quippe scriptum est: Qui seipsos segregant, animales, Spiritum non habentes (Epistolae, 185, 11.50). La conclusione è facilmente intuibile. Demoniaco apparirà a Lutero il papato, così come demoniaca sarà per i cattolici la chiesa protestante.
Il diavolo è dunque il simbolo, l’immagine che abbraccia gli esclusi dell’occidente, tutti coloro che sono stati vittime di una medesima violenza culturale, tutti coloro che erano e sono segnati da una qualche diversità, che per qualche aspetto si allontanavano e si allontanano dalla figura dominante: il maschio adulto ortodosso (cattolico o protestante) e naturalmente eterosessuale. La sua esistenza dimostra che il diaballein, il dividere e discriminare, fa parte per essenza del cristianesimo, della sua logica dualistica, che così apertamente confligge con l’annuncio dell’amore verso lo stesso nemico che si trova nel Vangelo. La figura del diavolo, l’appartenenza al suo dominio, consente di derogare alla sacralità dell’essere umano (l’animale non l’ha mai posseduta); e colui che è privato di sacralità può essere liberamente massacrato. La logica escludente, diabolica del cristianesimo non consente mediazioni. O si è con Dio o si è contro Dio; o si è salvi o si è dannati: e chi sarà dannato nell’altra vita lo è già in questa. Il cristianesimo ha dato un contributo determinante alla conquista della categoria della sacralità della vita (umana), ma ha anche posto condizioni a tale sacralità ed ha mostrato in opera, durante secoli e secoli bagnati dal sangue di pagani, ebrei, albigesi eccetera, le pratiche di dissacrazione, la negazione teorica della dignità di un essere umano che anticipa e giustifica la sua soppressione.
Note
(1) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, 78, tr. it., Newton Compton, Roma 1976.
(2) Cfr. T. Gregory, Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 40.

Articolo scritto per Stato Quotidiano.

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Il diavolo e le fratture dell'occidente

Il diavolo come caprone
(F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626)
“Solo il cristianesimo ha dipinto il diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel mondo”, scriveva Nietzsche in Umano, troppo umano (1). E' vero. L'oriente conosce una gran quantità di demoni, ma inutilmente si cercherebbe una figura paragonabile a quella del diavolo. Il negativo non rappresenta l'anti-divinità, ma è incorporato nel divino: è così che ad esempio Shiva può essere al tempo stesso il distruttore di mondi e il dispensatore di felicità, l'asceta per eccellenza e il dio che si venera attraverso il fallo (linga).
Perché l'occidente ha bisogno del diavolo? Perché è diabolico esso stesso. Diavolo deriva dal greco dia-ballein, separare, dividere (che è il contrario di synballein, unire, da cui simbolo). Il diavolo è dunque colui che divide, che crea separazioni, fratture, inimicizie, in primo luogo frapponendosi tra l'uomo e Dio, poi mettendo l'uno contro l'altro gli stessi esseri umani. Ma possiamo dare un'altra interpretazione: il diavolo come colui che è stato separato, diviso, emarginato. La considerazione della figura del diavolo nella cultura occidentale offre più di qualche appiglio per questa interpretazione. Nell'iconografia, il diavolo è in primo luogo rappresentato con dei tratti animaleschi, quali le corna ed il piede caprino. Il diavolo ha dunque un rapporto con l'animale. Ora, l'animale è per eccellenza ciò che l'occidente ha separato dall'umano. Nella visione del mondo giudaico-cristiana l'uomo è separato dal resto del creato, che è chiamato a dominare, poiché è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Vero è che in Qohelet si legge che “la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti” (3, 19), ma si tratta di una posizione assolutamente isolata nel contesto delle Scritture, che al contrario esaltano la dignità dell'uomo ed il suo destino di salvezza. Gli esseri umani hanno un'anima e sono chiamati alla vita ultraterrena, gli animali no.

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Contro la filosofia del mattatoio

Nella seconda metà degli anni Trenta un giovane di Perugia si interrogò sulle possibilità di una opposizione radicale al Regime fascista. Il fascismo – così ragionava – è un sistema politico che si regge su una visione del mondo. In cosa consiste questa visione? In quello che potremmo definire esclusivismo vitalista, vale a dire nella esaltazione di alcuni valori vitali (la giovinezza, l’esuberanza, la forza e la violenza) e nel considerare inferiori coloro che sono privi di questi valori – nel disprezzare il debole, il malato, il portatore di handicap. Per contrastare il fascismo bisogna allora pensare al contrario, portarsi dalla parte degli ultimi e dei deboli, cercare valori opposti a quelli vitalistici. E’ quello che Aldo Capitini (così si chiamava quel giovane) farà per tutta la vita, giungendo ad elaborare una teoria della nonviolenza che è, con ogni probabilità, la più filosoficamente profonda che sia mai stata pensata. Intanto fa subito una scelta pratica: se il fascismo esalta la violenza del più forte sul più debole, lui sceglierà di rispettare ogni forma di vita. Per questo diventa vegetariano, in anni in cui essere vegetariani era considerato una bizzarria assoluta. Gli stessi amici antifascisti vedevano in ciò una sua stranezza, più che una scelta coerente.L’eredità politica di Capitini è stata raccolta dal Movimento Nonviolento, da lui fondato nel 1961. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, non si può dire che abbia molti continuatori. Tra i pochi, occorre annoverare Francesco Pullia, filosofo animalista che del complesso pensiero capitiniano (che comprende anche una teoria del “potere di tutti”) ha ripreso l’aspetto dell’apertura ad ogni essere vivente. In Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza (Mimesis, Udine 2010) Pullia analizzava quella tradizione filosofica che, partendo appunto da Cartesio, nega ogni valore alla vita non umana ed afferma la rigida separazione tra mondo umano e mondo animale. Per il filosofo francese gli animali non erano che automi, macchine prive di vita, di pensiero, di emozioni, come tali liberamente sacrificabili. E’ una convinzione che non si ritrova solo nella filosofia: anche la tradizione religiosa occidentale ha negato qualsiasi valore agli esseri non umani, rimarcano il legame tra uomo e Dio e la sua differenza da ogni altro vivente e dalla natura, che è chiamato a dominare. E se oggi la Chiesa parla di sacralità della vita, è chiaro che si tratta di sacralità della vita umana, mentre tutti gli altri esseri viventi restano privi di un valore intrinseco.

Nell’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II (1995), documento fondamentale del magistero cattolico sul tema della vita, si legge che “la vita è sempre un bene”, ma subito dopo si precisa che non si tratta della vita in generale, ma della vita umana, poiché “la vita che Dio dona all’uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente” (par. 34). Il che non vuol dire che l’uomo possa fare del creato quello che vuole. Dio lo chiama a dominare il creato, ma non a distruggerlo. “Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (cfr. Gn 2, 15) – scrive Giovanni Paolo II – , l’uomo ha una specifica responsabilità sull’ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita; in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future” (par. 42). Come si vede, è negato qualsiasi valore intrinseco alla vita non umana, che resta al servizio della vita umana. L’uomo ha la dignità che gli viene dall’essere immagine di Dio, l’animale no. E se rispetta la vita non umana, non lo fa per rispetto nei suoi confronti, ma per il bene delle generazioni future. Rispettando la natura, l’uomo nell’ottica cristiana e cattolica non rispetta il non umano, ma rispetta sé stesso, poiché la distruzione della natura mette in pericolo la stessa esistenza umana.Nel suo ultimo libro, capitiniano fin dal titolo – Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio (Mimesis, Udine 2012) – Pullia cerca gli spiragli per una filosofia altra all’interno del pensiero contemporaneo, andando oltre la teoria dei diritti degli animali, rappresentata dalle teorie ormai classiche di Tom Regan e Peter Singer. Se Martin Heidegger, considerato a torto o a ragione il più grande pensatore del Novecento, considera l’animale in una luce esclusivamente negativa, come essere “povero di mondo” che vive in una situazione si “sottrazione”, altri grandi pensatori hanno tentato di riconsiderare il dominio umano sulla natura e sui viventi non umani, mettendo alla luce il rapporto esistente tra violenza sui non umani e violenza sugli umani. Max Horkheimer, filosofo della Scuola di Francoforte, descrive la società capitalistica come un grattacielo che ha ai piani più alti i grandi gruppi di potere, alla base i poveri e più sotto ancora, nella cantina, i mattatoi, mentre Jacques Derrida considera arbitraria l’azione di tracciare un limite netto tra umano e non umano e di confinare tutti i non umani nella categoria dell’animale. Ralph R. Acampora parte dal corpo, elemento comune agli uomini ed agli animali, caratterizzato da una medesima vulnerabilità, per pensare una compassione corporea quale fondamento di un’etica interspecifica.

Non manca il contributo di pensatori italiani. Si va dal citato Aldo Capitini, con la sua suggestiva idea di un atto di unità-amore che abbraccia tutti gli esseri viventi e sfida la logica violenta della natura, a Piero Martinetti, filosofo antifascista come Capitini, che già nel ’22, nel suo Breviario spirituale condannava come immorale ogni violenza sugli animali ed affermava l’esistenza di una profonda comunanza tra esseri umani ed animali, ad Edmondo Marcucci, promotore della nonviolenza e del vegetarianesimo, fino ai pensatori di oggi. Tra questi in particolare meritano attenzione Leonardo Caffo e Marco Maurizi. Il primo, giovanissimo (è nato nell’88), considera il rispetto dei non umani come un momento della più generale opera di liberazione della società da ogni forma di oppressione, mentre Maurizi interpreta lo sfruttamento della natura e degli animali quale conseguenza del capitalismo, che ha assoggettato anche l’essere umano. La lotta di classe marxista va per Maurizi estesa anche al mondo animale, e dev’essere intesa come lotta per la liberazione da ogni forma di dominio.

Questo concetto di dominio è forse il concetto-chiave per un’etica interspecifica. E’ importante distinguere il potere dal dominio, che ne è la degenerazione. Il potere ha a che fare con la possibilità. Una persona ha potere se può soddisfare i suoi bisogni. Senza potere la vita stessa è impossibile: già mangiare è un atto di potere. Ora, c’è potere fino a quando questo soddisfacimento dei propri bisogni avviene non in contrasto con il soddisfacimento dei bisogni altrui; il potere è collaborativo: più persone che hanno potere soddisfano insieme i propri bisogni. E’, in fondo, quello che accade normalmente in società. Gli esseri umani si associano per provvedere meglio, insieme, ai bisogni di ognuno. Accade tuttavia che questa comunità si infranga, e che alcuni cerchino di soddisfare i propri bisogni limitando il soddisfacimento dei bisogni altrui. Alcuni vogliono essere di piùde gli altri. E’ così che nasce il dominio.

Lo sfruttamento della natura e degli animali è, per essenza, una forma di dominio: l’essere umano soddisfa i suoi bisogni, essenziali e non essenziali, a costo della vita di miliardi di esseri non umani. Ma non si tratta del dominio dell’essere umano sulla natura, bensì di un aspetto dello stesso dominio di alcuni umani su altri. Il sistema di dominio capitalistico, cioè, assoggetta tanto gli animali quanto gli esseri umani. Per sua natura, il capitalismo è escludente, anche se si presenta come una promessa di liberazione per tutti. Gli abitanti dei paesi ricchi possono vivere soddisfacendo bisogni fittizi, creati dal sistema dei consumi, solo se gli abitanti dei paesi poveri vivono in condizione di sfruttamento (e in condizioni simili sono, ogni giorno di più, ampie fasce della popolazione degli tessi paesi ricchi). I beni sul mercato capitalistico sono prodotti grazie alla manodopera a basso costo della Cina e di altri paesi asiatici. La stessa alimentazione carnea di chi vive nei paesi ricchi è possibile sottraendo risorse alimentari ai paesi poveri.

Non basta, per liberare gli animali, rivendicare i loro diritti. Come osserva lucidamente Pullia, “il diritto è, per sua natura, ambito di ambiguità e di violenza, coniato e plasmato, riconosciuto o negato a seconda del sistema socioeconomico dominante” (p. 70). Il diritto, cioè, non è al di sopra del sistema di dominio, ma ne è condizionato; per cui ci si illude, credendo che il diritto possa contrastarne le logiche. Cercare leggi contro il maltrattamento sugli animali o la vivisezione non basta. Pullia confida piuttosto nel diffondersi di una nuova sensibilità, dimostrata dalla presenza di numerosi movimenti per i diritti degli animali e da manifestazioni come quella contro Green Hill. Perché questa rivoluzione si compia, occorre che vi sia una svolta teoretica, un cambiamento radicale nella nostra visione del mondo che abbandoni il secolare antropocentrismo. Un cambiamento che può cominciare dal ricordare ad ognuno che ogni giorno, ogni ora, ogni istante in ogni parte del mondo si compie un olocausto silenzioso, lo sterminio di miliardi di vite ridotte a cosa, a prodotti da supermercato. I bambini nemmeno riescono più a risalire dal pezzo di carne che hanno nel piatto all’animale da cui quella carne è tratta. Vedono il prodotto, non la struttura di sofferenza che c’è dietro. Gli adulti non sono molto diversi. Sanno che dietro ogni pezzo di carne c’è un animale ucciso, ma in fondo non lo sanno davvero. Spesso non hanno mai visto un mattatoio o un allevamento industriale. Non vedono sia perché il sistema si preoccupa di mettere fuori dalla scena le immagini che disturbano – e le immagini della pubblicità sono al contrario rassicuranti –, sia perché sono condizionati da strutture di pensiero che giustificano qualsiasi violenza, poiché l’animale non è che una cosa.

Si tratta di strutture di pensiero sostanzialmente fragili, che non è difficile scardinare; “ragionamenti” come: “in fondo gli animali sono stati creati da Dio per noi”. Più difficile è combattere gli enormi interessi economici che sono dietro l’industria degli allevamenti, con la sua enorme capacità di condizionare l’opinione pubblica attraverso i mass media e gli investimenti pubblicitari. Il cambiamento, insomma, non è facile. Si tratta di una lotta che ha bisogno del contributo di figure diverse: economisti, pubblicitari, fotografi, documentaristi, scrittori (si pensi a Jonathan Safran Foer). E di filosofi come Francesco Pullia. 

Articolo scritto per Stato Quotidiano.

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Contro la filosofia del mattatoio

F. Pullia, Al punto di arrivo comune,
Mimesis, Udine 2012
Nella seconda metà degli anni Trenta un giovane di Perugia si interrogò sulle possibilità di una opposizione radicale al Regime fascista. Il fascismo – così ragionava – è un sistema politico che si regge su una visione del mondo. In cosa consiste questa visione? In quello che potremmo definire esclusivismo vitalista, vale a dire nella esaltazione di alcuni valori vitali (la giovinezza, l'esuberanza, la forza e la violenza) e nel considerare inferiori coloro che sono privi di questi valori – nel disprezzare il debole, il malato, il portatore di handicap. Per contrastare il fascismo bisogna allora pensare al contrario, portarsi dalla parte degli ultimi e dei deboli, cercare valori opposti a quelli vitalistici. E' quello che Aldo Capitini (così si chiamava quel giovane) farà per tutta la vita, giungendo ad elaborare una teoria della nonviolenza che è, con ogni probabilità, la più filosoficamente profonda che sia mai stata pensata. Intanto fa subito una scelta pratica: se il fascismo esalta la violenza del più forte sul più debole, lui sceglierà di rispettare ogni forma di vita. Per questo diventa vegetariano, in anni in cui essere vegetariani era considerato una bizzarria assoluta. Gli stessi amici antifascisti vedevano in ciò una sua stranezza, più che una scelta coerente.
L'eredità politica di Capitini è stata raccolta dal Movimento Nonviolento, da lui fondato nel 1961. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, non si può dire che abbia molti continuatori. Tra i pochi, occorre annoverare Francesco Pullia, filosofo animalista che del complesso pensiero capitiniano (che comprende anche una teoria del “potere di tutti”) ha ripreso l'aspetto dell'apertura ad ogni essere vivente. In Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza (Mimesis, Udine 2010) Pullia analizzava quella tradizione filosofica che, partendo appunto da Cartesio, nega ogni valore alla vita non umana ed afferma la rigida separazione tra mondo umano e mondo animale. Per il filosofo francese gli animali non erano che automi, macchine prive di vita, di pensiero, di emozioni, come tali liberamente sacrificabili. E' una convinzione che non si ritrova solo nella filosofia: anche la tradizione religiosa occidentale ha negato qualsiasi valore agli esseri non umani, rimarcano il legame tra uomo e Dio e la sua differenza da ogni altro vivente e dalla natura, che è chiamato a dominare. E se oggi la Chiesa parla di sacralità della vita, è chiaro che si tratta di sacralità della vita umana, mentre tutti gli altri esseri viventi restano privi di un valore intrinseco.

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Esordio

Papa Francesco 
Habemus papam, dunque. Per gli uni, il papa della povertà, dell’umiltà, dell’amore per i poveri. Per gli altri, il papa che è stato connivente con la feroce dittatura di Videla, corresponsabile della tragedia dei desaparecidos. Con ogni probabilità la querelle andrà avanti per tutto il suo pontificato, ed ognuno resterà sulle sue posizioni, poiché non c’è evidenza che possa impedire ad un cattolico di credere nel suo papa – e ancora oggi un cattolico è in grado di sostenere, non necessariamente in cattiva fede, che Giovanni Paolo II andò da Pinochet perché è compito di ogni bravo cristiano accogliere chi sbaglia.
Che papa sarà, dal punto di vista non dell’immagine mediatica, ma della teologia e del magistero? Le prima parole dell’omelia pronunciata oggi durante la messa con i cardinali non lasciano ben sperare:

Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio. 

C’è qui l’extra Ecclesiam nulla salus, supportato dalla citazione di un oscuro fanatico come Leon Bloy. Chi non prega Gesù Cristo, prega il diavolo. Ma chi non prega Gesù Cristo? Gli ebrei, ad esempio. I quali non si sono risentiti, per quello che ne so, dell’affermazione: che però, presa sul serio, cancella  decenni di lavoro per il dialogo ebraico-cristiano. Gli ebrei vengono di colpo costretti nel ruolo tradizionale di adoratori del Diavolo. E c’è anche una condanna del mondo laico, non credente, anch’esso tout court diabolico, poiché non confessa Cristo.
Ce n’est qu’un debut. Ma sembra un pessimo inizio.

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Esordio

Papa Francesco 
Habemus papam, dunque. Per gli uni, il papa della povertà, dell'umiltà, dell'amore per i poveri. Per gli altri, il papa che è stato connivente con la feroce dittatura di Videla, corresponsabile della tragedia dei desaparecidos. Con ogni probabilità la querelle andrà avanti per tutto il suo pontificato, ed ognuno resterà sulle sue posizioni, poiché non c'è evidenza che possa impedire ad un cattolico di credere nel suo papa - e ancora oggi un cattolico è in grado di sostenere, non necessariamente in cattiva fede, che Giovanni Paolo II andò da Pinochet perché è compito di ogni bravo cristiano accogliere chi sbaglia.
Che papa sarà, dal punto di vista non dell'immagine mediatica, ma della teologia e del magistero? Le prima parole dell'omelia pronunciata oggi durante la messa con i cardinali non lasciano ben sperare:

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Un razzista a 5 stelle*

Alcuni militanti del Movimento 5 Stelle di Foggia hanno denunciato, con un video, le disastrose condizioni igieniche del campo Rom di Arpinova, nel quale vivono anche otto famiglie foggiane.
In seguito alla denuncia, il sindaco ha annunciato sulla sua pagina Facebook un intervento di pulizia straordinaria:

Come era prevedibile, in una città in cui razzismo ha solide basi, si scatena la protesta dei bravi cittadini per quei soldi impiegati per i Rom, mentre ci sono ben altre priorità.
Tra gli altri, si distingue questo tizio:

Ora, per chi avrà votato questo soggetto? Ipotizzo:


A quanto pare ci ho preso:
Lo scambio seguente tra Vincenzo Rizzi, attivista del Movimento 5 Stelle da tempo impegnato nella difesa dell’ambiente, è piuttosto istruttivo:
Sono ben lontano dal ritenere che il Movimento 5 Stelle sia un movimento razzista; ma non è nemmeno, come sostiene Vincenzo Rizzi, un movimento apertamente antirazzista. E’ un movimento che sul tema dei diritti civili non ha preso posizioni chiare ed inequivocabili. Negli scritti di Grillo e Casaleggio si trovano spunti apprezzabili, ad esempio sulla condizione carceraria, ma al riguardo il programma del Movimento 5 Stelle è reticente. Grillo e Casaleggio hanno voluto che il loro movimento fosse post-ideologico, al di dà delle distinzioni tradizionali tra destra e sinistra (se un’ideologia c’è, è un’ideologia procedurale: l’ideologia della Rete come luogo e strumento della democrazia diretta). Ciò ha consentito al M5S di prendere voti tanto dai delusi dalla sinistra, quanto da destra. La conseguenza è questa: un movimento che ha imbarcato gente come questo razzista che vuole cacciare i Rom. Adesso mi pare che il movimento non abbia che due vie: o prendere posizione netta sui temi dei diritti civili, e perdere l’appoggio di razzisti ed altra gente di destra (chi è razzista in genere è anche poco sensibile, diciamo così, ai diritti dei detenuti, eccetera), oppure fare una politica che, per evitare la scissione e la perdita di consenso, risulterà inevitabilmente bloccata su un gran numero di questioni di importanza cruciale per la nostra democrazia.
* Il titolo iniziale di questo post era Razzisti a 5 stelle. L’ho modificato perché fuorviante: non sostengo affatto che il Movimento 5 Stelle sia un movimento razzista, ma che abbia imbarcato alcuni razzisti.

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Un razzista a 5 stelle*

Alcuni militanti del Movimento 5 Stelle di Foggia hanno denunciato, con un video, le disastrose condizioni igieniche del campo Rom di Arpinova, nel quale vivono anche otto famiglie foggiane.
In seguito alla denuncia, il sindaco ha annunciato sulla sua pagina Facebook un intervento di pulizia straordinaria:

Come era prevedibile, in una città in cui razzismo ha solide basi, si scatena la protesta dei bravi cittadini per quei soldi impiegati per i Rom, mentre ci sono ben altre priorità.
Tra gli altri, si distingue questo tizio:

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Thay

Thich Nhat Hanh con Martin Luther King
“In qualità di Premio Nobel per la Pace per l’anno 1964, ho il piacere di proporvi il nome di Thich Nhat Hanh per il premio del 1967. Non conosco personalmente nessuno che sia maggiormente meritevole del Premio Nobel per la Pace di questo gentile monaco buddhista del Vietnam”.
Così scrive il 24 gennaio 1967, in una lettera indirizzata al comitato per il Premio Nobel, Martin Luther King, il leader nonviolento dei diritti civili, che sarà ucciso a Memphis l’anno successivo. La proposta non fu accolta: nel 1967 il premio Nobel per la pace non è stato assegnato propri a causa della guerra in Vietnam. Oggi, a distanza di più di quarantacinque anni, la proposta viene ripresa da diversi gruppi in rete, che raccolgono firme per una petizione all’Istituto Nobel.
Ma chi è Thich Nhat Hanh? Un monaco minuto, dai modi estremamente gentili, che riesce con la sua sola presenza a trasmettere un senso di pace e di nobiltà spirituale. Non bisogna lasciarsi tuttavia ingannare dalla semplicità dei modi e dalla modestia della persona: quel piccolo monaco è anche una delle menti migliori del buddhismo contemporaneo, un filosofo che è riuscito a ripensare la millenaria tradizione di pensiero del dharma adattandolo alle esigenze del mondo attuale, un poeta sensibile, un delicato calligrafo. E’, soprattutto, l’uomo capace di attraversare la frontiera per andare a parlare con il nemico, ed insegnargli che non esistono nemici. Durante la guerra nel suo paese Nhat Hanh (semplicemente Thay, maestro, per i suoi discepoli) ha creato la School of Youth Social Service, una rete di attivisti nonviolenti dediti alla ricostruzione dei villaggi distrutti dalla guerra. La sua attività di sostegno sociale, che si poneva al di fuori degli schieramenti in guerra, gli costò l’esilio. Da anni vive in Francia, dove ha creato l’Ordine Tiep Hien (in italiano: Ordine dell’Interessere) e fondato presso Bordeaux Plum Village, un complesso di sette villaggi che accoglie monaci e laici che vogliano dedicarsi alla meditazione.

L’insegnamento di Thay, che appartiene alla tradizione del buddhismo zen, è centrato su una originale interpretazione di uno dei concetti centrali del buddhismo: quello di vacuità (śūnyatā). Tutte le cose, per il buddhismo, sono prive di una identità propria. Nulla è per sé, tutto è composto di altro. Questa concezione, che pare negativa, acquista in Thay una valenza positiva. Se nulla è per sé, allora vuol dire che le cose non sono, ma inter-sono. Di qui l’idea di Interessere, che è la traduzione della vacuità in un linguaggio comprensibile anche per i non buddhisti. Il mondo è una rete di implicazioni, di relazioni, di rimandi. In ogni cosa c’è dell’altro: un foglio di carta contiene, a ben vedere, una nuvola, poiché non esisterebbe senza l’albero, e l’albero senza la pioggia, e la pioggia senza la nuvola. Tutto è relazione. E questo, naturalmente, vale anche per gli esseri umani. Ognuno di noi è in relazione con gli altri, ed anche con coloro che sembrano nostri nemici: perfino con l’assassino. In una poesia Thay parla di una bambina violentata da un pirata (una tragedia tutt’altro che infrequente nel suo paese), e scrive:
Io sono la bambina dodicenne profuga su una barca,
che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata.
E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare.
La consapevolezza dell’interesse porta alla compassione, a conquistare un punto di vista che non è solo quello della vittima, ma anche quello del carnefice; a comprendere che quest’ultimo è tale perché le condizioni di vita lo hanno portato lontano dal bene, ed è lui stesso la prima vittima del suo male. Una convinzione che ha spinto il vietnamita Nhat Hanh a tenere dei corsi per la riabilitazione dei veterani di guerra negli Stati Uniti: ad aiutare, cioè, le stesse persone che hanno massacrato il suo popolo.
E’ grazie a Thich Nhat Hanh se esiste oggi un “buddhismo impegnato”, ossia un buddhismo che non è più soltanto una pratica per la liberazione individuale dalla sofferenza, ma un fronte di lotta politica contro le sofferenze del mondo dovute all’ingiustizia, all’iniqua distribuzione delle risorse, allo sfruttamento, alla violenza. E poiché molte violenze sono dovute proprio alle religioni, il primo dei quattordici principi di base dell’Ordine Tien Hien così recita: “Consapevoli della sofferenza creata dal fanatismo e dall’intolleranza, siamo determinati a non idolatrare né ritenere vincolante alcuna dottrina, teoria o ideologia, neppure quelle buddhiste. Ci impegniamo a considerare gli insegnamenti buddhisti come strumenti che ci guidano e ci aiutano a imparare a guardare in profondità e a sviluppare comprensione e compassione. Non sono dottrine per cui combattere, uccidere o morire”. Non è una concezione nuova, per il buddhismo. Secondo un’immagine usata dal Buddha stesso, la dottrina buddhista non è che una zattera, ossia uno strumento utile. Il buddhista che si attaccasse al buddhismo sarebbe simile a colui che, attraversato il fiume con la zattera, si caricasse la zattera sulle spalle e se la portasse con sé.
Ho avuto modo di partecipare ad una meditazione camminata guidata da Thich Nhat Hanh a Napoli, nel marzo del 2008. L’inusuale corteo partì da piazza del Plebiscito e, con lentezza estrema, si snodò verso via Chiaia, attraversò il traffico, bloccandolo (“abbiate un po’ di compassione buddhistica anche per gli automobilisti”, disse un automobilista) e si concluse in villa comunale, dove uno scugnizzo commentò così la lunghezza del corteo: “Ma questa è una pace infinita”. L’ho chiamato corteo. Ma i cortei si fanno in genere per rivendicare qualcosa, sono manifestazioni in vista di uno scopo. Quel lento camminare nel mezzo della città, tenendosi per mano ed in silenzio, era qualcosa d’altro: la realizzazione, qui ed ora, di una situazione di pace; e la dimostrazione che ovunque – in famiglia, a scuola, nel chiuso di un carcere, nella miseria dei non-luoghi postmoderni – è possibile fermarsi e praticare l’attenzione e la compassione.
Articolo scritto per Stato Quotidiano.

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Thay

Thich Nhat Hanh con Martin Luther King
“In qualità di Premio Nobel per la Pace per l'anno 1964, ho il piacere di proporvi il nome di Thich Nhat Hanh per il premio del 1967. Non conosco personalmente nessuno che sia maggiormente meritevole del Premio Nobel per la Pace di questo gentile monaco buddhista del Vietnam”.
Così scrive il 24 gennaio 1967, in una lettera indirizzata al comitato per il Premio Nobel, Martin Luther King, il leader nonviolento dei diritti civili, che sarà ucciso a Memphis l'anno successivo. La proposta non fu accolta: nel 1967 il premio Nobel per la pace non è stato assegnato propri a causa della guerra in Vietnam. Oggi, a distanza di più di quarantacinque anni, la proposta viene ripresa da diversi gruppi in rete, che raccolgono firme per una petizione all'Istituto Nobel.
Ma chi è Thich Nhat Hanh? Un monaco minuto, dai modi estremamente gentili, che riesce con la sua sola presenza a trasmettere un senso di pace e di nobiltà spirituale. Non bisogna lasciarsi tuttavia ingannare dalla semplicità dei modi e dalla modestia della persona: quel piccolo monaco è anche una delle menti migliori del buddhismo contemporaneo, un filosofo che è riuscito a ripensare la millenaria tradizione di pensiero del dharma adattandolo alle esigenze del mondo attuale, un poeta sensibile, un delicato calligrafo. E', soprattutto, l'uomo capace di attraversare la frontiera per andare a parlare con il nemico, ed insegnargli che non esistono nemici. Durante la guerra nel suo paese Nhat Hanh (semplicemente Thay, maestro, per i suoi discepoli) ha creato la School of Youth Social Service, una rete di attivisti nonviolenti dediti alla ricostruzione dei villaggi distrutti dalla guerra. La sua attività di sostegno sociale, che si poneva al di fuori degli schieramenti in guerra, gli costò l'esilio. Da anni vive in Francia, dove ha creato l'Ordine Tiep Hien (in italiano: Ordine dell'Interessere) e fondato presso Bordeaux Plum Village, un complesso di sette villaggi che accoglie monaci e laici che vogliano dedicarsi alla meditazione.

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Beppe Grillo, il parresiaste

Beppe Grillo

Non occorre essere dei fini politologi per capire le ragioni della vittoria di Beppe Grillo: basta chiederlo a chi l’ha votato. Perché chi ha votato Grillo, a differenza di chi ha votato Berlusconi, non si nasconde; al contrario: sembra orgoglioso della sua scelta. E chiedete, dunque: perché avete votato per Grillo? Io ho ricevuto il più delle volte una risposta di questo tipo: “perché Grillo è uno che dice le cose come stanno”. Beppe Grillo è il comico che, dopo aver fatto ridere come tanti altri comici, ha cominciato a diventare scomodo, ed è stato espulso dal sistema. Anche se è scomparso dagli schermi televisivi, la gente si è ricordata di quel comico lì, quello che dava fastidio. Ed ora si è accorta di aver bisogno di lui. Perché? I Greci avevano il concetto di parresia, la capacità di dire la verità, di esprimersi liberamente di fronte al potere, che consideravano essenziale per la democrazia. Il concetto è presente anche nel Nuovo Testamento, quale franchezza nell’annuncio del Vangelo da parte degli apostoli, anche a costo della persecuzione. Mi pare che si possa interpretare in questo modo l’esito delle ultime elezioni. Gli italiani, estenuati da un potere che si è alimentato e sostenuto con la dissimulazione, l’inganno, la segretezza, la distorsione sistematica della verità, hanno scelto la figura del parresiaste, del comico scomodo che dice al re che è nudo. Il fatto che sia un comico è un punto a suo favore: è estraneo al mondo politico, considerato una casta indistinta che persegue scopi comuni, al di là delle differenze di ideologia e di bandiera. E’ vero che un leader politico rappresenta sempre una proiezione, l’incarnazione di un ideale umano condiviso. Mandando al potere Berlusconi, gli italiani hanno dato forma ad una delle loro anime – quella lazzarona, furba, cialtrona, maschilista, sostanzialmente mafiosa. Se la mia analisi non è errata, Grillo incarna il contrario: colui che si oppone al potere in nome della verità, e dunque esprime istanze ideali ed etiche (ed anche, certo, la rabbia trattenuta troppo a lungo contro il triste spettacolo della politica, il vaffanculo liberatorio indirizzato tanto alla destra quanto alla sinistra).

Questa esigenza spiega, forse, il voto di pancia di molti, ad esempio di non pochi pensionati e di molti giovani al primo voto. C’è poi il voto più meditato di quelli per i quali Grillo non è il comico cacciato dalla televisione, ma il blogger influente che ha creato un movimento in grado di controllare il potere.
In un sistema democratico il potere è sempre sotto controllo, e questo controllo impedisce che degeneri in dominio. In Italia non è mai stato così. Era fuori controllo il potere democristiano, che viveva di segretezza, di trame oscure, di servizi segreti deviati, di stragi di Stato, di accordi con la mafia. La breve stagione di Tangentopoli ha dato l’illusione che la magistratura potesse controllare il potere, come previsto dalla Costituzione. Ma le cose sono andate diversamente. Nella Seconda Repubblica il potere è stato fuori controllo non meno che nella prima, anche se in modo diverso. Si è posto fuori dal controllo in due modi: in primo luogo grazie ai mass media, che in un sistema democratico funzionante sono, insieme alla magistratura, la principale struttura per il controllo del potere, e che sono diventati invece uno strumento al servizio del potere per la manipolazione delle masse; in secondo luogo impedendo alla magistratura di esercitare la sua funzione attraverso le leggi ad personam. Chiunque avesse a cuore le sorti della nostra democrazia avrebbe dovuto considerare quale primo punto dell’agenda politica il tema del controllo del potere. Altri sono stati invece i temi imposti all’opinione pubblica dai mass media controllati dalla politica: quelli della sicurezza e dell’immigrazione in primis.
Oggi le forze politiche uscite sconfitte dalle ultime elezioni – in sostanza tutte, tranne il Movimento 5 Stelle – evocano foschi scenari: la nostra democrazia, che ha resistito (ma ha davvero resistito?) alla mafia democristiana, alle ruberie socialiste ed alla telecrazia berlusconiana, sarebbe ora in crisi per i vaffanculo di Beppe Grillo. Non manca la reductio ad Hitlerum: su Facebook gira un falso discorso di Hitler di cui si rimarca la pretesa somiglianza con quelli di Grillo. Sarebbe interessante compiere la stessa operazione con (l’ex) papa Benedetto XVI (Hitler non diceva Gott mit uns?) o con Gandhi (che in Hind Swaraj dice tutto il male possibile del Parlamento).
Piaccia o meno – ed ho appena spiegato perché dovrebbe piacere, e molto – con il Movimento 5 Stelle il tema del controllo del potere conquista il primo posto nell’agenda politica. L’idea di Grillo e Casaleggio è che il potere ha bisogno di un contropotere che lo controlli e lo tenga nei suoi limiti. Questo contropotere non è rappresentato né dai mass media né dalla magistratura; è rappresentato dalla Rete. I mass media si possono controllare con il denaro, la magistratura con il denaro e le leggi ad personam. Il Web no: sfugge ad ogni controllo. L’esito fallimentare delle avventure in rete di politici come Clemente Mastella o Romano Prodi dimostra l’impossibilità di usare la rete come uno strumento. La rete è per sua natura orizzontale, non tollera il “lei non sa chi sono io”. L’onorevole che apre un suo profilo Facebook o un suo blog deve dialogare a tu per tu con i suoi lettori. Non esistono autorità, VIP, sue santità in rete: lo dimostra (anche tristemente) l’esito infelice del profilo Twitter di Benedetto XVI. In rete si va per discutere, non per pontificare. E chi pontifica presto si rende ridicolo e viene espulso.
I nuovi eletti al Parlamento del Movimento 5 Stelle promettono di essere politici di nuova specie, non onorevoli ma cittadini che rispondono ai cittadini attraverso la rete. Lo saranno davvero? Difficile dirlo, così come è difficile dire se funzionerà realmente – anche tecnicamente – il sistema di democrazia digitale legato al blog di Beppe Grillo. Soprattutto, occorrerà vedere in che modo l’aspetto orizzontale, partecipativo ed aperto del Movimento (ben espresso dal motto “uno vale uno”) possa conciliarsi con la presenza del leader. In un articolo di tre anni fa scrivevo:

O i grillini sono seguaci del guru Grillo, e lo applaudono anche quando insulta Rita Levi Montalcini o rimpiange la sacralità dei confini nazionali contro l’invasione dei Rom, oppure sono persone che discutono apertamente ed orizzontalmente dei problemi comuni. È evidente la grottesca contraddizione di un movimento di persone che vogliono pensare con la propria testa, e al tempo stesso dipendono dalle parole d’ordine, dalle rivelazioni, persino dagli umori del loro leader. È una contraddizione che non può durare: o il movimento finirà per emanciparsi da Grillo, e farà politica autentica (esito improbabile, benché auspicabile), oppure finirà per essere schiacciato dalla figura ingombrante del suo stesso fondatore (1).

In un libro pubblicato successivamente a quell’articolo, Grillo e Casaleggio sostengono che per la Rete il concetto di leader “è una bestemmia”, e che esistono solo “portavoce delle istanze dei cittadini” (2). Nemmeno Beppe Grillo, dunque, è nulla più che un semplice portavoce. Ma le cose al momento non stanno così. Grillo è, che lo voglia o no, il leader del Movimento; e la sua opinione, che gli piaccia o meno, vale più di quella degli altri. Nel forum del Movimento non è infrequente il ricorso all’ipse dixit, per mettere a tacere chi la pensa diversamente.
C’è poi il problema culturale. Abbiamo alle spalle (sono in vena di ottimismo) decenni di politica clientelare. I politici hanno corrotto profondamente la fibra morale del paese e degradato la politica fino a farne un miserabile mercanteggiare. Uscirne sarà impresa meno facile del previsto. Ecco un messaggio comparso qualche minuto fa nel forum del Movimento:

carissimoBeppe io ti ho votato con il cuore credimi posso dimostrarlo ,.ti chiedo un favore enorme io ho perso il lavoro da 2anni sono sposato con due figli.ho 47 anni e 33 anni di contributi  non riesco a trovare nulla come dobbiamo vivere visto che siamo totalmente abbandonati da tutti specialmente dai parenti grazie 

Per chi avrà votato, in passato, questo disoccupato? Si badi al “posso dimostrarlo”. Votare per un politico e dimostrarlo è il meccanismo del voto di scambio, vale a dire una delle infinite porcate che hanno violentato la nostra democrazia. Per quest’uomo votare il Movimento 5 Stelle non ha comportato in alcun modo un cambiamento di logica: è ancora interamente immerso nella logica clientelare-mafiosa. La domanda è: quanti hanno votato il Movimento 5 Stelle mossi dalla stessa logica? Quante richieste di questo genere arriveranno a Grillo ed ai grillini? E sapranno spiegare a quest’uomo che la politica è un’altra cosa?
C’è poi la questione dei diritti civili. Nel programma del Movimento 5 Stelle (più un elenco di cose da fare che un programma argomentato) mancano del tutto questioni come le unioni di fatto, i matrimoni omosessuali, il testamento biologico, l’integrazione dei Rom, la cittadinanza ai figli degli immigrati e l’immigrazione in generale, eccetera. Su alcune di questi punti Grillo si è espresso: ha parlato ad esempio di “confini sconsacrati” dall’immigrazione selvaggia e della proposta “senza senso” di dare la cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia. Posizioni che manifestano un limite reale, politico ed anche umano, di Grillo. Poiché Grillo non è il Movimento, di cui non è nemmeno il leader, bisognerà vedere come e quanto il Movimento riuscirà ad aprirsi ai diritti civili (una interessante apertura sullo ius soli viene ad esempio dal Movimento 5 Stelle di Monza).

(1) A. Vigilante,  Il problema del pubblico, Dewey e Beppe Grillo. Limiti e contraddizioni del guru digitale in Diogene. Filosofare oggi, n. 20, 2010.
(2) B. Grillo, G. Casaleggio, Siamo in guerra. Per una nuova politica, Chiarelettere, Milano 2011, p. 11.

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Beppe Grillo, il parresiaste

Beppe Grillo
Non occorre essere dei fini politologi per capire le ragioni della vittoria di Beppe Grillo: basta chiederlo a chi l'ha votato. Perché chi ha votato Grillo, a differenza di chi ha votato Berlusconi, non si nasconde; al contrario: sembra orgoglioso della sua scelta. E chiedete, dunque: perché avete votato per Grillo? Io ho ricevuto il più delle volte una risposta di questo tipo: "perché Grillo è uno che dice le cose come stanno". Beppe Grillo è il comico che, dopo aver fatto ridere come tanti altri comici, ha cominciato a diventare scomodo, ed è stato espulso dal sistema. Anche se è scomparso dagli schermi televisivi, la gente si è ricordata di quel comico lì, quello che dava fastidio. Ed ora si è accorta di aver bisogno di lui. Perché? I Greci avevano il concetto di parresia, la capacità di dire la verità, di esprimersi liberamente di fronte al potere, che consideravano essenziale per la democrazia. Il concetto è presente anche nel Nuovo Testamento, quale franchezza nell'annuncio del Vangelo da parte degli apostoli, anche a costo della persecuzione. Mi pare che si possa interpretare in questo modo l'esito delle ultime elezioni. Gli italiani, estenuati da un potere che si è alimentato e sostenuto con la dissimulazione, l'inganno, la segretezza, la distorsione sistematica della verità, hanno scelto la figura del parresiaste, del comico scomodo che dice al re che è nudo. Il fatto che sia un comico è un punto a suo favore: è estraneo al mondo politico, considerato una casta indistinta che persegue scopi comuni, al di là delle differenze di ideologia e di bandiera. E' vero che un leader politico rappresenta sempre una proiezione, l'incarnazione di un ideale umano condiviso. Mandando al potere Berlusconi, gli italiani hanno dato forma ad una delle loro anime - quella lazzarona, furba, cialtrona, maschilista, sostanzialmente mafiosa. Se la mia analisi non è errata, Grillo incarna il contrario: colui che si oppone al potere in nome della verità, e dunque esprime istanze ideali ed etiche (ed anche, certo, la rabbia trattenuta troppo a lungo contro il triste spettacolo della politica, il vaffanculo liberatorio indirizzato tanto alla destra quanto alla sinistra).

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