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blog di antonio vigilante

17 ottobre, venerdì

Le strade erano insignificanti, spesso brutte. Ma ognuna di quelle strade era impastata di me. Ogni volta che attraversavo ognuna di quelle strade, mi aggiungevo al mio passato. Sulla via della stazione ero accompagnato, ad esempio, da un ragazzino che andava alla libreria Nuova Minerva ad acquistare la sua prima copia del "De Rerum Natura" di Lucrezio. Ed ero lui, e no: e non lo ero essendolo.
Ciò che mi tratteneva in quelle strade era, credo, proprio questo essere io, e no, ed essere io non essendo. Stare nel mio non essere più, essendo. Avere un'ombra, insomma.
Che è quello che mi manca. Qui le strade sono bellissime, ma sono solo. Quel ragazzino non c'è più: è altrove. Non ho più la mia ombra, sono solo sotto al sole della Toscana. Calpesto l'ombra di altri, ma non ho più la mia. Ed è bello, ed è triste. E leggero e pesante. E.


Dodici tesi per una scuola conviviale

Vorrei dare il mio contributo alla discussione sulla possibilità di una scuola diversa, avviata da Paolo Mottana (25 idee per una scuola diversa), presentando dodici tesi che costituiscono il nucleo di un libro che sto scrivendo, ed il cui titolo sarà La scuola conviviale. L’aggettivo conviviale fa riferimento da un lato al Convivio platonico e dall’altro alla convivialità di Ivan Illich (La convivialità). Si tratta, in breve, di ripensare la scuola – la scuola pubblica – mettendo al centro due cose: le relazioni, che devono essere aperte, simmetriche, dialogiche, ed il rapporto tra scuola e mondo economico-sociale, che non deve essere di riproduzione, ma di ripensamento critico, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di realizzazione umane.
Sarò grato a chi vorrà discutere le tesi.

Prima tesi

La scuola conviviale è fondata sul dialogo non solo tra studenti e docenti, ma degli studenti tra loro. Studenti e docenti costituiscono una comunità che apprende, studia, ricerca e cresce insieme.

Seconda tesi

La scuola conviviale fa dunque a meno della relazione asimmetrica tradizionale tra docenti e studenti, ed instaura invece una simmetria dinamica, perché tesa verso la crescita comune. Il darsi del tu è il segno esteriore, ma non superficiale, di questo cambiamento.

Terza tesi
La scuola conviviale è una scuola serena, nella quale gli inevitabili conflitti vengono affrontati con gli strumenti del dialogo e della ragione. La serenità, l’armonia, la bellezza che sono elementi indispensabili di una situazione educativa saranno espressi anche esteriormente nell’ambiente dell’aula.


Quarta tesi

La scuola conviviale è un laboratorio di critica sociale. Questo non vuol dire che a scuola si debbano insegnare concezioni critiche verso il sistema e cercare di formare dei rivoluzionari: ciò sarebbe indottrinamento. Vuol dire, invece, che nella scuola si discute in modo aperto e critico del sistema sociale, economico, assiologico. Il problema del rapporto tra scuola e mondo esterno di risolve così: la scuola è il luogo in cui il mondo esterno viene passato al vaglio della critica. Il sistema sociale ed economico ha una straordinaria pervasività; alla scuola spetta il compito di rifiutarsi di essere una delle tante agenzie pubblicitarie del capitalismo, ed offrire agli studenti visioni del mondo alternative.

Quinta tesi
La scuola conviviale mette tra parentesi tutti i sistemi ideologici, religiosi, assiologici. Il suo atteggiamento di fondo è la scepsi, intesa come ricerca. Come tale, è rigorosamente laica, anche se non anti-religiosa.
Sesta tesi
La scuola conviviale riflette criticamente su sé stessa in quanto istituzione, configurandosi come meta-scuola.
Settima tesi
La scuola conviviale non si considera l’unico luogo in cui sia possibile un apprendimento reale ed una crescita umana completa. Ritiene, invece, che sia possibile imparare ovunque, e che la scuola sia solo uno dei tanti luoghi di apprendimento possibile.
Ottava tesi
La scuola conviviale è aperta ai saperi tradizionalmente esclusi dalla scuola, anche per ragioni di classe.
Nona Tesi
La scuola conviviale è aperta al contributo di molteplici soggetti. Sa che ascoltare le persone è uno dei modi migliori per imparare e crescere. E dunque ascolta il contadino, l’operaio, la casalinga, il commerciante, l’immigrato e così via.
Decima tesi
La scuola conviviale non è eurocentrica, ma guarda con interesse a tutte le culture del mondo. La scuola conviviale considera criticamente tutti i contenuti culturali, cercando diverse interpretazioni, punti di vista alternativi, fonti minori.
Undicesima tesi
La scuola conviviale considera il sapere come contributo al bene comune.
Dodicesima tesi
La scuola conviviale si occupa dell’educazione spirituale non meno che dell’educazione intellettuale.
Articolo scritto  per Comune-info.


Dodici tesi per una scuola conviviale

Vorrei dare il mio contributo alla discussione sulla possibilità di una scuola diversa, avviata da Paolo Mottana (25 idee per una scuola diversa), presentando dodici tesi che costituiscono il nucleo di un libro che sto scrivendo, ed il cui titolo sarà La scuola conviviale. L’aggettivo conviviale fa riferimento da un lato al Convivio platonico e dall’altro alla convivialità di Ivan Illich (La convivialità). Si tratta, in breve, di ripensare la scuola – la scuola pubblica - mettendo al centro due cose: le relazioni, che devono essere aperte, simmetriche, dialogiche, ed il rapporto tra scuola e mondo economico-sociale, che non deve essere di riproduzione, ma di ripensamento critico, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di realizzazione umane.
Sarò grato a chi vorrà discutere le tesi.

Prima tesi
La scuola conviviale è fondata sul dialogo non solo tra studenti e docenti, ma degli studenti tra loro. Studenti e docenti costituiscono una comunità che apprende, studia, ricerca e cresce insieme.
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Sul terrore di Dio

Impacchettando i libri per il trasloco, vien fuori una vecchia edizione Newton Compton della Nascita della tragedia di Nietzsche, ormai rovinata dall’umidità. Nell’antiporta la mia firma, ancora con le maiuscole (dall’età di diciassette anni firmo con le iniziali minuscole) e la data: 1988. Sedici anni.
Nell’ultima pagina trovo una annotazione sicuramente posteriore, che per quello che riesco a ricordare rientra nel progetto post-adolescenziale di un libro che doveva intitolarsi Sul terrore di Dio. Eccola.

Più profondo d’ogni rito e d’ogni preghiera, più prossimo all’essenza del reale d’ogni contemplazione, è quello sguardo sconsolato sul maestoso dolore degli enti che si concreta nel presentimento d’un Dio capriccioso e terribile. Io non sono, qui, il padrone dell’Essere; io non sono che un ospite, uno che deve prendere congedo; mi fanno compagnia il dolore e la gioia, la fuga e la mancanza: così parla l’uomo che vive e soffre in sé quel momento originario della religione che chiamo “terrore di Dio”. L’uomo religioso è l’antitesi dell’uomo dell’età della tecnica: se quest’ultimo pensa alla realtà come producibilità, fa dipendere da sé la natura e le cose, orgoglioso della sua capacità di dare ordine a tutto, l’altro, il sofferente Giobbe, conosce i propri limiti, osserva lo scorrere degli eventi con calma e rassegnazione, conosce il Dio che non domina e travaglia.



Sul terrore di Dio

Impacchettando i libri per il trasloco, vien fuori una vecchia edizione Newton Compton della Nascita della tragedia di Nietzsche, ormai rovinata dall'umidità. Nell'antiporta la mia firma, ancora con le maiuscole (dall'età di diciassette anni firmo con le iniziali minuscole) e la data: 1988. Sedici anni.
Nell'ultima pagina trovo una annotazione sicuramente posteriore, che per quello che riesco a ricordare rientra nel progetto post-adolescenziale di un libro che doveva intitolarsi Sul terrore di Dio. Eccola.

Più profondo d'ogni rito e d'ogni preghiera, più prossimo all'essenza del reale d'ogni contemplazione, è quello sguardo sconsolato sul maestoso dolore degli enti che si concreta nel presentimento d'un Dio capriccioso e terribile. Io non sono, qui, il padrone dell'Essere; io non sono che un ospite, uno che deve prendere congedo; mi fanno compagnia il dolore e la gioia, la fuga e la mancanza: così parla l'uomo che vive e soffre in sé quel momento originario della religione che chiamo "terrore di Dio". L'uomo religioso è l'antitesi dell'uomo dell'età della tecnica: se quest'ultimo pensa alla realtà come producibilità, fa dipendere da sé la natura e le cose, orgoglioso della sua capacità di dare ordine a tutto, l'altro, il sofferente Giobbe, conosce i propri limiti, osserva lo scorrere degli eventi con calma e rassegnazione, conosce il Dio che non domina e travaglia.


Israele nel deserto

Con ogni probabilità, il passo più terribile della Bibbia – una raccolta di testi in cui non mancano i passi terribili: violenti, atroci, osceni – è quello del libro dei Numeri (in ebraico Be-Midbar, “Nel deserto”) in cui Mosè comanda di sterminare donne e bambini. Consideriamo il contesto. Il popolo del Signore è accampato nel deserto, in una località chiamata Sittim. Qui gli ebrei si mettono a “trescare con le figlie di Moab”, partecipando ai loro sacrifici religiosi ed adorando i loro dèi. Il Signore si arrabbia ed ordina a Mosè di far impiccare tutti i capi del popolo, per placare la sua ira. E’ singolare che i cristiani, che lamentano (ed a ragione) le persecuzioni cui in diverse parti del mondo sono sottoposti coloro che si convertono al cristianesimo, ritengano sacro un libro in cui si parla di impiccare chi pratica la libertà religiosa – perché di questo si tratta. Ma procediamo. Un certo Fineas, sommo sacerdote, scopre che un ebreo ha portato nella sua tenda una moabita, e non ci pensa due volte: prende una lancia e li uccide. Il Signore è talmente contento per il suo gesto – l’assassinio di due innocenti – che fa cessare la sua ira su Israele. Non prima, però, di aver massacrato 24.000 persone (Numeri, 25, 1-9). L’edizione che sto citando, quella curata da Bernardo Boschi per le Edizioni Paoline, spiega in nota che questo Fineas “testimonia la radicale ed esemplare fedeltà della sua classe allo Jahvismo nello spirito della Tradizione Sacerdotale”. Un gran brav’uomo, insomma.
La storia non finisce qui. Gli ebrei hanno tradito Dio, e la carneficina non è sufficiente. Occorre la vendetta. Di cosa siano colpevoli i poveri moabiti non è ben chiaro: usando lo stesso criterio, oggi, i seguaci di qualsiasi religione si potrebbero ritenere in diritto di muover guerra e massacrare chiunque faccia proselitismo presso di loro, a cominciare dai cristiani. Mosè manda contro i madianiti un esercito di dodicimila uomini, che massacrano tutti i maschi, incendiano le città, depredano tutto. Ma i capi dell’esercito risparmiano i bambini e le donne. Per umanità, immagino. Mosè tuttavia si arrabbia: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Furono esse, per suggerimento di Balaam, a stornare dal Signore i figli d’Israele nel fatto di Peor e ad attirare il flagello sulla comunità del Signore. Ora uccidete ogni maschio fra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si sono unite con un uomo le lascerete vivere per voi” (Numeri, 31, 15-17). Tralasciamo quest’ultima notazione, anch’essa terribile (è facile immaginare la fine delle ragazze vergini), e chiediamoci: di cosa sono davvero colpevoli le donne? Cosa hanno fatto, per essere uccise? Hanno seguito la loro religione, esattamente come gli ebrei seguono la loro. Il massacro di queste donne, a battaglia vinta, è un semplice crimine di guerra. Ma soprattutto la domanda è: cosa hanno fatto i bambini? Cosa? Perché massacrarli? Non esiste nessuna ragione. Se il massacro delle donne è un crimine di guerra, il massacro dei bambini è un crimine di guerra al quadrato.
Mi è tornato in mente questo passo guardando un video raccapricciante, disponibile su Internet, nel sito di OummaTv, la televisione dei musulmani francesi. Il video riprende una manifestazione di ebrei, felici per gli attacchi contro i palestinesi. Cantano cori da stadio. A un certo punto intonano: “Il n’y aura pas d’école demain, on a tué tous les enfants”. Non ci sarà scuola domani, abbiamo ucciso tutti i bambini.
E’, questa, la cosa più spaventosa che ho visto e sentito da gran tempo. Sono sicuro che non sono molti gli ebrei felici per il massacro dei bambini palestinesi, e tuttavia il fatto che una simile barbarie sia possibile, sia pure presso pochi esaltati, dà da pensare. Chi ha letto la Bibbia, sa che c’è un filo rosso che unisce questi cori alla storia sacra di un popolo che ha dovuto strappare con la violenza ad altri popoli la terra promessa dal suo Dio.
Prima che mi si accusi di antisemitismo (una accusa sempre pronta contro chiunque metta in discussione le politiche sioniste), aggiungo che il massacro palestinese mi ha fatto venire in mente un altro testo che appartiene alla tradizione dell’ebraismo. Si tratta di un libretto di Chaim Nachman Bialik, lo scrittore ucraino considerato il poeta nazionale di Israele. Nel 1903 avviene un terribile pogrom a Kishinev, attuale capitale della Moldavia. In due giorni vengono uccisi quarantanove ebrei, mentre cinquecento sono i feriti. Di fronte ad una tale devastazione si resta senza parole. Ma Bialik è un poeta, un grande poeta. E le parole le trova. Nella città del massacro, il poemetto scritto per raccontare, per piangere, per denunciare il pogrom, è poesia pura, vibrante, che tocca le corde più intime e commuove profondamente. Comincia con queste parole, Bialik: “Un cuore di ferro e acciaio, freddo, duro e muto, / batte in te, vieni uomo! / entra nella città del massacro, devi vedere con i tuoi occhi, / toccare con le tue mani…” (trad. R. A. Cimmino). E nel resto del poemetto il lettore in effetti vede con i suoi occhi e tocca con le sue mani l’orrore.
I versi più intensi dell’opera sono quelli nei quali Bialik descrive la Shekinah, “nera, stanca, disperata”, che piange in silenzio. Quella di Shekinah è una delle concezioni più affascinanti della teologia e della mistica ebraica. Il termine deriva dal verbo shakan, abitare: indica dunque la presenza, la dimora di Dio sulla terra. Una manifestazione di Dio che ha i caratteri del mistero e della gloria, nella tradizione. Ma con Bialik avviene un cambiamento importante. La Shekinah, la gloriosa manifestazione di Dio, ora si limita a stare accanto alle vittime. Subisce la loro stessa sofferenza, accetta su di sé il dolore degli afflitti. Il pensiero va anche a quella pagina memorabile de La Notte in cui Elie Wiesel racconta di un bambino impiccato ad Auschwitz. “Dov’è Dio?”, chiede qualcuno. E Wiesel scrive: “E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”.
C’è una straordinaria rivoluzione teologica in queste parole. Dio non è più nei cieli, non si manifesta più nella distanza e nella potenza, ma sta accanto a chi soffre. Chi soffre in questo caso è il popolo eletto, ma il passo verso un Dio che sta con chiunque soffra è breve. E’ una intuizione – questa di un Dio dei poveri, dei deboli, degli afflitti – che si affaccia in diverse tradizioni religiose: dal cristianesimo (e non a caso alcuni cabalisti troveranno affinità tra la Shekinah e il Cristo) allo hinduismo, con l’idea del Daridranarayana, “Dio nei poveri”, che si trova in Vivekananda en Gandhi. La considero la più alta concezione religiosa dopo quella del Dio-non Dio di Meister Eckhart.
Le parole di Bialik si potrebbero leggere, in questi giorni, come un canto che dice la tragedia delle migliaia di palestinesi massacrati dall’esercito israeliano. Un ebreo ha trovato le parole per dire l’indicibile, ed ora quelle parole non gli appartengono più, come non appartengono più al solo popolo ebraico. Rappresentano il contributo del popolo ebraico alla comune umanità: dire la tragedia, raccontare l’orrore, pensare un Dio che sta con la vittima. La concezione della Shekinah, liberata da ogni nazionalismo, può mettere gli ebrei in condizione di avvertire l’umanità offesa dalle bombe, di percepire il Divino negli occhi delle vittime. Di superare quella etnolatria, quella esaltazione violenta dell’identità nazionale che esige lo sterminio del nemico, che si esprime in quel passo del libro dei Numeri.
In una guerra non sempre colui che ha vinto è il vincitore effettivo. Le conseguenze di una vittoria possono essere devastanti. Credo che sia questo il rischio attuale per Israele. Potrà continuare a sterminare la popolazione civile palestinese, con il tacito assenso della comunità nazionale. Ma il prezzo da pagare sarà un imbarbarimento di cui i cori di cui ho detto sono un indizio tangibile e preoccupante, insieme ad altri. A prevalere sarà il Dio degli Eserciti, violento e capriccioso, che esige lo sterminio di donne e bambini. Sarà quella demonizzazione biblica dell’altro che nella storia occidentale ha agito al di fuori dell’ebraismo, e di cui gli stessi ebrei sono stati vittime. Sarà quella crisi religiosa che sempre precede e causa la crisi e la decadenza generale (civile, morale, politica) di un popolo. Che lo conduce nuovamente be-midbar, nel deserto.

L’immagine è tratta da Footnotes in Gaza di Joe Sacco.

Editoriale per Stato Quotidiano.



Israele nel deserto



Con ogni probabilità, il passo più terribile della Bibbia - una raccolta di testi in cui non mancano i passi terribili: violenti, atroci, osceni - è quello del libro dei Numeri (in ebraico Be-Midbar, "Nel deserto") in cui Mosè comanda di sterminare donne e bambini. Consideriamo il contesto. Il popolo del Signore è accampato nel deserto, in una località chiamata Sittim. Qui gli ebrei si mettono a "trescare con le figlie di Moab", partecipando ai loro sacrifici religiosi ed adorando i loro dèi. Il Signore si arrabbia ed ordina a Mosè di far impiccare tutti i capi del popolo, per placare la sua ira. E' singolare che i cristiani, che lamentano (ed a ragione) le persecuzioni cui in diverse parti del mondo sono sottoposti coloro che si convertono al cristianesimo, ritengano sacro un libro in cui si parla di impiccare chi pratica la libertà religiosa - perché di questo si tratta. Ma procediamo. Un certo Fineas, sommo sacerdote, scopre che un ebreo ha portato nella sua tenda una moabita, e non ci pensa due volte: prende una lancia e li uccide. Il Signore è talmente contento per il suo gesto - l'assassinio di due innocenti - che fa cessare la sua ira su Israele. Non prima, però, di aver massacrato 24.000 persone (Numeri, 25, 1-9). L'edizione che sto citando, quella curata da Bernardo Boschi per le Edizioni Paoline, spiega in nota che questo Fineas "testimonia la radicale ed esemplare fedeltà della sua classe allo Jahvismo nello spirito della Tradizione Sacerdotale". Un gran brav'uomo, insomma.
La storia non finisce qui. Gli ebrei hanno tradito Dio, e la carneficina non è sufficiente. Occorre la vendetta. Di cosa siano colpevoli i poveri moabiti non è ben chiaro: usando lo stesso criterio, oggi, i seguaci di qualsiasi religione si potrebbero ritenere in diritto di muover guerra e massacrare chiunque faccia proselitismo presso di loro, a cominciare dai cristiani. Mosè manda contro i madianiti un esercito di dodicimila uomini, che massacrano tutti i maschi, incendiano le città, depredano tutto. Ma i capi dell'esercito risparmiano i bambini e le donne. Per umanità, immagino. Mosè tuttavia si arrabbia: "Avete lasciato in vita tutte le femmine? Furono esse, per suggerimento di Balaam, a stornare dal Signore i figli d'Israele nel fatto di Peor e ad attirare il flagello sulla comunità del Signore. Ora uccidete ogni maschio fra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si sono unite con un uomo le lascerete vivere per voi" (Numeri, 31, 15-17). Tralasciamo quest'ultima notazione, anch'essa terribile (è facile immaginare la fine delle ragazze vergini), e chiediamoci: di cosa sono davvero colpevoli le donne? Cosa hanno fatto, per essere uccise? Hanno seguito la loro religione, esattamente come gli ebrei seguono la loro. Il massacro di queste donne, a battaglia vinta, è un semplice crimine di guerra. Ma soprattutto la domanda è: cosa hanno fatto i bambini? Cosa? Perché massacrarli? Non esiste nessuna ragione. Se il massacro delle donne è un crimine di guerra, il massacro dei bambini è un crimine di guerra al quadrato.
Mi è tornato in mente questo passo guardando un video raccapricciante, disponibile su Internet, nel sito di OummaTv, la televisione dei musulmani francesi. Il video riprende una manifestazione di ebrei, felici per gli attacchi contro i palestinesi. Cantano cori da stadio. A un certo punto intonano: "Il n'y aura pas d'école demain, on a tué tous les enfants". Non ci sarà scuola domani, abbiamo ucciso tutti i bambini.
E', questa, la cosa più spaventosa che ho visto e sentito da gran tempo. Sono sicuro che non sono molti gli ebrei felici per il massacro dei bambini palestinesi, e tuttavia il fatto che una simile barbarie sia possibile, sia pure presso pochi esaltati, dà da pensare. Chi ha letto la Bibbia, sa che c'è un filo rosso che unisce questi cori alla storia sacra di un popolo che ha dovuto strappare con la violenza ad altri popoli la terra promessa dal suo Dio.
Prima che mi si accusi di antisemitismo (una accusa sempre pronta contro chiunque metta in discussione le politiche sioniste), aggiungo che il massacro palestinese mi ha fatto venire in mente un altro testo che appartiene alla tradizione dell'ebraismo. Si tratta di un libretto di Chaim Nachman Bialik, lo scrittore ucraino considerato il poeta nazionale di Israele. Nel 1903 avviene un terribile pogrom a Kishinev, attuale capitale della Moldavia. In due giorni vengono uccisi quarantanove ebrei, mentre cinquecento sono i feriti. Di fronte ad una tale devastazione si resta senza parole. Ma Bialik è un poeta, un grande poeta. E le parole le trova. Nella città del massacro, il poemetto scritto per raccontare, per piangere, per denunciare il pogrom, è poesia pura, vibrante, che tocca le corde più intime e commuove profondamente. Comincia con queste parole, Bialik: "Un cuore di ferro e acciaio, freddo, duro e muto, / batte in te, vieni uomo! / entra nella città del massacro, devi vedere con i tuoi occhi, / toccare con le tue mani..." (trad. R. A. Cimmino). E nel resto del poemetto il lettore in effetti vede con i suoi occhi e tocca con le sue mani l'orrore.
I versi più intensi dell'opera sono quelli nei quali Bialik descrive la Shekinah, "nera, stanca, disperata", che piange in silenzio. Quella di Shekinah è una delle concezioni più affascinanti della teologia e della mistica ebraica. Il termine deriva dal verbo shakan, abitare: indica dunque la presenza, la dimora di Dio sulla terra. Una manifestazione di Dio che ha i caratteri del mistero e della gloria, nella tradizione. Ma con Bialik avviene un cambiamento importante. La Shekinah, la gloriosa manifestazione di Dio, ora si limita a stare accanto alle vittime. Subisce la loro stessa sofferenza, accetta su di sé il dolore degli afflitti. Il pensiero va anche a quella pagina memorabile de La Notte in cui Elie Wiesel racconta di un bambino impiccato ad Auschwitz. "Dov'è Dio?", chiede qualcuno. E Wiesel scrive: "E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: - Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca".
C'è una straordinaria rivoluzione teologica in queste parole. Dio non è più nei cieli, non si manifesta più nella distanza e nella potenza, ma sta accanto a chi soffre. Chi soffre in questo caso è il popolo eletto, ma il passo verso un Dio che sta con chiunque soffra è breve. E' una intuizione - questa di un Dio dei poveri, dei deboli, degli afflitti - che si affaccia in diverse tradizioni religiose: dal cristianesimo (e non a caso alcuni cabalisti troveranno affinità tra la Shekinah e il Cristo) allo hinduismo, con l'idea del Daridranarayana, "Dio nei poveri", che si trova in Vivekananda en Gandhi. La considero la più alta concezione religiosa dopo quella del Dio-non Dio di Meister Eckhart.
Le parole di Bialik si potrebbero leggere, in questi giorni, come un canto che dice la tragedia delle migliaia di palestinesi massacrati dall'esercito israeliano. Un ebreo ha trovato le parole per dire l'indicibile, ed ora quelle parole non gli appartengono più, come non appartengono più al solo popolo ebraico. Rappresentano il contributo del popolo ebraico alla comune umanità: dire la tragedia, raccontare l'orrore, pensare un Dio che sta con la vittima. La concezione della Shekinah, liberata da ogni nazionalismo, può mettere gli ebrei in condizione di avvertire l'umanità offesa dalle bombe, di percepire il Divino negli occhi delle vittime. Di superare quella etnolatria, quella esaltazione violenta dell'identità nazionale che esige lo sterminio del nemico, che si esprime in quel passo del libro dei Numeri.
In una guerra non sempre colui che ha vinto è il vincitore effettivo. Le conseguenze di una vittoria possono essere devastanti. Credo che sia questo il rischio attuale per Israele. Potrà continuare a sterminare la popolazione civile palestinese, con il tacito assenso della comunità nazionale. Ma il prezzo da pagare sarà un imbarbarimento di cui i cori di cui ho detto sono un indizio tangibile e preoccupante, insieme ad altri. A prevalere sarà il Dio degli Eserciti, violento e capriccioso, che esige lo sterminio di donne e bambini. Sarà quella demonizzazione biblica dell'altro che nella storia occidentale ha agito al di fuori dell'ebraismo, e di cui gli stessi ebrei sono stati vittime. Sarà quella crisi religiosa che sempre precede e causa la crisi e la decadenza generale (civile, morale, politica) di un popolo. Che lo conduce nuovamente be-midbar, nel deserto.

L'immagine è tratta da Footnotes in Gaza di Joe Sacco.

Editoriale per Stato Quotidiano.