Blog di Antonio Vigilante

Essere dentro (o dietro) di sé

Ognuno avverte di subire violenza ogni volta che viene costretto a fare qualcosa contro la sua volontà, viene privato della propria libertà ed oppresso da circostanze esteriori. Se si è sfortunati, queste situazioni si verificano quotidianamente per molte ore. Per alcuni il lavoro non è altro che questo: fare per diverse ore al giorno cose che non vorremmo fare; il lavoro è, cioè, non un fattore di crescita e di realizzazione personale, ma una vera e propria maledizione.

Il tempo lasciato libero dal lavoro è per molti il tempo della distrazione, del divertissement in senso pascaliano. Si guarda la televisione, si va al bar, si parla con gli amici: ci si rilassa. E si sta bene, indubbiamente. Dobbiamo dunque considerare il divertimento una situazione educativa?
In ogni situazione educativa le persone sperimentano una situazione di pienezza, di vita intensa. Non ogni star bene, tuttavia, è una situazione educativa. E’ opportuno distinguere lo star bene dall’ essere bene. Delle persone che passino la serata a bere e divertirsi in un locale indubbiamente stanno bene, si divertono e passano il loro tempo nel modo che desiderano. Non si può dire tuttavia che bere e divertirsi in un locale sia una situazione educativa e di pace, perché queste attività restano alla superficie, non toccano realmente l’interiorità e la relazionalità. Un gruppo di amici che comunichino in modo attento su temi importanti è cosa diversa. In questo caso si va a fondo: ognuno può constatare che il benessere che si prova è diverso; non riguarda la situazione passeggera, contingente, ma ha conseguenze durevoli su sé stessi: riguarda, cioè, l’essere, e non lo stare.
Quella in cui siamo è una civiltà dello star bene. Si cerca di evitare il disagio, la sofferenza, il brutto, il negativo. Tutto ciò non scaturisce tuttavia da una forte opzione in favore della vita; al contrario: lo stesso rifiuto del negativo finisce per avere un risvolto necrofilo. Il negativo, che non va idealizzato come un una certa retorica cattolica, riesce tuttavia a metterci profondamente in contatto con noi stessi, ci costringe a porci le domande fondamentali, a considerare la nostra finitezza, a ragionare su ciò che ci oltrepassa (e non necessariamente in senso religioso). Il negativo non può essere semplicemente rimosso. Quando ciò accade, non si ha l’affermazione della vita, ma il suo evitamento. Vivere in modo intenso vuol dire avere a che fare col negativo, con la morte. La poesia e la letteratura hanno tematizzato più volte il nesso inscindibile tra sesso e morte, tra l’affermazione vitale e la negazione dell’essere. Rimosso il negativo, resta una vita che si svolge alla superficie del sé, correlato soggettivo del sistema dei consumi. Il soggetto è un estraneo a sé stesso: lavora, si diverte, ama costantemente fuori di sé, in modo automatico, con una identità tenuta insieme artificialmente, priva di verifica. Indossa l’io come un abito, senza nemmeno più accorgersi che sotto c’è dell’altro.
L’urto del negativo ci costringe a fare i conti con la nostra identità fittizia. Chi sono io? Chi sono davvero? Esiste davvero qualcosa come un io? C’è una unità oltre il fluire dei pensieri, delle impressioni, dei sentimenti? E che legame c’è tra ciò che considero interno e ciò che mi pare esterno? Che rapporto c’è tra le cose e la mia coscienza? Quali sono i confini della mia coscienza? C’è un retroscena dell’io?
Porsi queste domande vuol dire entrare nel campo della spiritualità. Se l’etica riguarda il rapporto con l’altro e la religione il rapporto con Dio, la spiritualità è la dimensione del rapporto con noi stessi. E’ una cosa scomoda, la spiritualità; che infastidisce. L’inizio della spiritualità è un sentimento molto forte di angoscia, l’impressione disperante di aver smarrito ogni certezza, il senso di essere niente – e che niente sia tutta la vita. Un documento interessante della crisi che segna l’ingresso nel campo della spiritualità è la Confessione di Tolstoj. Lo scrittore vi racconta il periodo di smarrimento che lo conduce alla soglia del suicidio. C’era una inquitudine di fondo, che tenta di coprire dedicandosi alla scrittura, all’educazione dei figli dei contadini, all’attività di giudice popolare, ma presto queste attività non riescono più a distrarlo, e torna ad emergere prepotente la domanda sul senso della vita: «Cosa risulterà da ciò che faccio oggi, da ciò che farò domani e da tutta la mia vita?» (1). E’ la stessa domanda del libro di Qohelet (1, 3): «Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?». Il problema è quello della morte, della finitezza. Qualunque cosa si faccia, la morte si presenta come l’orizzonte ultimo, nullificante. Se la morte c’è, non c’è azione che abbia valore e senso, ogni cosa appare vana, e la vita scivola via inconsistente. Il suicidio appare l’unica tragica via d’uscita, il modo paradossale per dare consistenza ad una vita vuota. L’alternativa è, per Tolstoj, una fede sui generis, che più che la devozione ad un essere divino implica una visione radicalmente differente della vita. Nel 1882, in un post-scriptum alla Confessione, racconta una sogno che a suo dire sintetizza tutta la vicenda della sua crisi e della sua conversione. Lo scrittore è coricato su un giaciglio fatto di cinghie, sospeso nel vuoto. Alcune cinghie si staccano ed si trova a penzolare pericolosamente, con il rischio di scivolare ed annientarsi nell’abisso. Ad un certo punto però smette di guardare in basso e guarda il cielo, l’abisso speculare che è sopra di lui. Tutte le cincghie cedono, tranne una, eppure lo scrittore si sente saldo nella sua posizione, non ha più paura di cadere. La situazione è diventata anc he più precaria, ma è cambiato il punto di vista: non più verso il basso, ma verso l’alto.
Il negativo ed il positivo in questa immagine onirica si implicano a vicenda. E’ solo in quanto sospeso sull’abisso, che Tolstoj può avvertirsi appeso al cielo. La precarietà e la disperazione sono la condizione della solidità e della gioia. Chi non rischia di cadere non può sollevarsi. Cosa vuol dire sollevarsi? Non c’è una risposta univoca a questa domanda. Per alcuni, può essere l’incontro con il Dio di una tradizione religiosa; per altri, come lo stesso Tolstoj, la conquista di una visione assiologica della vita; per altri ancora, un sentiero che porta verso il non dicibile, lì dove le parole non servono; ed altro ancora. Si tratta di percorsi personali, che vanno oltre le distinzioni correnti tra fede ed ateismo (esiste anche una spiritualità ateistica).
La spiritualità sembra dunque una faccenda personale, un sentiero che ognuno di noi deve percorrere in solitudine. E’ così solo in parte. E’ vero che alcune delle esperienze che predispongono alla spiritualità (la malattia, la perdita di una persona cara, la solitudine eccetera) semplicemente accadono, ed è anche vero che, una volta accadute, attivano processi di riflessione e di ricerca del tutto sono personali. Questi processi autoeducativi possono tuttavia procedere con difficoltà ed arrestarsi se non c’è nel soggetto una abitudine alla riflessione ed alla ricerca, che è compito dell’educazione favorire. Così come spetta all’educazioen contrastare la tendenza, propria della civiltà dei consumi, alla superficialità ed alla distrazione.
In una situazione educativa le persone stanno insieme in un modo che le riporta intensamente a sé stesse. E’ quanto accade ogni volta che si discute in gruppo, con la serietà e la calma necessaria, di temi esistenziali. Lo studio della filosofia e quello della religione – quest’ultimo con una prospettiva ampia e comparativa, ed al di fuori di ogni confessionalismo – possono favorire questa trattazione comune di temi esistenziali, a condizione che siano affrontati al di là di ogni nozionismo, affrontando possibilmente i testi stessi e discutendoli insieme. Poiché siamo in una società che rigetta il negativo, l’avvio di una attività di questo genere, soprattutto con i più giovani, sarà tutt’altro che facile; prevarranno il fastidio, l’impressione di fare qualcosa di insolito, forse anche la paura. Superata questa difficoltà iniziale, ci si abituerà progressivamente all’intensità di questi confronti, che rispondono ad un bisogno reale di consistere, di andare a fondo nella propria vita.
Un’altra possibilità è quella del silenzio. Stare insieme in silenzio, creare uno spazio comune aperto al silenzio, custodirlo, e in questo spazio muoversi in modo nuovo: anche questa è una esperienza densa di significato, che manca del tutto nelle nostre scuole, nelle quali, quando si fa silenzio, è solo per lasciare spazio alla parola del docente. Il silenzio è, se non altro, una igiene necessaria in un tempo in cui la parola, il suono, il rumore invadono, seducono, fanno violenza.
V’è poi la meditazione. Del tutto sconosciute ai sistemi educativi occidentali, alcune tecniche di meditazione – come la meditazione buddhista vipassana – possono essere adoperate in una prospettiva laica, perché non comportano l’adesione ad alcuna visione religiosa, e consistono in una serie di pratiche che favoriscono il contatto con sé stessi. Il meditante si concentra sul respiro, poi sulle posizioni del suo corpo, sulle sensazioni, sugli stati mentali. Il fine è quello della presenza mentale, che vuol dire compiere ogni azione, comprese quelle più insignificanti, essendo pienamente presenti, concentrati, attenti; una vera e propria arte del vivere intensamente, scoprendo un significato nuovo nella propria quotidianità. Una volta conquistata questa prospettiva, ogni azione diventa spirituale, poiché compiuta con la piena presenza di sé stessi ed a sé stessi. E’ bene ribadire che la via della spiritualità attraversa il negativo per giungere al positivo. C’è una possibilità di vita più piena e vera, che va scoperta.
E’ per questo che stare in una situazione spirituale, se può suscitare imbarazzo iniziale, è una esperienza di essere bene.

Note

(1) L. Tolstoj, La confessione, tr. it., Studio Editoriale, Milano 2000, p.34.

[Da uno studio in preparazione]