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blog di antonio vigilante

Fontenelle [?], Lettera sulla nudità dei selvaggi

Immagine tratta da: Barone di Lahontan, Illustrations de Mémoires de l'Amérique septentrionale... Les Frères l'Honoré La Haye 1704.
Come già fecero tanti prima di lui, e come tanti altri faranno dopo, nel 1674 S. van Doelvelt si mette in viaggio per terre sconosciute, alla ricerca di fama ed avventura. Dopo l’immancabile provvidenziale naufragio, approda in una delle terre del mondo d’Utopia: si tratta, questa volta, dell’isola di Ajao, ovvero la Repubblica dei Filosofi. L’abitano degli uomini saggi, adoratori della ragione e della Natura: e per giunta materialisti, atei e comunisti. Noi adoreremmo loro, se non fosse per una certa crudeltà verso i loro schiavi - i quali sono i vecchi abitanti dell’isola di Ajao, gente indolente e superstiziosa, che certo merita di essere schiacciata così come l’errore dev’essere distrutto dalla ragione.
L’avventura di van Doelvelt è raccontata da Fontenelle nella sua Repubblica dei Filosofi, uscita a Ginevra nel 1768: uno dei tanti romanzi utopistici della Francia moderna, dalla Histoire de Calejava (o meglio, dalla utopia proto-femminista di Christine Pizan) a quella Icaria di Etienne Cabet in cui qualcuno vedrà una precisa anticipazione e prefigurazione onirica dell’Unione Sovietica.
In appendice al romanzo utopistico c’è una divertente lettera sulla nudità dei selvaggi, scritta in risposta ad alcuni quesiti di una ignota Madame. Il suo ignoto autore tocca temi di non poca importanza, con una licenziosità così garbata che, quando giunge ad affermare che il coso che noialtri abbiamo tra le gambe è un Dio, e la cosa che quelle lì hanno tra le loro gambe è il suo tempio, a nessuno, sono certo, vien voglia di protestare.

Traduco da: Bernard Le Bouyer de Fontenelle, La République des philosophes, ou Histoire des Ajaoiens, Genève, s.n., 1768, pp. 164-199.

Lettera a Madame la Marchesa di *** sulla nudità dei selvaggi

Madame,
non so come rispondere alla lettera che mi avete fatto l’onore di scrivermi, né come trattare questo argomento della nudità dei selvaggi, senza offendere la vostra modestia: l’argomento è molto delicato; mi asterrò dalle oscenità, ma non so se potrò tenersi al riparo da idee oscene.
Come, dite voi, è possibile sopportare, senza arrossire di vergogna, la presenza di uomini e di donne tutti nudi? Come è possibile vedere nelle chiese, senza distrarsi, delle cose simili? In che modo i ministri del Signore, che non tollerano che si stia in chiesa senza avere il seno e le braccia coperti, possono permettere che quelle genti entrino nel tempio e le donne portino scoperto un seno che nelle giovani ballonzola come degli agnelli sul prato, e che gli uomini, la cui carnagione e l’espressione naturale dei muscoli annunciano e promettono i felici effetti del vigore maschile? Come può avvenire ciò senza che il bel sesso ne sia turbato e i maschi ne siano eccitati, senza offendere il pudore che possediamo dalla nascita e che è naturale? Voi siete sicura, Madame, che non può essere altrimenti. L’esperienza tuttavia distrugge le vostre ragioni, e mostra che ciò che si chiama pudore non deve essere considerato al rango delle idee che chiamiamo innate, e che non è che un effetto della educazione, del costume e dell’uso.
Se la Natura avesse donato all’uomo qualche parte realmente vergognosa, da non esporre alla vista, essa è troppo saggia per non averlo dotato al contempo di qualche altra parte, con cui coprirle e nasconderle alla vista. Solo quando hanno imparato le conseguenze della nudità e l’idea che ci si forma del pudore, i bambini cominciano ad arrossire come i loro genitori e i loro maestri.
Prova che questo pudore è effetto dell’educazione è il fatto che il bel sesso non arrossisce vedendo nei quadri dei bambini che rappresentano degli amorini, dei quali nulla è nascosto; ma tutti protesterebbero, se questi amorini fossero femmine. Si cammina tranquillamente in un giardino pieno di belle statue tutte nude, che rappresentano fauni ed atleti, senza esserne turbati e senza arrossire. Un grande principe, che aveva fatto coprire con dei pampini fatti di tufo, fece dire a una Dama: Oh, che belle cose vedremo quest’autunno, quando le foglie cadranno!
Si guarda con una sorta di indignazione chi conserva nel suo studio dei quadri o delle incisioni che contengono delle nudità considerate oscene, mentre si ammirano un Ercole, una Venere Medicea, ed altre divinità dell’antichità pagana, esposte agli occhi del pubblico, in palazzi i cui proprietari sono di primo rango tra i ministri della religione. Convenitene, Madame, si tratta degli effetti dell’educazione, del costume, della prevenzione. Ecco una prova ancora più efficace: voi non arrossite certamente, Madame, nell’esporre allo sguardo ed all’ammirazione pubblica il vostro bel viso cosparso di rose, i vostri begli occhi e tutte le grazie con le quali la Natura vi ha favorito, mentre la più bella ottomana, non dico la sultana del serraglio, ma la sposa di un semplice maomettano, crederebbe di aver perso il proprio onore, se un uomo diverso dal marito vedesse il suo viso. Salendo in battello sul Nilo da Alessandria al grande Cairo, ho visto spesso delle egiziane che venivano ad attingere acqua e si gettavano sulla testa l’orlo della camicia per coprirsi il viso, a rischio di mostrare ai nostri occhi ciò che voi sareste addolorata, Madame, di mostrare a chiunque al mondo.
In altri paesi, non è meno vergognoso per le donne mostrare i piedi, che spesso storpiano ferrandoli, per renderli più piccoli. Gli Azenagi, popolo del Senegal, coprono le loro bocche con più cura delle parti naturali. Forse che il viso, la bocca, i piedi di queste genti sono parti vergognose, che non si osa mostrare senza offendere il pudore e perdere l’onore? No, certamente, mi direte voi, per chi non abbia un tale sentimento e creda, al contrario, che sia bello e naturale mostrarli, come anche abbellirli ed aumentarne le attrattive; e voi vi burlate, ed a ragione, delle idee ridicole di questi popoli. Essi, al contrario, credono che certe idee debbano essere innate nelle loro donne, come voi credete che sia naturale coprire le altre parti del vostro bel corpo.
Se il pudore fosse qualche cosa di naturale in noi, Adamo ed Eva, creati nudi nel paradiso terrestre, sarebbero arrossiti per il loro stato, mentre la vergogna li ha sorpresi solo dopo il loro peccato, ed il pudore, che noi consideriamo una virtù, fu quasi una punizione per la loro disobbedienza. Allora coprirono la loro nudità con una foglia di fico – non dispiaccia a quelli che, pensando che una tale foglia fosse troppo piccola, la sostituirono con una foglia di banano, che misura da cinque e dieci piedi di lunghezza su due di larghezza. Io dico che una tale foglia non era necessaria, li avrebbe indubbiamente imbarazzati, se l’avessero presa come primo pezzo dell’armatura d’un cavaliere, come si esprime Rabelais, vale a dire per usarla come brachetta: d’altra parte, donarle una così larga copertura significa fare torto ad Eva, e quand’anche Adamo fosse stato simile al Dio di Lampsaco, una tale foglia gli sarebbe stata larga. La Camisa dei Caraibici, come già vi ho fatto notare, Madame, non è più grande di una normale foglia di fico, eppure copre interamente la loro nudità: e lo straccio che gli uomini portano attaccato alle reni non è largo che quattro pollici; il resto del loro corpo è nudo, ma non se ne vergognano.
E perché dovrebbero arrossire? Prima dell’invenzione delle arti e dei mestieri, prima che si fabbricassero le stoffe, gli uomini non andavano nudi? E questo uso di andar nudo è dovuto durare molto a lungo, perché nei tempi eroici gli Ercole, gli Alcide e gli altri eroi della Grecia originaria erano coperti solo con pelli di leone o di altre bestie che avevano ucciso, e le cui spoglie usavano come abbigliamento più che come trofeo. Queste pelli coprivano loro le spalle, ma non potevano bastare per coprire le nudità: è così almeno che li si rappresenta. A questo proposito, Madame, permettete che vi racconti un piccolo aneddoto. Diverse dame e cavalieri di fermarono davanti alla statua di un Ercole antico, e dopo averla analizzata ed ammirata, uno dei cavalieri volle imprudentemente far loro osservare che un difetto, che consisteva in un errore di proporzione: “Oh! ribatté una dama del gruppo, se voi foste tutto nudo come questo Ercole, con il freddo che fa, probabilmente troveremmo in voi ancor meno proporzione.”
Non sono soltanto i Caraibici che vanno nudi; sono tutti i popoli che si trovano in quel vasto continente: i rigori delle zone glaciali, la varietà di quelle temperate e gli ardori di quella torrida non sono riusciti a far prendere loro degli abiti. Solo i selvaggi del nord del Canada si coprono con alcune pelli, quando il paese è pieno di nevi e di ghiaccio; il loro corpo avvezzo alle intemperie li rende quasi insensibili al freddo dell’inverno, e lo stesso corpo abituato ai grandi calori gli impedisce di avvertire i raggi brucianti del sole: poiché tutte le piume, tutti i ninnoli che usano i Messicani e i Peruviani sono bizzarrie che non li difendono né dal freddo né dal caldo e che, lasciando scoperte tutte le parti del loro corpo, non fanno che velare quelle che si chiamano naturali.
Tutti gli Africani vanno ugualmente nudi. Gli Ottentotti del Capo di Buona Speranza non sono coperti che della sporcizia e degli orridi escrementi degli animali, di cui si cospargono il loro corpo. Se si cercasse con più cura, si scoprirebbe che molti Asiatici vanno ugualmente nudi; soprattutto, si troveranno nelle Indie Orientali i Brahmini e i Fachiri, e nell’Impero Ottomano i Dervisci, gli uni e gli altri tipi di uomini religiosi che, giunti a un punto di pretesa santità, vanno impunemente nudi in pubblico. Da ciò che dico consegue che quasi la metà degli uomini che sono sulla terra vanno nudi senza vergognarsi della loro nudità; e quindi ciò che chiamiamo pudore non è una cosa innata in noi.
Quei popoli che sono abituati a vedere scoperte tutte le parti del corpo umano non sono più turbati di quanto lo siamo noi vedendo il volto di una donna. Quale ragione infatti c’è per nascondere alcune parti del corpo e mostrarne altre? Quelle che nascondiamo, si dirà, sono gli scarichi naturali del cormo umano, che giustamente si ha vergogna di mostrare. Ma la bocca, il naso, le orecchie, non sono sudici come le altre parti? Le esalazioni spesso infette, gli sputi, il muco non sono più disgustosi dei liquidi che escono dalle parti naturali?
C’è qui certamente qualche altra ragione. Perpetuare la specie umana non dovrebbe essere più vergognoso che conservare l’individuo. Il filosofo Cinico aveva le sue buone ragioni per dire che poteva tranquillamente concepire un uomo in pubblico, così come mangiava in strada quando aveva fame. L’azione che conserva la specie umana dovrebbe essere più nobile, ed in effetti lo è. Quante feste, quanto giubilo, quante cerimonie anche religiose si fanno in occasione delle nozze? E qualcuno ignora a che scopo ci si sposa? Tutti sanno quale atto ne segue, ne abbiamo delle idee chiare e distinte; tuttavia le leggi dell’onore e del pudore ci impediscono di nominarlo e di praticarlo in pubblico. E’ una cosa che si confida in segreto, ed è un crimine violare il segreto; non se ne può parlare che con giri di parole; ci si nasconde con cura per compiere un’azione di cui poi ci si gloria; si ha vergogna di procreare in pubblico un bambino, eppure si è tutti felici, tutti gloriosi per averlo fatto; si pronunciano arditamente i nomi di tutti i crimini, uccidere, rubare, assassinare, crimini che distruggono il genere umano; ci si vergogna di nominare ciò che lo conserva, che lo perpetua: quale è la ragione di una bizzarria, di una varietà così grande di sentimenti riguardo ad una stessa azione?
Ecco, Madame, cosa credo. Il pensiero o il fatto di confessare le nostre imperfezioni e le nostre debolezze, causa ciò che chiamiamo vergogna: ognuno cerca di allontanare da sé questa confessione, fino a che gli è possibile; e benché non dipenda da noi essere belli e ricchi, noi ci vergogniamo della bruttezza e della povertà, o di qualche infermità naturale che abbiamo. E’ lo stesso se non abbiamo alcune qualità che convengono al nostro stato: il soldato si vergogna della sua viltà, il dottore della sua ignoranza, il marchese della sua rozzezza; ma l’uomo di paese non ha alcuna vergogna d’essere grossolano, l’uomo di chiesa si evitare i pericoli della guerra, i nobili di essere ignoranti; un damerino si gloria di fare il simpatico appresso al bel sesso, mentre un magistrato si crederebbe disonorato, se facesse la stessa cosa. Da ciò deduco che la vergogna consiste in ciò che marca una differenza con i nostri simili, tanto riguardo al corpo quanto riguardo allo spirito.
Ciò non mette capo a niente, direte; esporre agli occhi del pubblico ciò che è naturale e uguale in tutti gli uomini non dovrebbe essere vergognoso, perché non in ciò non c’è nulla che possa mortificare il nostro amor proprio e il desiderio interiore che abbiamo di meritare la stima degli uomini.
Perché allora è vergognoso mostrare certe parti del nostro corpo, mentre ci gloriamo di esporre le altre? Non possono essere una prevenzione, un costume, l’effetto dell’educazione, delle idee che ci sono state inculcate, che ci fanno arrossire quando mostriamo scoperti il ventre, il seno, le natiche, nei paesi in cui si usano gli abiti. Queste ragioni fanno ugualmente trovare vergognoso mostrare il viso, la bocca, i piedi, presso i popoli in cui è proibito mostrarli.
Piuttosto, direte voi, avviene che gli uomini, ciascuno nel proprio cantone, si sono posti delle leggi ed hanno imposto una punizione, un disprezzo per chi le viola, di modo che sia increscioso non conformarsi ad esse. Nei paesi in cui sono prescritti gli abiti, dove c’è il costume e la regola di coprire i corpi, si ha vergogna di comparire nudi e di mostrare le parti che si è convenuto di nascondere: di più, in certi paesi non è possibile comparire in pubblico che con gli abiti propri di ogni stato; un prete, un magistrato arrossirebbero se dovessero comparire in pubblico con gli abiti da paesano o da cavaliere, o un galantuomo vestito e acconciato da donna; ed il monaco che sarebbe disonorato se portasse la spada ed il pennacchio in Francia e in Italia sembrerebbe arditamente in stato di guerriero in Inghilterra ed Olanda. Le Maomettane Arabe, Beduine, sarebbero considerate infami in una città della Turchia, se vi comparissero a viso scoperto, mentre sono donne molto oneste nei loro Douar (1), quando mostrano il viso, le braccia e una parte del corpo nudi.
La vergogna non consiste dunque nel comparire nudi o vestiti, ma nel violare le leggi, gli usi, i costumi stabiliti dalle leggi proprie di ciascun paese: di conseguenza i selvaggi e gli altri popoli, in cui vige la nudità, possono andare nudi senza arrossire, senza vergognarsene, senza offendere il pudore, perché non contravvengono a nessuna legge e seguono i costumi stabiliti.
Cerchiamo, Madame, qualche altra buona ragione che abbia portato a stabilire il pudore e la vergogna di andare nudi. Gli uomini, nelle loro idee differenti, considerano come virtù ciò che gli altri stimano come vizio: non c’è vergogna nel comparire in pubblico fuori di sé presso gli Svizzeri e i Tedeschi, mentre in Spagna si perde l’onore se ci si ubriaca; derubando i passanti si è puniti alla ruota in certi paesi, mentre presso gli Arabi Saraceni è motivo di gloria essere trovati cariche delle spoglie dei viaggiatori; e così per mille altre azioni degli uomini. Ma il matrimonio è sembrato una cosa assolutamente necessaria alla società in tutti i popoli: agli uni è stata ordinata una sola donna, mentre agli altri è stata permessa la poligamia, e presso tutti è stata ricercata l’unione delle famiglie. Il dettaglio del vantaggio del matrimonio è troppo lungo da esporre: per goderne si è creduto che bisognasse renderlo politico e religioso, e permettere onestamente con una cerimonia pubblica l’atto che segue necessariamente il matrimonio e lo rende sacro; e per ovviare agli abusi che questo atto, naturale e necessario alla propagazione, conservazione, moltiplicazione della specie umana avrebbe potuto comportare se fosse stato troppo frequente e troppo pubblico, si è stabilita ovunque una legge, una convenzione: che i piaceri dell’amore si prendano in segreto.
Si sono visti dei Legislatori che, nell’intento di rendere quest’atto più fruttuoso, non permettevano ai giovani coniugi di vedersi che in segreto e quadi furtivamente, essendo vergognoso per loro essere sorpresi, anche solo in conversazione familiare, con le loro spose, e ciò in base a questo assioma: Noi amiamo ciò che ci è proibito.
Altri popoli hanno reso esecrabili le donne nel tempo della loro indisposizione periodica, ritenendo sudicio tutto ciò che toccano. Le cerimonie religiose degli abati Banier e Mascrier (2) contengono tutte le leggi su questo argomento, ma ripetute così spesso e con tanta affettazione, che annoiano e disgustano: vi si trova un accanimento su questo tema che irrita e annoia, e sarebbe così anche se questi sette volumi in folio, che questi abati hanno fatti stampare, si riducessero della metà, che sarebbe poi il loro giusto valore. Il motivo di tutte queste leggi contro l’impurità delle donne non può derivare che da una idea fisica, poiché se ci si avvicina alle donne in questo periodo di infermità si fanno dei bambini malati; e per evitare queste spiacevoli conseguenze, si è fatto tutto il possibile per allontanare gli uomini dalle loro donne, quando loro sono in quel periodo: per meglio riuscirvi si sono unite le leggi politiche, quelle dell’onestà, quelle della proprietà, alle terribili leggi religiose che, presso tutti i popoli, costringono gli uomini al loro dovere e li costringono ad eseguire la legge.
Le stesse leggi politiche che hanno voluto che l’atto non fosse troppo frequente, temendo di renderlo infruttuoso, e mille altre buone ragioni hanno stabilito la legge della purezza, della buona creanza, dell’onestà: si sono dichiarati impudenti, lussuriosi, impudichi e anche infami coloro che violano queste leggi; ne è seguito un orrore verso quelli che si accoppiano pubblicamente ed agli occhi di tutti. Lo stesso Sant’Agostino, nel suo libro La città di Dio (3), crede che sia impossibile consumarlo in pubblico. Ecco come lo spiega: perdonatemi, Madame, questo latino è necessario per provare ciò che dico; ma, poiché voi non lo intendete, ecco, Madame, la traduzione che ne fa Michel Montaigne nei suoi Saggi (4).
“Come io penso, è per una opinione delicata e rispettosa che un grande Autore religioso ritiene che tale azione sia così necessariamente occulta ed alla vergogna, che nella licenza degli accoppiamenti dei cinici non riesce a persuadersi il desiderio giungesse al suo compimento, ma che ci si limitasse a rappresentare dei movimenti lascivi, giusto per mantenere l’impudenza della professione della loro scuola, e che per far gonfiare ciò che la natura aveva costretto e ritirato avessero bisogno di cercare l’ombra.”
Illum (Diogenem) vel alios qui hoc fessisce referuntur, potius arbitror concumbentium motus dedisse oculis hominum nescientium quod sub pullio gereretur, quam humano premente conspectu potuisse illam peragi voluptatem; ibi enim philosophi non erubescant videri se velle concumbere ubi libido ipsa erubesceret surgere.
Questo latino è licenzioso almeno quanto il francese di Montaigne.
Si è voluto che quest’atto si compisse in segreto e che di conseguenza si nascondessero le parti che servono a questo atto, pensando che le nudità sono capaci di saziarci prima del tempo e disgustarci. A noi piace indovinare: e i quadri più licenziosi ci eccitano meno di uno che rappresenti un letto con con le tendine perfettamente chiuse, ma da cui fuoriescano quattro piedi, due rivolti verso l’alto e due rivolti verso il basso. Malgrado ciò, non si è potuto fare a meno di dare a queste parti un nome eccellente e molto bello; le si è chiamate parti naturali, con le quali la Natura opera la più nobile delle sue opere, la più utile delle sue operazioni, che è la conservazione della specie, la moltiplicazione del genere umano. Montaigne dice che bisognerebbe chiamare bruti coloro che definiscono brutale tale azione, cui la Natura ci spinge così vivamente.
Si sono rese queste parti rispettabili e onorabili da parte di tutti rendendole simili a certi Re Indiani, che conservano la venerazione e la specie di adorazione che i loro sudditi hanno per loro solo rendendosi quasi invisibili ai loro occhi; si è voluto che fossero sempre nascoste. In effetti è degno di considerazione il fatto che i maestri di questo mestiere ordinano, come rimedio alla passione amorosa, la vista del corpo nudo che si cerca; per raffreddare la passione basta vedere liberamente ciò che si ama. “Un tale, dice Ovidio, per aver visto allo scoperto le parti segrete che amava s’è trovato d’un colpo libero da ogni passione.” Montaigne fa ancora una bella riflessione: “Tutti corrono per assistere alla morte di un uomo, e nessuno per vederlo nascere: si cerca un vasto campo per compiere battaglie che distruggono il genere umano, e ci si mura in qualche cavità profonda per formarlo e produrlo.”
Quando queste parti onorevoli sono state deificate, con il nome di Dei dei Giardini, sono stati fatti dei simulacri molto piccoli, ben lontani dalle loro dimensioni naturali: è così che li vediamo negli studi dei curiosi antiquari. Non si è permesso che tale Dio apparisse in trionfo, o troppo attraente per il sesso femminile, affinché le ragazze non se ne curassero troppo, e le donne non avessero troppa voglia di possederlo; affinché tutte potessero dire:

Giammai un così fragile stiletto
ci fece soccombere.

Quindi si è coperto d’orrore a tutte le rappresentazioni nelle quali questo Dio potesse essere visto in procinto di entrare nel suo tempio, per fare lui stesso o ricevere delle libagioni. E’ state chiamato osceno e impudico tutto ciò che potesse darne l’idea, sia con delle rappresentazioni che con dei discorsi. Le posture dell’Aretino, che si vedono in Vaticano, non ne sono state esentate, nonostante la santità del palazzo. Così sono stati coperti di vergogna e di disonore a tutti coloro che tengono dei discorsi che descrivono o rappresentano il compimento o l’accingersi all’atto; si è nascosto, si è velato con tutta la cura possibile non solo l’ingresso nel tempio, ma anche i boschi che lo circondano: perché questi tempi del corpo umano sono, come le pagode o i templi degli idoli dei Baniani e degli Indiani Orientali, sempre circondati da un boschetto. Si è concepito un orrore per la sporcizia e le periodiche zozzure che escono da questo tempio così caro, così necessario, per il quale, non so perché, si è ispirato al tempo stesso tanto rispetto e tanto orrore.
Ecco, Madame, a cosa penso, le ragioni che hanno fatto stabilire presso quasi tutti i popoli la legge di coprire le nudità, le parti naturali, e di esercitare di nascosto l’atto della generazione. E nondimeno è opera bellissima in sé dare la vita a un essere eccellente come l’uomo; e le parti che servono a questo scopo non hanno nulla di meno vergognoso e laido delle altre. Adamo ed Eva avevano torto di arrossire della loro nudità; erano soli al mondo, formati l’uno per l’altra dalla mano del Creatore. Queste parti avevano peccato meno della bocca che era servita a mangiare il frutto proibito: è quella che bisognerebbe punire, da cui ci vengono tanti mali. Ma, forse, dopo il peccato di Adamo queste parti si sono trovate in uno stato o troppo trionfante o troppo umile, il che, in un modo o nell’altro, ha indotto Adamo ed Eva ad arrossire. Bisogna ancora sapere in quale dei due stati si trovava Noè allorché il vino lo fece uscire di senno, e per quale ragione Cam si fece beffa di lui: fu per aver visto l’ardore o la fiacchezza del padre?
Per finire questa lettera vi dirò, Madame, che è certo che tutti nasciamo nudi; che i nostri primi progenitori, nell’infanzia del mondo, dovettero restare in questo stato di nudità, e di conseguenza abituare i loro occhi a certi oggetti, che erano loro indifferenti come lo sono ai bambini ed ai popoli che sono abituati a vederli; e che solo molto tempo dopo ci si è cominciati a vestire. Ascoltiamo Montaigne:
“Certo, quando mi immagino l’uomo tutto nudo (sì, quel sesso che sembra aver ricevuto più bellezza), le sue tare, la sua dipendenza dalla natura, le sue imperfezioni, trovo che abbiamo molte più ragioni di qualsiasi altro animale di coprirlo. Siamo scusabili per aver preso in prestito ciò che la Natura ha dato loro più che a noi, di ornarci delle loro bellezze e di nasconderci sotto le loro spoglie di lana, di piume, di pelo, di seta. Del resto, notiamo che siamo gli unici animali i cui difetti offendono i compagni, gli unici che si nascondono le azioni naturali della propria specie.”
Sono, forse, queste ragioni vergognose per l’uomo, che lo hanno fatto acquisire l’abitudine e l’hanno costretto ad usare degli abiti ed a coprire le parti naturali e quelle del suo corpo che ha creduto di dover nascondere alla vista. Quante donne sarebbero indispettite comparendo nude, e quanto perderebbero mostrando al naturale quelle parti imbellettate, che sanno così bene abbellire, e che sono spesso la maggior parte del loro finto merito!
Sono stati accusati di estrema impudenza i debosciati che si spogliano gli uni davanti agli altri, mischiando anche i differenti sessi ed esponendo le loro nudità agli occhi di tutti. Sono state considerate con orrore quelle sette religiose, ma abominevoli, che per imitare i primi uomini si spogliano interamente dei loro abiti e che nelle loro assemblee religiose pregano tutti nudi e al tempo stesso si uniscono indifferentemente gli uni con gli altri, senza distinzioni di parentela, volendo osservare esattamente il precetto della legge: Crescete e moltiplicatevi.
Ma mi accorgo che sto insensibilmente entrando in argomenti astratti, che non sono di gusto delle dame; e che, mentre mi ero proposto di scrivere una lettera scherzosa per divertire una persona di spirito come voi, Madame, sto diventando filosofo e politico, e mi sto toccando argomenti della religione, che bisogna sempre rispettare e di cui bisogna parlare il meno possibile, temendo di smarrirsi e di imbatterci in gente rispettabile di qualsiasi popolo e in ministri della religione, quale che sia, che non sappiano stare allo scherzo: e così taccio, assicurandovi che l’uso che autorizza la nudità dei Caraibici non ha nulla di immodesto, impudente, disonesto presso di loro, nello stato di pura natura che hanno conservato; e che, se voi foste abituata come noi, ammirereste il loro buono stato, la pelle liscia e lucida, la loro sanità perfetta, senza che altre idee offendano il vostro pudore e la vostra modestia: perché vi assicuro, Madame, che tutto è solo costume, prevenzione, effetto dell’educazione, e che non c’è niente di innato in noi.
Ho l’onore di essere, ecc.

(1) Villaggio (N. d. T.)
(2) Allude alla Histoire Générale des Cérémonies, moeurs et coutumes religieuses de tous les peuples du monde, (7 volumi, Paris, Rollin 1741) degli abati Banier e Mescrier (N. d. T.).
(3) Lib. XIV, cap. 20.
(4) Lib. II, cap. 12.


abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, Sulla dolcezza

Acquaforte di Eugène André Champollion

Nella storia del pensiero politico, l’abate di Saint-Pierre conta per il suo Progetto per rendere la pace perpetua in Europa (1712), che anticipa la più nota riflessione di Kant; progetto che affidava la pace europea ad una assemblea di stati, nella quale le controversie venissero risolte attraverso l’arbitrato, e che aveva, come notò Rousseau, un solo, grande limite: ai sovrani non interessa la pace, poiché la guerra ne rende più stabile il potere. In questo scritto degli ultimi anni, quel modello di conciliazione razionale delle controversie, che proponeva agli stati, è esteso a tutti i rapporti umani. La pace, che non giunge dalla volontà del politico, può nascere dal diffondersi di un nuovo atteggiamento umano, da una generale rinuncia all’animosità nelle dispute, siano esse intellettuali, religiose o economiche.

Traduco da: abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre,  De la douceur, Briasson, Paris 1740, pp. 3-11.
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In un grande spirito, la dolcezza è prova di grandezza d’animo.
La dolcezza è la virtù meglio ricompensata in questo mondo.
Dal momento che considerano vergognoso cedere con dolcezza, anche se occorre più ragione e più coraggio per cedere che per resistere, la maggior parte degli uomini fanno i bambini.

Quelli che non hanno abbastanza forza per cedere con dolcezza, si piccano spesso di essere fermi; ma quando questa fermezza è priva di ragione, non è più una virtù, non è che umore, rigidità, testardaggine, falso eroismo.
La dolcezza suppone l’equanimità e la tranquillità dell’anima, a volte ne è l’effetto ed altre la causa.

La dolcezza non ci rende indifferente ai piaceri, ma qualche volta ci spinge a fare qualche sacrificio per l’amicizia e la riconoscenza.
L’uomo impaziente e maldestro si inganna molto spesso sui mezzi per stabilire ad assicurare il suo dominio e la sua autorità; egli trova degli ostacoli quando usa delle maniere altezzose, minacciose, per effetto dell’impazienza: cambierebbe modi, avrebbe dei modi dolci se facesse attenzione al fatto che lui stesso ama essere dominato dalla dolcezza.
Si suppongano gli uomini in qualsiasi stato di superiorità, di padre, di signore, di re: è la dolcezza dei loro modi che dà il fondamento più solido alla loro autorità, come la dolcezza di coloro che sono subordinati è il miglior modo di conciliarsi con i superiori.
La violenza di certe imprese fa nascere degli ostacoli che solo la dolcezza può superare.
Gli uomini hanno cominciato a gioire tranquillamente dei loro beni nei tempi in cui i loro costumi si sono addolciti.
Per quale fatalità gli uomini, che avrebbero potuto mettere a profitto la loro felicità, il vantaggio di essere riuniti nel corpo sociale, non si sono occupati, il più delle volte, che a infastidirsi, a nuocersi reciprocamente? Mancano di conoscere il loro più grande interesse, di essere dolci; manca la dolcezza nelle relazioni umane.
In mancanza di armi, ci vantiamo di altri mezzi: ci diffondiamo in discorsi ingiuriosi, seminiamo scritti satirici; e quale è il frutto delle nostre collere? I colpi che diamo ci attirano le offese che riceviamo, cosa triste e tanto più spiacevole perché è opera nostra, quando manchiamo di dolcezza e di pazienza.
L’uomo dolce gioisce di una sorte molto tranquilla: non ferisce l’amor proprio degli altri, non ne urta le passioni, nelle avversità non lo si vede scoppiare in lamenti, nella prosperità non dimentica il proprio passato; quando un uomo volubile gli fa i capricci, egli se l’aspetta: legge gli effetti nelle cause, e considera i cattivi trattamenti, come le ingiurie, nulla più che le conseguenze di un temperamento che è stato smascherato.
In altre occasioni l’uomo dolce, se insultato, sospetta di essersi attirato lui stesso le ingiurie che subisce.
L’aria modesta e attenta, i gesti misurati, il tono moderato, la favella un po’ lenta, le parole graziose, gli occhi bassi; tutto serve a esprimere il carattere della donna dolce.
La dolcezza ci annuncia il rispetto, l’approvazione, la confidenza, la considerazione, la sottomissione, l’obbedienza, il desiderio di piacerci, la gaiezza: come può non piacerci più delle altre virtù?
La dolcezza marcia insieme alla presenza di spirito, decisiva in ogni sorta di lotta.
Non confondiamo la dolcezza virtuosa con quelle insipide compiacenze servili, che sono piuttosto segni di piccineria e di debolezza.
Colui i cui costumi sono dolci, è ai nostri occhi uomo di quasi tutte le virtù; si è dolci perché si è equi, perché si è giusti, perché si è disinteressati, perché si è pazienti ed indulgenti.
Nulla di più opposto alla dolcezza, nulla le dispiace più della collera; questo carattere annuncia da una parte ogni sorta di ingiustizie, e dall’altra ogni sorta di sventura e di dispiacere della vita.
L’uomo dolce non commetterà che mancanze lievi in società.
L’uomo virtuoso che non è dolce e che ci ha urtato con la sua rudezza, non può riconciliarsi con noi grazie alla pratica delle altre virtù. E’ nobile e generoso, ma noi non siamo l’oggetto della sua benevolenza; mantiene le promesse, ma noi non abbiamo preso alcun impegno con lui.
I vizi ingiusti eccitano il nostro odio e lo giustificano, ma quanto ai difetti, sembra che abbiano diritto alla indulgenza delle persone che hanno della dolcezza nei rapporti umani.
L’uomo dolce si trova facilmente contento degli altri, e ciò è il vero segreto per farsi apprezzare lui stesso.
Che sarà di una assemblea dalla quale sia stato bandito lo spirito della dolcezza? Sarà una assemblea di uomini che non sanno che temersi, combattersi ed odiarsi.
Le persone dolci riescono più facilmente delle altre a convenire nella discussione di una questione.
Senza questa dolcezza, le dispute invece di chiarire le questioni non servono che a inasprirle, ad alienare gli spiriti.
L’uomo dolce fa ordinariamente parlare la lingua del cuore, lingua ben superiore e ben più eloquente di quella dell’ingegno.
In un conflitto di opinioni, l’uomo dolce è ben più vicino al vero di colui che si lascia trasportare dalla collere, o da qualche altra passione.
Dicendovi “io non sono ancora della vostra opinione”, l’uomo dolce disputa poco, vi lascia la vostra opinione, e non vi toglie la speranza di accettarla, un giorno; così non ferisce l’amor proprio.
La misura della stima che si ha per l’uomo dolce dà la misura di quanto si cerca di piacergli e di farsi apprezzare da lui.
L’uomo dolce durante la disputa prende i colpi e non li restituisce. Egli ci insegna che la differenza di opinioni non deve turbare il buon ordine della società: spesso bisogna solo darsi credito gli uni con gli altri per qualche tempo, per pensare un giorno allo stesso modo.
Il vantaggio dell’uomo che ha dei costumi dolci è che sembra agire secondo la volontà altrui, quando non fa che accontentare se stesso.
La compiacenza che noi abbiamo verso l’uomo dolce è il frutto delal compiacenza che lui ha verso di noi.
La dolcezza è una via più sicura per conquistare la maggior parte degli uomini, più sicura della via dei favori.
L’esempio di Socrate presso gli antichi e di San Francesco di Sales presso i moderni ci dimostra che la dolcezza può conquistarsi ad un livello altissimo, malgrado un temperamento brusco e petulante. E’ vero che occorrono coraggio e costanza per rilevare, durante cinque o sei mesi, i minimi moti d’impazienza che precedono una collera vergognosa, poiché irragionevole.
La dolcezza che procura all’uomo la calma e la tranquillità, tiene il suo spirito preparato a gustare giorno dopo giorno i piaceri innocenti, sia della vita campestre sia della vita della capitale, ognuno nella sua condizione.
Senza questa calma, frutto naturale della dolcezza, nello spirito non c’è che agitazione, ansia per i mali futuri, dolore per i mali presenti, una sorta di febbre continua, per cui senza dolcezza non c’è felicità, e più si è dolci, più si è felici: “Beati mites”.
Poiché non è possibile avere una grande dolcezza senza avere molte virtù, non si raccomanderà mai troppo ai bambini la pratica della dolcezza.
Se sono molto dolci, si guarderanno bene dall’offendere i loro compagni.
Se saranno molto dolci, perdoneranno facilmente le offese che riceveranno dai loro compagni.
Se daranno molto dolci, saranno sempre disposti alla piacevolezza.
Quale accordo c’è nei rapporti umani, quando non si teme di essere offesi e quando si trovano gli altri disposti a farci piacere!


abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, Sulla dolcezza


Acquaforte di Eugène André Champollion
Nella storia del pensiero politico, l’abate di Saint-Pierre conta per il suo Progetto per rendere la pace perpetua in Europa (1712), che anticipa la più nota riflessione di Kant; progetto che affidava la pace europea ad una assemblea di stati, nella quale le controversie venissero risolte attraverso l’arbitrato, e che aveva, come notò Rousseau, un solo, grande limite: ai sovrani non interessa la pace, poiché la guerra ne rende più stabile il potere. In questo scritto degli ultimi anni, quel modello di conciliazione razionale delle controversie, che proponeva agli stati, è esteso a tutti i rapporti umani. La pace, che non giunge dalla volontà del politico, può nascere dal diffondersi di un nuovo atteggiamento umano, da una generale rinuncia all’animosità nelle dispute, siano esse intellettuali, religiose o economiche.

Traduco da: abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre,  De la douceur, Briasson, Paris 1740, pp. 3-11.
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Georges Etiévant, Dichiarazioni

Etiévant in una stampa popolare

Un vero duro, Georges Etiévant. Il 16 gennaio del 1898 aggredisce con ventidue coltellate un poliziotto, altre sedici le riserva ad un collega che corre a soccorrerlo. Lo portano al posto di polizia, ma si dimenticano di perquisirlo: c’è ancora tempo per un colpo di pistola al secondo agente. Ha trentatré anni. Lo condannano a morte, con pena commutata nei lavori forzati a vita. Gli è andata bene. O male, dipende dai punti di vista. Morirà non troppo tempo dopo.
Un vero filosofo, Georges Etiévant. Qualche anno prima, nel 1892, aveva rubato della dinamite che serviva al più famoso Ravachol. Al tribunale che lo processa presenta una dichiarazione difensiva che è, in realtà, una durissima accusa. Questo giovane tipografo la sa lunga: contesta il diritto stesso di giudicare. Il diritto, si sa, ha una sua rozzezza; per funzionare ha bisogno di categorie che all’occhio del filosofo appaiono fragili, evanescenti. Perché un contratto sia valido, occorre che vi siano dei soggetti, e che questi soggetti restino uguali a sé stessi nel tempo. Perché mai, altrimenti, dovrebbe obbligarmi un contratto, se a firmarlo è stato uno che non sono io – e cioè: un io che non è il mio io attuale? Il diritto ha bisogno del soggetto; ma la filosofia sa che il soggetto è finzione. Il diritto ha bisogno, per giudicare, della responsabilità e della libertà. Anch’esse finzioni. L’imputato Etiévant ha le sue ragioni: quel che facciamo non è che il risultato di ciò che abbiamo percepito e delle reazioni che queste percezioni hanno suscitato in noi. Ho ucciso. Perché? E’ sorto in me un odio, che ha le sue cause. Certo, avrei potuto resistere a quell’odio. L’avrei fatto senz’altro, se avessi avuto in me una forza capace di resistere; se non l’ho fatto, evidentemente quella forza non l’avevo: e di ciò che non ho, non posso essere responsabile. Ecco dunque l’assurdo di ogni tribunale. Per giudicare un uomo, accusa Etiévant, bisognerebbe conoscere alla perfezione le percezioni che hanno agito su di lui e le reazioni che esse hanno suscitato; bisognerebbe, in altri termini, essere quell’uomo. Nessuno può giudicare un altro. Aggiungerei che nemmeno noi stessi siamo in grado di giudicarci, perché il nostro essere ci accade come, fuori di noi, accade la pioggia o il vento.
E’ un uomo contro tutti, Etiévant. Nella seconda parte della sua dichiarazione rivendica il suo diritto di ribellarsi. Con la nascita, acquisiamo il diritto di vivere e di essere felici. Abbiamo polmoni per respirare, occhi per vedere, gambe per camminare. Ma, ecco: nasciamo in un mondo che non ci appartiene. Facciamo due passi, ma dobbiamo arrestarci perché c’è un confine: oltre, è proprietà di qualcuno. Il mondo è stato fatto a pezzi, e questi pezzi appartengono a qualcuno, e questo qualcuno non siamo noi. Il diritto di godere del nutrimento, dell’aria, del sole, della terra, ci viene negato. Lo stesso diritto alla vita viene calpestato. Possiamo sopravvivere solo se ci sottomettiamo ai padroni della terra, se accettiamo le loro condizioni – se accettiamo la schiavitù. Ma noi siamo nati per ben altro. Nascendo, abbiamo acquisito il diritto su tutto, ed in questo consiste la nostra dignità.
C’è ancora spazio, nella dichiarazione di Etiévant, per l’immagine di un mondo libero dallo sfruttamento, dalla proprietà, dalla stratificazione sociale. Una immagine che nella mente del giovane tipografo era circondata e sostenuta dalle certezze della scienza, e che oggi sopravvive in un’area singolare della nostra coscienza inquieta, in cui quel che resta della religione s’incontra con quel che resta della politica.

Traduco da: Georges Etiévant, Declarations, Au bureau des “Temps Nouveaux”, Paris 1898.
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Nessuna idea è innata in noi: esse ci vengono tutte con l’aiuto dei sensi, dall’ambiente in cui viviamo. Ciò è talmente vero che, se ci manca un senso, non possiamo farci alcuna idea dei fatti corrispondenti a quel senso. Ad esempio, mai un cieco dalla nascita potrà farsi una idea della diversità di colori, perché gli manca la facoltà necessaria per percepire l’irradiamento degli oggetti. Inoltre, seguendo le nostre attitudini, che abbiamo dalla nascita, possediamo, sia in un ordine di idee che nell’altro, una facoltà di assimilazione più o meno grande, che proviene dalla più o meno grande facoltà di ricettività che noi abbiamo su tale soggetto. E’ così, ad esempio, che alcuni apprendono facilmente la matematica ed altri hanno una maggiore attitudine per la linguistica. Questa facoltà d’assimilazione che è in noi può svilupparsi in una proporzione che varia all’infinito di persona in persona, a seguito della molteplicità di sensazioni analoghe percepite.
Ma, così come, se ci serviamo quasi esclusivamente delle nostre braccia, queste acquisteranno più forza, a spese di altre membra o parti del nostro corpo, e diventeranno più adatte a svolgere il loro ruolo, mentre le altre lo saranno meno; ugualmente, più la nostra facoltà di assimilazione si eserciterà in seguito ad una molteplicità di sensazioni analoghe sviluppate in un ordine di idee, più, relativamente all’insieme delle nostre facoltà, presenteremo una forza di resistenza all’assimilazione di idee che provengano da un ordine avverso. E’ così che, se siamo arrivati a credere che tale cosa o tale idea sia vera e buona, qualsiasi idea contraria ci urterà ed opporremo alla sua assimilazione una resistenza molto forte, mentre essa sembrerà ad un altro così naturale e giusta che, in buona fede, non potrà immaginarsi che qualcuno possa pensarla diversamente. Di tutti questi fatti abbiamo esempi ogni giorno, e non credo che se ne contesti seriamente l’autenticità. Posto ed ammesso questo, e poiché ogni azione è la risultante di una o più idee, diventa evidente che, per giudicare un uomo, per giungere a conoscere la responsabilità di un individuo nel compimento di un atto, bisognerebbe conoscere ciascuna delle sensazioni che hanno determinato il compimento di quell’atto ed apprezzarne l’intensità, sapere quale facoltà ricettiva o quale forza di resistenza ciascuna di esse ha potuto incontrare in lui, così come il lasso di tempo durante il quale egli è stato sotto l’influenza di ciascuna prima, di molte poi, e di tutte alla fine.
Ora, chi vi darà la facoltà di percepire e di sentire ciò che gli altri percepiscono e provano, o hanno percepito o provato? come potrete giudicare un individuo se non potete conoscere esattamente la cause determinanti delle sue azioni? E come potrete conoscere queste cause, tutte queste cause, così come la loro reciproca relatività, se non siete in grado di penetrare negli arcani della sua mentalità e identificarvi con lui, in modo tale da conoscere alla perfezione il suo io? Per farlo, bisognerebbe conoscere il suo temperamento meglio di quanto, spesso, si conosce il proprio; di più: avere un temperamento simile, sottomettersi alle stesse influenze, vivere nello stesso ambiente nello stesso lasso di tempo, unico modo per rendersi conto del numero e della forza delle influenze di questo ambiente, comparativamente alla facoltà di assimilazione che queste influenze hanno potuto incontrare in quell’individuo.
E’ dunque impossibile giudicare i nostri simili, a causa della impossibilità in cui ci troviamo di conoscere con esattezza le influenze cui essi obbediscono e la forza delle sensazioni che determinano le loro azioni, comparativamente alle loro facoltà di assimilazione o alla loro capacità di resistenza. Ma se questa impossibilità non esistesse, non non arriveremmo, al massimo, che a renderci conto esattamente del gioco delle influenze cui essi hanno obbedito, dei rapporto reciproci tra loro, della più o meno grande ricettività nel subire queste influenze, ma non potremmo da ciò conoscere la loro responsabilità nel compimento di un atto, per questa buona e magnifica ragione, che la responsabilità non esiste.
Per rendersi conto della inesistenza della responsabilità, basta considerare il gioco delle facoltà intellettuali nell’uomo. Perché la responsabilità esistesse, occorrerebbe che la volontà determinasse le sensazioni, così come esse determinano l’idea, e l’idea l’azione. Ma, al contrario, sono le sensazioni che determinano la volontà, che la fanno nascere in noi e che la dirigono. Poiché la volontà non è altro che il desiderio che abbiamo di compiere una cosa destinata a soddisfare uno dei nostri bisogni, vale a dire a procurarci una sensazione di piacere e ad allontanare da noi una sensazione di dolore, e, di conseguenza, bisogna che queste sensazioni siano o siano state percepite perché nasca in noi la volontà. E la volontà, creata dalle sensazioni, non può essere cambiata se non da nuove sensazioni, vale a dire che essa può prendere un’altra direzione, perseguire un altro scopo, solo se delle sensazioni nuove fanno nascere in noi un nuovo ordine d’idee o modificano in noi l’ordine delle idee preesistente. Ciò è stato riconosciuto da tutti i tempi, e voi stessi lo riconoscete tacitamente, poiché, in definitiva, far perorare davanti a voi il pro e il contro non è provare che sensazioni nuove, che vi giungono attraverso l’udito, possono far nascere in voi la volontà di agire in un modo o in un altro, o modificare la vostra volontà preesistente? Ma, come ho detto all’inizio, se ci siamo abituati, in seguito ad una lunga successione di idee analoghe, a considerare questa cosa o questa idea come buona e giusta, qualsiasi idea contraria ci urterà, e noi opporremo una grande forza di resistenza alla sua assimilazione.
E’ per questa ragione che le persone anziane adottano meno facilmente delle idee nuove, atteso che nel corso della loro esistenze hanno percepito una molteplicità di sensazioni provenienti dall’ambiente in cui sono vissute, e che le hanno portati a considerare come buone le idee conformi alla concezione generale di questo ambiente sul giusto e l’ingiusto. E’ ancora per questa ragione che la nozione di giusto ed ingiusto è variata senza fine nel corso dei secoli e che anche ai nostri giorni differisce stranamente in base da clima a clima, da popolo a popolo ed anche da uomo a uomo. E dal momento che queste diverse concezioni non possono essere che relativamente giuste e buone, dobbiamo concludere che una grande porzione, se non la totalità dell’umanità, sbaglia ancora a questo riguardo. E’ ciò che ci spiega ugualmente perché un argomento che comporta il convincimento dell’uno lascia l’altro indifferente.

Ma, in un modo o nell’altro, colui che l’argomento avrà impressionato non potrà fare in modo che la sua volontà non sia determinata in un senso, e colui che l’argomento avrà lasciato indifferente non potrà fare in modo che la sua volontà non resti la stessa, e di conseguenza l’uno non potrà non agire in un modo e l’altro nel modo contrario, a meno che nuove sensazioni non vengano a modificare la loro volontà.

Benché ciò abbia l’aria di un paradosso, noi non compiamo alcuna azione buona o cattiva, per quanto minima essa sia, che non siamo forzati a fare, atteso che ogni atto è il risultato della relatività che c’è tra una molteplicità di sensazioni che ci vengono dall’ambiente in cui viviamo e la più o meno grande facoltà d’assimilazione che essa può incontrare in noi. O, dal momento che non possiamo essere responsabili della più o meno grande facoltà d’assimilazione che è in noi, relativamente a un ordine di sensazioni o a un altro, né dell’esistenza o dell’inesistenza delle influenze provenienti dall’ambiente in cui viviamo e delle sensazioni che ce ne vengono, più che della loro relatività e della nostra più o meno grande facoltà di ricettività o di resistenza, non non possiamo essere responsabili del risultato di questa relatività, atteso che essa è non solo indipendente dalla nostra volontà, ma anche che essa ne è determinante. Dunque, qualsiasi giudizio è impossibile e qualsiasi ricompensa, come qualsiasi punizione, è ingiusta, per quanto minima essa sia, e per quanto grandi possano essere il bene o il male compiuti.

Non è dunque possibile giudicare gli uomini, e nemmeno le azioni, a meno di avere un criterio sufficiente. Ora, questo criterio non esiste. In ogni caso, non lo si potrà trovare nelle leggi, perché la vera giustizia è immutabile e le leggi cambiano. Per le leggi vale quello che vale per tutto il resto. Se le leggi sono buone, a che deputati e senatori per cambiarle? E, se sono cattive, a che magistrati per applicarle?
Per il fatto stesso di essere nato, ciascun essere ha il diritto di vivere e di essere felice. Questo diritto di andare, di venire liberamente nello spazio, il suolo sotto ai piedi, il cielo sulla testa, il sole negli occhi, l’aria nel petto – questo diritto primordiale, anteriore a tutti gli altri diritti, imperscrittibile e naturale – lo si contesta a milioni di esseri umani.
Questi milioni di diseredati ai quali i ricchi hanno preso la terra – la madre nutrice di tutti – non possono fare un passo a destra o a manca, mangiare o dormire, godere in una parola dei loro organi. soddisfare i loro bisogni e vivere, senza il permesso di altri uomini; la loro vita è sempre precaria, alla mercé dei capricci di coloro che sono diventati i loro padroni. Non possono andare e venire nel grande dominio umano senza incontrare ad ogni passo una barriera, senza essere fermati con queste parole: non andate in questo campo, appartiene a un tale; non andate in questo bosco, appartiene a questo qui; non cogliete questi frutti, non pescate questi pesci, sono proprietà di quello là.
E se domandano: Ma allora, noi cosa abbiamo? Niente, si risponde loro. Voi non avete niente – e per mezzo della religione e delle leggi si plasma il loro cervello affinché accettino senza mormorare questa evidente ingiustizia.
Le radici delle piante assimilano il succo della terra, ma il prodotto non è per voi, si dice loro. La pioggia vi bagna come gli altri, ma non è per voi che essa fa crescere i raccolti, ed il sole splende per dorare le messi e maturale i frutti di cui non godrete.
La terra gira intorno al sole e presenta alternativamente ciascuna delle sue facce all’influenza vivificante di quell’astro, ma questo grande movimento non si fa a profitto di tutte le creature, perché la terra appartiene agli uni e non agli altri, degli uomini l’hanno comprata con il loro oro ed il loro argento. Ma non quali sotterfugi, dal momento che l’oro e l’argento sono contenuti nella terra con questi metalli?
Come può essere che una parte possa valere quanto il tutto?
Come può essere che, comprando la terra con il loro oro, essi siano proprietari anche di tutto l’oro? Mistero!

E queste foreste immense, seppellite dopo milioni di secoli dalle rivoluzioni geologiche, non possono averle comprate, né averle ereditate dai loro padri, perché allora non c’era ancora nessuno sulla terra! E tuttavia a loro appartiene tutto, dalle viscere della terra e dal fondo dell’oceano fino alle più alte cime dei grandi monti – è stato affinché questo qui potesse dare una dote a sua figlia, che queste foreste un tempo sono cresciute; è stato affinché quell’altro potesse donare un palazzo alla sua amante che hanno avuto luogo le rivoluzioni geologiche. Ed è stato per permettergli di tracannare lo champagne che queste foreste si sono convertire lentamente in carbon fossile.
Ma se i diseredati domandassero: Come faremo a vivere, se non abbiamo diritto a niente? Rassicuratevi, si risponderebbe loro: i possidenti sono brava gente, e se siete un poco saggi e obbedite a tutte le loro volontà, vi permetteranno di vivere, ed in cambio voi lavorerete i loro campi, gli farete dei vestiti, costruirete le loro case, tosare le loro pecore, potare i loro alberi, costruire delle macchine, dei libri; in una parola, procurare loro tutti i godimenti fisici e intellettuali ai quali essi soli hanno diritto. Se i ricchi hanno la bontà di lasciarvi mangiare il loro pane, di bere la loro acqua, dovete ringraziarli infinitamente, perché la vostra vita appartiene a loro nel tempo stesso che le resta.

Voi non avete diritto di vivere che grazie alla loro compiacenza, ed a condizione che lavoriate per loro. Essi vi dirigeranno; essi vi guarderanno lavorare e godranno dei frutti del vostro lavoro, perché ne hanno diritto. Tutto ciò che metterete in opera nella vostra produzione appartiene ugualmente a loro. Quando loro, nati al vostro stesso tempo, domineranno tutta la loro vita, voi obbedirete; mentre loro potranno riposarsi all’ombra degli alberi, poetizzare al mormorio della sorgente, vivificare i loro muscoli nelle onde del mare, ritrovare la salute alle fonti termali, godere del vasto orizzonte sulla cima delle montagne, entrare in possesso del dominio intellettuale dell’umanità e conversare così con i possenti seminatori d’idee, gli infaticabili cercatori dell’aldilà – voi, appena usciti dalla prima infanzia, forzati dalla nascita, cominciare a trascinare il vostro fardello di miseria, dovete produrre perché altri consumino, lavorare perché altri possano vivere nell’ozio, morire di fatica perché altri possano vivere nella gioia.
Mentre loro possono percorrere in ogni senso il grande dominio, godere di tutti gli orizzonti, vivere in comunione costante con la natura e attingere a quella sorgente inesauribile della poesia le più delicate e dolci sensazioni che l’essere possa provare, – voi non avrete per orizzonte che le quattro mura delle vostre mansarde, delle vostre fabbriche, del bagno penale o della prigione; voi, macchine umane la cui vita si riduce a un atto sempre uguale, ripetuto indefinitamente, dovrete ricominciare ogni giorno il turno, fino a che un meccanismo si rompe in voi o, vecchi e logorati, vi si getta in una cunetta, perché non fate più guadagnare abbastanza.
Guai a voi se la malattia vi stronca, se, giovani o vecchi, siete troppo deboli per produrre per i padroni. Guai a voi se non trovate nessuno per cui prostituire il vostro cervello, le vostre braccia, il vostro corpi: cadrete di abisso in abisso; i vostri stracci saranno un crimine, un obbrobrio i vostri crampi allo stomaco, la società intera vi getterà l’anatema e l’autorità, intervenendo legge alla mano, vi griderà: Guai ai senza casa, a chi non ha un tetto per coprirsi la testa, a chi non ha un giaciglio per riposare le sue membra doloranti, guai a chi si permette di avere fame quando gli altri hanno mangiato troppo, guai a chi ha freddo quando gli altri hanno caldo, guai ai vagabondi, guai ai vinti! Essa li picchierà per essersi permessi di non avere niente, mentre tutti gli altri hanno tutto. E’ giustizia, dice la legge. E’ un crimine, rispondiamo noi: ciò non deve essere, ciò deve cessare d’esistere, poiché non è giusto.
Per troppo tempo gli uomini hanno accettato come regola morale l’espressione della volontà dei forti e dei potenti; per troppo tempo malvagità degli uni ha trovato complicità nell’ignoranza e nella vigliaccheria degli altri; per troppo tempo gli uomini sono rimasti sordi alla voce della ragione ed hanno scambiato la menzogna con la verità. Ed ecco la verità: Cos’è la vita, se non un perpetuo movimento di assimilazione e disassimilazione che incorpora agli esseri le molecole della materia sotto le sue diverse forme e che presto li strappa per combinarli in mille nuovi altri modi; un movimento perpetuo di azione e reazione tra l’individuo e l’ambiente naturale circostante, che si compone di tutto ciò che non è lui; questa è la vita. Per la sua azione continua, l’insieme degli esseri e delle cose tende continuamente ad assorbire l’individuo, alla disgregazione del suo essere, alla sua morte.
La natura non fa del nuovo se non con il vecchio, di continuo distrugge per creare, non fa mai uscire la vita se non dalla morte, e bisogna che uccida ciò che è, per dar vita a ciò che sarà. La vita non è dunque possibile per l’individuo che attraverso una sua perpetua reazione sull’insieme degli esseri e le cose che lo attorniano. Non può vivere che a condizione di combattere la disassimilazione che gli fa subire tutto ciò che esiste, attraverso l’assimilazione di nuove molecole che deve chiedere in prestito a tutto ciò che esiste.
Così gli esseri, a qualsiasi gradino della scala degli esseri si trovino, dagli zoofiti fino agli uomini, sono provvisti di facoltà che permettono loro di combattere la disassimilazione dei loro organi incorporando nuovi elementi presi in prestito dall’ambiente in mezzo al quale vivono. Tutti sono provvisti di organi più o meno perfetti destinati ad avvertirli della presenza di cause che possano condurre a una brusca disassimilazione del loro essere. Tutti sono provvisti di organi che permettono loro di combattere l’influenza disorganizzatrice degli elementi.
Perché avrebbero tutti questi organi, se non dovessero servirsene? Se non avessero il diritto di farne uso?
Perché i polmoni, se non per respirare? Perché gli occhi, se non per vedere? Perché un cervello, se non per pensare? Perché uno stomaco, se non per digerire il nutrimento? Sì, è così: per i nostri polmoni, abbiamo il diritto di respirare; per il nostro stomaco, abbiamo il diritto di mangiare; per il nostro cervello, abbiamo il diritto di pensare; per la nostra lingua, abbiamo il diritto di parlare; per le nostre orecchie, abbiamo il diritto di ascoltare; per i nostri occhi, abbiamo il diritto di vedere; per le nostre gambe, abbiamo il diritto di andare e venire.
E noi abbiamo diritto a tutto ciò perché, per il nostro essere, abbiamo il diritto di vivere. Mai un essere ha organi più potenti di quelli che deve avere; mai un essere ha una vista troppo acuta, un orecchio troppo fine, una parola troppo facile, un cervello troppo vasto, uno stomaco troppo buono; delle gambe, delle zampe, delle ali o delle pinne troppo forti.
Così, per le nostre gambe abbiamo diritto a tutto lo spazio che possiamo percorrere; per i nostri polmoni, a tutta l’aria che possiamo respirare; per il nostro stomaco, a tutto il nutrimento che possiamo digerire; per il nostro cervello, a tutto ciò che possiamo pensare e assimilare dei pensieri degli altri; per la nostra facoltà di parola, a tutto ciò che possiamo dire; per le nostre orecchie, a tutto ciò che possiamo ascoltare, e abbiamo diritto a tutto ciò perché abbiamo diritto alla vita e tutto ciò costituisce la vita. Sono qui i veri diritti dell’uomo! Nessun bisogno di decretarli: essi esistono, come esiste il sole.
Essi non sono scritti in alcuna costituzione, in alcuna legge, ma sono scritti con caratteri incancellabili nel gran libro della natura, e sono imperscrittibili.
Dall’acaro all’elefante, dal filo d’erba fino alla quercia, dall’atomo fino alla stella, tutto lo proclama. Ascoltate la grande voce della natura; essa vi dirà che tutto in essa è solidale, che il movimento generale eterno, che è la condizione della vita nell’universo, si compone del movimento generale eterno di ciascuno dei suoi atomi, che è la condizione della vita di ciascuna delle creature.
I movimenti delle creature infinitamente piccole come quelli delle creature infinitamente grandi si ripercuotono e reagiscono indefinitamente gli uni sugli altri. E, poiché tutto reagisce su di noi, noi abbiamo diritto a reagire su tutto, poiché abbiamo il diritto di vivere, e la vita è possibile solo a questa condizione.
Per il fatto stesso di essere nati, noi diventiamo comproprietari dell’universo intero, ed abbiamo diritto a tutto ciò che è, a tutto ciò che è stato ed a tutto ciò che sarà. Ognuno di noi acquista dalla nascita il diritto a tutto, senza altri limiti che quelli che la natura stessa gli ha posto, vale a dire il limite delle sue facoltà di assimilazione.
Ora, voi dite: E’ mio questo campo, è mio questo bosco, è mia questa sorgente, sono miei questo stagno, questa prateria, questo raccolto, questa casa; a voi, io rispondo: Quando farete in modo che la vostra proprietà, frazione di questo grande tutto che, con la sua azione costante sui miei organi mi spinge, come fare anche voi, verso la tomba, cessi di spingermi, io riconoscerò in voi i soli ad avere il diritto di goderne.
Quando farete in modo che le influenze disgregatrici della natura agiscano solo su di voi, voi solo avrete il diritto di attingere dalla natura ciò con cui compensare quello che la natura vi toglie. Ma fino a quando l’umidità agirà su di me come su di voi, la sorgente e lo stagno saranno miei come vostri.
Finché non riuscirete a impedire al calore del sole di farmi traspirare come voi, esso maturerà frutti e raccolti per noi come per voi.
Sapete che un uomo di vent’anni non ha in lui una sola delle molecole che lo costituivano dieci anni prima; così, quando farete in modo che, sia per la pioggia che per il vento o in qualsiasi altro modo, ciò che è stato mio non s’incorpori alle vostre proprietà, voi avrete il diritto di impedirmi di incorporare a mia volta ciò che mi viene dalle vostre proprietà.
Ma, poiché non avrete potuto fare in modo che noi, i senza parte, i paria, viviamo senza assimilare costantemente gli elementi che prendiamo nel grande tutto, noi avremo diritto come voi a questo grande tutto ed a ciascuna delle sue parti, perché noi siamo nati come voi, siamo simili a voi, abbiamo degli organi e dei bisogni come voi, abbiamo diritto alla vita ed alla felicità come voi.
Se fossimo una specie di animali inferiori a voi, comprenderei questa esclusione: la nostra organizzazione ed il nostro modo di vivere sarebbero differenti; ma, poiché siamo organizzati come voi, siamo uguali a voi ed abbiamo diritti come voi sulla universalità dei beni.
E se mi dite che tale cosa è vostra perché l’avete ereditata, vi risponderò che coloro che ve l’hanno lasciata non avevano il diritto di farlo. Essi avevano il diritto di godere della universalità dei beni durante la loro vita, come noi abbiamo il diritto di goderne durante la nostra, ma essi non avevano il diritto di disporne dopo la loro morte, poiché, così come con la nascita acquistiamo il diritto a tutto, così con la morte perdiamo ogni diritto, perché allora non abbiamo più bisogno di niente.
Con quale diritto quelli che hanno vissuto vorranno impedirci di vivere?
Con quale diritto un aggregato di molecole vorrà impedire alle sue molecole di riaggregarsi in un modo piuttosto che un altro? Con quale diritto ciò che fu vorrà ostacolare ciò che sarà? Perché un uomo che durante la sua vita, che non è stata che un minuto nell’immensità del tempo, ha abitato un angolo di terra, potrà disporne per l’eternità? C’è nulla di più stupido di questa pretesa d’un essere effimero che fa delle donazioni perpetue a degli esseri, a delle istituzioni passeggeri?
Noi non dobbiamo rispettare queste pretese di persone che vogliono vivere quando sono morte, che vogliono avere diritto a tutti i beni, quando non ne hanno più bisogno, e che vogliono disporre dopo la loro morte di cose di cui avevano diritto di disporre solo secondo i loro bisogni durante la loro vita.
E se mi dite che essi avevano diritti di disporne, perché era parte del prodotto del loro lavoro che avevano economizzato, vi rispondo che se essi non hanno consumato tutto il prodotto del loro lavoro, è perché hanno potuto farne a meno; se non ne avevano bisogno, non ne avevano bisogno, e di conseguenza non potevano disporne in vostro favore, e cedervi dei diritti che non avevano.
Il diritto cessa dove si ferma il bisogno.
Ugualmente, se mi dite che quella cosa è vostra perché l’avete comprata, vi rispondo che quelli che ve l’hanno venduta non avevano il diritto di vendervela. Essi avevano il diritto di goderne secondo i loro bisogni, come noi abbiamo il diritto di goderne secondo i nostri. Essi avevano il diritto di alienare la loro parte di godimento della vita, non di alienare la nostra; potevano rinunciare alla loro felicità, non alla nostra, e noi non dobbiamo rispettare delle transazioni che sono avvenute al di fuori di noi e contro il nostro diritto.
La natura ci dice: Prendi, e non: compra. In qualsiasi acquisto, c’è un truffatore e un truffato – uno che trae profitto dalla transazione, mentre l’altro viene leso. Ma se ciascuno prende secondo il proprio bisogno, nessuno è leso, atteso che ciascuno, avendo così ciò di cui ha bisogno, ha anche tutto ciò cui ha diritto.
La transazione commerciale è certamente una delle principali cause di corruzione dell’umanità.
Non è inutile rimarcare a questo riguardo che tutto ciò che nel funzionamento sociale attuale è contrario alle regole della filosofia naturale è, al tempo stesso, fonte di mali e di crimini, e che se tutti gli individui avessero a loro disposizione l’universalità dei beni, ciò che occorre loro per vivere ed essere felici, e cui quindi hanno diritto, i nove decimi ei crimini sarebbero soppressi, perché essi hanno per movente ciò che voi chiamate furto.
Bisogna convincersi bene di questa verità, che dal momento che un uomo vende qualcosa, vuol dire che non ne ha bisogno; che allora non ha il diritto di disporne e impedire a coloro che ne hanno bisogno di impossessarsene, atteso che, per il fatto stesso che ne hanno bisogno, ne hanno diritto!
Come il furto, la prostituzione scomparirebbe con l’applicazione delle nostre teorie filosofiche. Perché mai una donna si prostituirà, quando avrà a disposizione tutto ciò che potrà assicurare la sua esistenza e la sua felicità? E come un uomo potrà comprarla, se non potrà darle che ciò che ella avrà diritto di avere? E così tutti i crimini, tutti i vizi, spariranno perché saranno scomparse le loro cause.
L’essere umano è sano e completo solo grazie al libero esercizio della sua piena volontà.
Da dove vengono la menzogna, la doppiezza, l’astuzia, se non dalla coercizione di alcuni su altri? sono le armi dei deboli, e i deboli vi ricorrono solo perché i forti li costringono a farlo.
La menzogna non è il vizio di chi mente, ma di colui che lo costringe a mentire. Eliminate la costrizione, la coercizione, il castigo, e vedrete se chi mente non dirà la verità.
Che gli uni la smettano di contestare agli altri il diritto alla vita, alla felicità, e la prostituzione, l’assassinio scompariranno, perché gli uomini nascono tutti ugualmente liberi e buoni. sono le leggi sociali che li rendono cattivi e ingiusti, schiavi o padroni, spogliati o spogliatori, carnefici o vittime. Ogni uomo è un essere autonomo, indipendente; è per questo che l’indipendenza di ognuno dev’essere rispettata. Ogni attentato alla nostra libertà, ogni costrizione imposta è un crimine che chiama alla rivolta.
So bene che il mio ragionamento non assomiglia per niente all’economia politica insegnata da M. Leroy Beanlieu, né alla morale di Malthus, né al socialismo cristiano di Leone XIII che predica la rinuncia alle ricchezze in mezzo a cumuli d’oro e l’umiltà proclamandosi il primo di tutti. So bene che la filosofia naturale urta contro tutte le idee ricevute, sia religiose, sia morali, sia politiche. Ma il suo trionfo è assicurato, perché essa è superiore a qualsiasi teoria filosofica, a qualsiasi concezione morale, perché essa non rivendica alcun diritto per gli uni che non rivendichi ugualmente per gli altri, ed essendo assoluta uguaglianza, porta in sé l’assoluta giustizia. Essa non si piega alle circostanze del tempo e del luogo – e non proclama alternativamente buona o cattiva la medesima azione.
Essa non ha nulla in comune con quella morale dalla doppia faccia che ha corso presso gli uomini di questo tempo, e che fa in modo che una cosa sia buona o cattiva secondo le latitudini e le longitudini.
Essa non proclama, per esempio, che il fatto di impossessarsi di una cosa e di non lasciare al suo posto altro che il cadavere del precedente possessore è al tempo stesso cosa orrenda e sublime. Orrenda, se succede nei dintorni di Parigi, sublime se accade a Hué o a Berlino. E poiché essa non ammette punizione né ricompensa, essa non reclama, nel primo caso, la ghigliottina per gli uni, l’apoteosi per gli altri. Essa sostituisce a tutte le innumerevoli e mutevoli regole morali inventate dagli uni per asservire gli altri, e che per il loro stesso numero e la loro stessa mutevolezza dimostrano di essere fragili, la giustizia naturale, immutabile regno del bene e del male, che non è opera di nessuno, ma risulta dall’organismo intimo di ognuno. Il bene è ciò che è buono per noi, ciò che ci procura delle sensazioni di piacere, e poiché sono queste sensazioni che determinano la volontà, il bene è ciò che vogliamo, il male ciò che è cattivo per voi, ciò che ci procura sensazioni dolorose, ciò che non vogliamo. “Fa’ quel che vuoi”, questa è l’unica legge che la nostra giustizia riconosce, perché essa proclama la libertà di ciascuno nella uguaglianza di tutti.
Coloro che pensano che nessuno vorrebbe lavorare, se non vi fosse costretto, dimenticano che l’immobilità è la morte – che abbiamo delle forze da spendere per rinnovarle senza fine, e che la salute e la felicità si conservano solo a prezzo dell’attività -, che nessuno vorrebbe essere infelice o malato, tutti dovranno occupare i loro organi per gioire di tutte le loro facoltà, perché una facoltà di cui non si faccia uso non esiste più ed è una parte di felicità in meno nella vita dell’individuo.
Domani come oggi, come ieri, gli uomini vorranno essere felici, sempre spenderanno la loro attività, sempre lavoreranno, ma, dal momento che il lavoro di tutti produce ricchezza sociale, la felicità di tutti e di ciascuno sarà aumentata, e ciascuno potrà godere così del lusso cui ha diritto, e il superfluo non esisterà più, e tutto ciò che esisterà sarà necessario.
L’uomo non è solo ventre, è anche cervello: ha bisogno di libri, di quadri, di statue, di musica, di poesia, come ha bisogno di pane, d’aria e di sole; ma, così come nella sua consumazione deve essere solo limitato dalla sua capacità di consumare, così nella sua produzione deve essere limitato solo dalla sua capacità di produrre e, consumando secondo i suoi bisogni, non deve produrre che secondo le proprie forze. Ora, chi meglio di lui potrà conoscere i suoi bisogni? Chi meglio di lui potrà conoscere le sue forze? Nessuno; di conseguenza, l’uomo deve produrre e consumare solo secondo la sua volontà.
L’umanità ha sempre avuto la coscienza latente che non sarà mai felice e che tutte le belle qualità della natura umana non potranno sbocciare che nel comunismo.
Così l’età d’oro degli antichi era fondata sulla proprietà comune, e mai è venuto in mente alle nature elitarie che, presso di loro, poetizzavano il passato, che la felicità degli uomini fosse compatibile con la proprietà individuale. Essi sapevano per intuizione o per esperienza che tutti i mali e tutti i vizi dell’umanità derivano dall’antagonismo degli interessi creato dall’appropriazione individuale, non limitata ai bisogni, e mai hanno sognato una società senza guerre, senza omicidi, senza prostituzione, senza crimini e senza vizi, che non fosse ugualmente senza proprietari.
E’ perché noi non vogliamo più né guerre né omicidi, né prostituzione né vizi né crimini, che lottiamo per la libertà e la dignità umana. Malgrado tutti i bavagli, la parola della verità rimbomberà sulla terra, e gli uomini sobbalzeranno nel sentirla; si alzeranno al grido della libertà per essere gli artefici della propria felicità. Noi siamo forti della nostra stessa debolezza, qualunque cosa possa avvenire di noi, vinceremo!
Il nostro asservimento insegna agli uomini che hanno diritto alla rivolta, il nostro imprigionamento, che hanno diritto alla libertà, e dalla nostra morte impareranno che hanno diritto alla vita.
Quando noi torneremo in prigione e voi tornerete alle vostre famiglie, gli spiriti superficiali penseranno che noi siamo i vinti. Errore! Noi siamo gli uomini del futuro e voi siete gli uomini del passato.
Noi siamo il domani e voi siete lo ieri. E non è in potere di nessuno impedire che il minuto che passa ci avvicini al domani e ci allontano dall’ieri. Lo ieri ha sempre voluto sbarrare la strada al domani, ed è sempre stato vinto nella sua stessa vittoria, perché il tempo che ha impiegato a vincere l’ha avvicinato alla sua sconfitta.
E’ lui che ha fatto bere la cicuta a Socrate, che ha fatto abiurare Galilei con la tortura, che ha bruciato Jean Huss, Etienne Dolet, Guglielmo da Praga, Giordano Bruno, che ha ghigliottinato Hébert, Babeuf, che ha imprigionato Blanqui, che ha fucilato Flourens e Ferré. Come si chiamavano i giudici di Socrate e di Galileo, di Jean Huss, di Guglielmo da Praga, di Giordano Bruno, di Etienne Dolet, di Hébert, di Bebeuf, di Blanqui, di Flourens, di Ferré? Nessuno lo sa: sono il passato, erano già morti quando vivevano. Non hanno avuto nemmeno la gloria di Erostrato, mentre Socrate è eterno, Galileo è ancora in piedi, Jean Huss esiste, Guglielmo da Praga, Giodano Bruno, Etienne Dolet, Hébert, Babeuf, Blanqui, Flourens, Ferré vivono.
Saremo felici nella nostra disgrazia, trionfanti nella nostra miseria, vincitori nella nostra sconfitta. Saremo felici qualunque cosa ci capiti, perché siamo certi che al soffio delle idee innovatrici altri esseri arriveranno alla verità, altri uomini riprenderanno la nostra missione interrotta e la porteranno a compimento; infine, che verrà un giorno in cui l’astro che dora le messi splenderà sull’umanità senza eserciti, senza cannoni, senza frontiere, senza barriere, senza prigioni, senza magistratura, senza polizia, senza leggi e senza dio, liberi infine intellettualmente e fisicamente, e che gli uomini, riconciliati con la natura e con sé stessi, potranno, nell’armonia universale, soddisfare la loro sete di giustizia.
Che importa che l’aurora di questo grande giorno sia imporporata dai bagliori dell’incendio, che importa che al mattino di questo giorno la rugiada sia insanguinata!
Anche la tempesta è utile per purificare l’atmosfera. Il sole è più brillante dopo il temporale.
Splenderà, sarà raggiante il bel sole della libertà, e l’umanità sarà felice.
Allora, mettendo ognuno la sua felicità al riparo nella felicità di tutti, nessuno farà più del male, perché nessuno avrà interesse a far del male.
L’uomo libero nella umanità affrancata potrà camminare senza intralci di conquista in conquista, a vantaggio di tutti, verso l’infinito senza limiti dell’intellettualità.
L’enigma moderno: Libertà, Uguaglianza, Fraternità, posto dalla Sfinge della Rivoluzione, una volta risolto – sarà l’Anarchia.

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Georges Etiévant, Dichiarazioni

Etiévant in una stampa popolare

Un vero duro, Georges Etiévant. Il 16 gennaio del 1898 aggredisce con ventidue coltellate un poliziotto, altre sedici le riserva ad un collega che corre a soccorrerlo. Lo portano al posto di polizia, ma si dimenticano di perquisirlo: c’è ancora tempo per un colpo di pistola al secondo agente. Ha trentatré anni. Lo condannano a morte, con pena commutata nei lavori forzati a vita. Gli è andata bene. O male, dipende dai punti di vista. Morirà non troppo tempo dopo.
Un vero filosofo, Georges Etiévant. Qualche anno prima, nel 1892, aveva rubato della dinamite che serviva al più famoso Ravachol. Al tribunale che lo processa presenta una dichiarazione difensiva che è, in realtà, una durissima accusa. Questo giovane tipografo la sa lunga: contesta il diritto stesso di giudicare. Il diritto, si sa, ha una sua rozzezza; per funzionare ha bisogno di categorie che all’occhio del filosofo appaiono fragili, evanescenti. Perché un contratto sia valido, occorre che vi siano dei soggetti, e che questi soggetti restino uguali a sé stessi nel tempo. Perché mai, altrimenti, dovrebbe obbligarmi un contratto, se a firmarlo è stato uno che non sono io – e cioè: un io che non è il mio io attuale? Il diritto ha bisogno del soggetto; ma la filosofia sa che il soggetto è finzione. Il diritto ha bisogno, per giudicare, della responsabilità e della libertà. Anch’esse finzioni. L’imputato Etiévant ha le sue ragioni: quel che facciamo non è che il risultato di ciò che abbiamo percepito e delle reazioni che queste percezioni hanno suscitato in noi. Ho ucciso. Perché? E’ sorto in me un odio, che ha le sue cause. Certo, avrei potuto resistere a quell’odio. L’avrei fatto senz’altro, se avessi avuto in me una forza capace di resistere; se non l’ho fatto, evidentemente quella forza non l’avevo: e di ciò che non ho, non posso essere responsabile. Ecco dunque l’assurdo di ogni tribunale. Per giudicare un uomo, accusa Etiévant, bisognerebbe conoscere alla perfezione le percezioni che hanno agito su di lui e le reazioni che esse hanno suscitato; bisognerebbe, in altri termini, essere quell’uomo. Nessuno può giudicare un altro. Aggiungerei che nemmeno noi stessi siamo in grado di giudicarci, perché il nostro essere ci accade come, fuori di noi, accade la pioggia o il vento.
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Le false domande del burocrate ministeriale

Da qualche anno nella mia pratica di insegnamento (ossia: nella mia pratica didattica ed educativa) faccio uso della maieutica reciproca di Danilo Dolci. In concreto, vuol dire che appena possibile metto le sedie in cerchio e pongo ai miei studenti un tema di cui discutere (spesso lo propongono loro). Le regole semplici della maieutica reciproca vogliono che il conduttore del seminario favorisca la discussione senza assolutamente imporre il proprio punto di vista, o orientarla in una direzione a lui gradita. E’ questa, mi pare, la più grande difficoltà della maieutica reciproca a scuola. Essa richiede una ridefinizione del ruolo del docente. Abituato da sempre a far lezione, deve ora ridursi, farsi da parte: far parlare gli studenti. Non moralizzare, non giudicare. Se sente cose mal argomentate, può invitare ad argomentare meglio; se sente elogiare la mafia, può invitare a spiegare meglio perché la mafia è una cosa buona: ma senza emettere giudizi o condanne.
Alla maieutica reciproca corrisponde una particolare concezione della scuola e dell’educazione. Per la prima, mi piace l’espressione scuola conviviale, pensando sia al Convivio platonico che ad Illich. Quanto alla seconda, confesso che abolirei il termine stesso, sostituendolo con la parola sinagogia, che vuol dire educarsi insieme. Ritengo, infatti, che si abbia il diritto di educare qualcuno ad una sola condizione: quella di lasciarsi al contempo educare. L’educazione non è un’azione che un soggetto compie su un oggetto, ma un movimento comune di due o più soggetti.
Una scuola conviviale è, dunque, una scuola in cui ci sono molte domande e si cercano insieme le risposte. Nella scuola in genere le domande sono domande retoriche. Domande che hanno già una risposta, che è in possesso del docente. Quando un docente fa una domanda, sa già come lo studente dovrà rispondere. C’è la risposta esatta e la risposta sbagliata. In termini psicologici, si può dire che la scuola favorisce il pensiero convergente, non quello divergente. Il che non vuol dire, come potrebbe sembrare, educare all’oggettività, ma abituare al conformismo ed alla pigrizia mentale. E’ la scuola del manuale e del professore come interprete del manuale, che concepisce il sapere come un pacchetto preconfezionato da consegnare allo studente, un boccone da mandare giù senza masticarlo troppo.
Dopo aver insegnato per un anno scienze sociali con questo metodo, ho accompagnato i miei studenti di quinta agli esami di Stato. La seconda prova di scienze sociali (al Liceo delle Scienze Sociali: liceo che dal prossimo anno non esisterà più) prevede che gli studenti svolgano due quesiti a scelta tra quattro proposti. In ogni quesito c’è un testo, seguito da alcuni punti da trattare. Questo è il terzo quesito della traccia di quest’anno:

«Nel dibattito pubblico attuale c’è una parola che ricorre in modo sistematico: visibilità. Non c’è riunione di azienda, pubblica o privata, non c’è riunione all’università o negli organismi sociali in cui non ci si preoccupi di rendere visibile l’azione esercitata o che non ci si dimostri consapevoli della necessità di rendersi visibili per attirare l’attenzione. Non c’è partito politico o dirigente che non se ne prenda cura con puntiglio e continuità. L’insieme delle pratiche sociali si confronta attualmente con le regole, o piuttosto, con le esigenze, spesso paradossali, della mediatizzazione permanente. Nelle società occidentali del XIX secolo l’intimo doveva essere taciuto. In queste stesse società, un rovesciamento dei valori induce oggi ad abbandonarsi a un’esibizione dell’intimo per poter esistere. Nella nostra società l’invisibile vuole dire insignificante e oltre l’inesistente. […] Il visibile e l’immagine fanno indietreggiare l’invisibile, che da quel momento è screditato, ritenuto inutile.»
Nicole AUBERT e Claudine HAROCHE, Essere visibili per esistere: l’ingiunzione alla visibilità, in N. AUBERT e Cl. HAROCHE (a cura di), FARSI VEDERE. La tirannia della visibilità nella società di oggi, Giunti Editore, Firenze-Milano 2013
Esponi le tue riflessioni sul testo sopra riportato e rispondi alle seguenti domande:
– come e perché l’esigenza di visibilità ha assunto nella nostra società un’importanza fondamentale?
– si può parlare di una domanda di legittimità e/o di riconoscimento?
– è solo negativa l’esigenza di visibilità?
– al cartesiano “Penso, dunque sono” si è sostituito un “Mi vedono, dunque sono”?

Ecco all’opera la scuola trasmissiva. C’è un testo di due sociologi che presenta una tesi che, come ogni tesi nel campo delle scienze sociali, si può e si deve discutere. Se si fosse proposto semplicemente agli studenti di analizzare e commentare la traccia, sarebbe stato un ottimo esercizio. Ma chi ha pensato la traccia voleva qualcosa di diverso. Non voleva che gli studenti ragionassero per conto loro, usando anche le cose studiate, sul testo proposto. Aveva invece in mente uno svolgimento del quesito: il suo. Le quattro domande che seguono il testo non sono vere domande. Servono a indirizzare lo svolgimento in una certa direzione. Se le prime due domande paiono legittime, la terza già contiene una tesi (la visibilità è anche positiva), mentre l’ultima è un invito a consentire senz’altro con la tesi, peraltro tutt’altro che originale e piuttosto moralistica, del burocrate ministeriale: al cogito si è sostituito il “mi vedono, dunque sono”. Ho anche l’impressione che il burocrate (che dimentica, se non altro, l’esse est percipi di Berkeley) non abbia troppa stima dei nostri studenti, perché la “riflessione” proposta e così accuratamente favorita ha l’aria più di una chiacchiera televisiva che di una approfondita analisi sociologica. 


Le false domande del burocrate ministeriale

Da qualche anno nella mia pratica di insegnamento (ossia: nella mia pratica didattica ed educativa) faccio uso della maieutica reciproca di Danilo Dolci. In concreto, vuol dire che appena possibile metto le sedie in cerchio e pongo ai miei studenti un tema di cui discutere (spesso lo propongono loro). Le regole semplici della maieutica reciproca vogliono che il conduttore del seminario favorisca la discussione senza assolutamente imporre il proprio punto di vista, o orientarla in una direzione a lui gradita. E' questa, mi pare, la più grande difficoltà della maieutica reciproca a scuola. Essa richiede una ridefinizione del ruolo del docente. Abituato da sempre a far lezione, deve ora ridursi, farsi da parte: far parlare gli studenti. Non moralizzare, non giudicare. Se sente cose mal argomentate, può invitare ad argomentare meglio; se sente elogiare la mafia, può invitare a spiegare meglio perché la mafia è una cosa buona: ma senza emettere giudizi o condanne.
Alla maieutica reciproca corrisponde una particolare concezione della scuola e dell'educazione. Per la prima, mi piace l'espressione scuola conviviale, pensando sia al Convivio platonico che ad Illich. Quanto alla seconda, confesso che abolirei il termine stesso, sostituendolo con la parola sinagogia, che vuol dire educarsi insieme. Ritengo, infatti, che si abbia il diritto di educare qualcuno ad una sola condizione: quella di lasciarsi al contempo educare. L'educazione non è un'azione che un soggetto compie su un oggetto, ma un movimento comune di due o più soggetti.
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