La scuola difficile
Ho raccolto gli articoli sulla scuola pubblicati negli ultimi anni – dal 2015 – prevalentemente su Gli Stati Generali in un ebook intitolato La scuola difficile, disponibile su tutte le librerie on-line al costo di 3.99 euro (Amazon, IBS, Kobo) .
Di seguito la Premessa.
Raccolgo in questo libro gli articoli sulla scuola che ho scritto nell’arco degli ultimi sei anni, prevalentemente su Gli Stati Generali, nella speranza che il ragionamento sulla scuola che essi tentano, ricondotto ad una qualche unità in una raccolta, possa contribuire, sia pure in misura minima, alla riflessione sulla scuola che abbiamo e su quella che vorremmo o dovremmo creare.
Lo intitolo La scuola difficile, riprendendo il titolo di uno degli articoli, per diverse ragioni.
In primo luogo, quella del titolo è la difficoltà della nostra scuola. È convinzione diffusa che la scuola italiana sia diventata facile, leggera, che abbia perso il rigore e la serietà di una volta. I miei studenti che passano un periodo di studi all’estero sono invece concordi nel percepire la nostra scuola come più difficile. E purtroppo questa maggiore difficoltà non comporta una maggiore serietà o una migliore preparazione. La scuola è più difficile semplicemente perché meno coinvolgente, più noiosa e pesante.
In secondo luogo, la difficoltà è quella della scuola che vorrei e che ritengo necessaria. E anche qui, in due sensi. Il primo è quello che provo a spiegare nell’articolo da cui ho ripreso il titolo (cap. 31). Possiamo fare una scuola più seria non rendendo più pesante il lavoro degli studenti, ma impegnandoci in un lavoro più complesso della routine lezione-compiti-interrogazione, tanto rassicurante (in fondo si è sempre fatto così) quanto evidentemente fallimentare. Ma questa scuola è difficile — ed è il secondo senso — anche perché qualsiasi tentativo di scardinare quell’impianto incontra resistenze fortissime, e spesso condanna all’isolamento ed all’incomprensione.
In questi sei anni si sono succeduti cinque governi: il governo Renzi (fino al dicembre 2016), il governo Gentiloni, il primo e il secondo governo Conte e l’attuale governo Draghi. Sono stati, soprattutto, gli anni della pandemia, che ha sconvolto in modi prima inimmaginabili il nostro modo di vivere e di fare scuola. Sono gli anni in cui la digitalizzazione delle scuole, promossa dal governo Renzi, ha avuto una accelerazione forzata dalla chiusura delle scuole, con la conseguente necessità di passare alla didattica a distanza. I docenti sono stati costretti a reinventarsi, a cercare vie alternative per raggiungere gli studenti, a sperimentare forme diverse di insegnamento. E, inevitabilmente, a riflettere su cosa è scuola e cosa no. La sospensione del setting tradizionale — tradizionalissimo, in Italia — è una occasione storica per interrogarsi sulle alternative. Sono convinto che questo sia il momento migliore per provare a ripensare la scuola. Il momento del ritorno alla normalità, che dev’essere il momento in cui si cerca qualcosa di più, e di meglio, di quella normalità. E tuttavia sono troppo disincantato per non ritenere più plausibile lo scenario tranquillizzante del semplice ritorno alla scuola di prima. Perché, appunto, una scuola altra è difficile.
Alcuni degli articoli qui raccolti hanno un carattere più teorico e presentano, con i limiti di un articolo giornalistico, la mia idea di scuola e di educazione, mentre altri sono più legati alla contingenza, a questo o quella notizia o fatto particolare. Trattandosi di una raccolta di articoli, e non di un saggio unitario, non sono infrequenti le ripetizioni di alcuni temi (ad esempio l’importanza del Service Learning o dell’abolizione dei compiti a casa).
L’idea di scuola che è al fondo di queste analisi è semplice e si può sintetizzare in poche parole: costituire la classe come una comunità in dialogo, passare dalla trasmissione alla ricerca comune, aprire la scuola al territorio e re-istituirla (si veda l’ultimo intervento, uscito su Gli Asini di Goffredo Fofi), formare gli studenti all’impegno, pensare il proprio lavoro di docenti nell’ottica della giustizia sociale, fare educazione, e non solo istruzione, e farla sia cogliendo l’aspetto valoriale dei contenuti culturali (il valore della bellezza nella poesia, nella letteratura, nell’arte; il valore della verità nella filosofia e nella storia; il valore della giustizia nel diritto, e così via), sia curando la relazione con gli studenti, che può essere via per la crescita reciproca solo se è autentica e viva, e non mortificata da quella verticalità burocratico-amministrativa che genera assurdità pedagogiche come la nota in condotta.
Quanto qui scritto è il risultato, anche, del confronto — dialogo ma anche, a volte, scontro — con molte persone, alle quali sono grato. Nominarle tutte sarebbe cosa lunga. Loro sanno. Per approfondire l’idea di scuola qui presentata si può leggere il libro Alternativa nella scuola pubblica. Quindici tesi in dialogo (Ledizioni, Milano 2018) scritto con Fabrizio Gambassi ed esito anch’esso di un lavoro comune fatto con colleghi, studenti e genitori.
L'inciampo ecopacifista
Alcune persone hanno scritto una lettera aperta intitolata Per un cammino ecopacifista, sul tema dei vaccini e del green pass. Poiché tra i firmatari ci sono diversi amici, poiché penso di potermi considerare anch’io ecopacifista, o qualcosa del genere, e poiché tra i primi firmatari c’è anche Nicholas Bawtree, direttore di Terra Nuova, rivista ed editore con cui ho pubblicato un libro, sento di dover spendere due parole.
Farò, anzi, un commento puntuale del comunicato, che nella sua interezza incommentata si può leggere qui.
Come pacifist* ed ecologist*, vorremmo contribuire al dibattito che attualmente infiamma e spacca la società.
Siamo profondamente preoccupat* per la pericolosa polarizzazione e radicalizzazione del conflitto: da una parte i gruppi più violenti ed eversivi che cavalcano il malessere sociale, dall’altra il blocco di potere politico-industriale-mediatico che governa il paese e che impone il suo programma liberista.
Che esista un blocco di potere politico-industriale-mediatico è tutto da dimostrare. Naturalmente siamo in un Paese capitalista, nel quale la ricchezza è distribuita in modo fortemente diseguale, ed esistono potenti gruppi industriali e portatori di interessi privati, alcuni dei quali controllano anche i media. Quello che è contestabile è il concetto di blocco. Non esiste alcun blocco: c’è una società nella quale forze e interessi diversi si scontrano. Non è un dettaglio: dal blocco al Nuovo Ordine Mondiale il passo è breve. Ed è il passo dall’analisi della realtà alla paranoia.
Condanniamo nel modo più fermo i neofascisti ed ogni violenza, e tutti coloro che spalleggiano questi gruppi, chiedendoci perché siano stati lasciati agire impunemente dalle autorità, negli eventi del 9 ottobre a Roma. Queste violenze non fanno altro che delegittimare ogni forma di protesta e sono l’occasione per stringere e limitare il diritto a manifestare (cosa che puntualmente sta accadendo).
Io mi chiederei invece due cose. La prima è come mai chi protesta contro il green pass si trova in piazza insieme ai fascisti. Se nella mia causa convergono i fascisti di Forza Nuova, qualche domanda sulla mia causa me la faccio. La seconda è perché coloro che erano in piazza a manifestare pacificamente, se davvero non avevano nulla in comune con loro, sono rimasti a guardare mentre i fascisti devastavano la sede della Cgil.
Ritenere che le violenze fasciste abbiano fatto comodo per limitare il diritto di manifestare è ancora una volta una interpretazione paranoica. Nessuno sta limitando alcun diritto di manifestare. Oggi stesso nella città in cui vivo si è tenuta una manifestazione contro il green pass, assolutamente incontrastata.
La nostra è una società malata, e non solo a causa della pandemia Covid-19. Una società che ha ereditato, ancor prima del Covid-19, modelli socio-economici e stili di vita insostenibili che incidono fortemente sulla salute delle persone, delle comunità, dei territori e dell’intero Pianeta. Una società centrata su un modello di sviluppo che ha distrutto l’equilibrio tra le persone e l’ambiente, e che alimenta enormi ingiustizie nord-sud del mondo.
Oggi più che mai, è importante coltivare un pensiero critico che metta la salute (nel suo aspetto globale), il rispetto e la nonviolenza al centro del dibattito. Contestiamo quindi la narrazione “bellica” che tende a mettere in un angolo anche il semplice diritto al dubbio.
Abbiamo vissuto con sgomento e preoccupazione le “guerre all’untore” che in Italia si sono scatenate contro coloro che per dubbio, convinzioni o scelte di vita decidono di non affidarsi al vaccino. Come ecopacifist* rigettiamo l’”hate speech”, da ogni parte esso provenga, il linguaggio violento, umiliante, disumanizzante verso chi non la pensa allo stesso modo. Vogliamo favorire l’empatia, il dialogo, l’ascolto.
Dev’essere sfuggito a chi ha scritto questo appello che i manifestanti contro il green pass hanno devastato il pronto soccorso di Roma, ferendo due sanitari e due agenti di polizia.
E sì, il linguaggio violento va sempre evitato. Ma nonviolenza è anche forza della verità. Veniamo da una vera e propria strage. Sono morte più di centotrentamila persone solo in Italia. È come se fosse scomparsa una intera città di media grandezza. Ora, in questo momento una cattiva informazione può uccidere, letteralmente. Mio padre è sopravvissuto al coronavirus grazie alla doppia dose di vaccino Pfizer. Senza vaccino, con la sua età e le sue gravissime patologie, difficilmente avrebbe avuto scampo. Quante persone evitano di vaccinarsi a causa di informazioni distorte, palesemente false, diffuse da persone ideologicamente prevenute verso la scienza? E quante di queste persone moriranno? Dire il falso è linguaggio violento. Perché uccide.
Quanto alle scelte di vita, sarebbero tutte rispettabilissime, se vivessimo su un’isola. Viviamo, invece, in società, siamo in relazione, che ci piaccia o meno. Quello che facciamo o non facciamo ha ricadute sugli altri. Rivendicare le proprie scelte di vita in un periodo così grave, e in base a queste scelte rifiutare quel gesto minimo di responsabilità sociale che è vaccinarsi durante una pandemia, significa aver scelto, di fatto, quella visione iper-individualistica che si attribuisce all’aborrito liberismo. Anche questo ha poco — anzi: nulla — a che fare con la nonviolenza.
Crediamo nel sistema sanitario, una conquista da difendere, e rifiutiamo ogni malaugurata idea di un sistema sanitario dove chi ha “colpe” deve pagarsi le cure.
Nessuno ha seriamente proposto nulla del genere. Basterebbe che i no-vax non aggredissero medici e infermieri.
Purtroppo molti media hanno abdicato al proprio dovere di esercitare un controllo sull’operato del governo e di garantire un dibattito effettivamente pluralista, aperto e trasparente: ragionevoli e accorati appelli contro il greenpass (di docent, student, scrittor* e filosof*), non hanno trovato adeguato spazio nei media “mainstream”.
I media hanno dato tutto lo spazio possibile a scempiaggini come quelle di Agamben e Cacciari.
Anche a nostro parere lo strumento del greenpass (così come è declinato in Italia), è pieno di contraddizioni e fallacie sul piano sanitario, finalizzato a un rigido e burocratico controllo sociale, umiliante e divisivo, oltre a contraddire i principi contenuti nella Risoluzione 2361 (2021) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa e nel Regolamento Ue n. 953/2021.
Sul greenpass e sulle scelte politiche di gestione della pandemia, la differenza tra i singoli Stati, anche all’interno della Unione Europea, è molto forte. Perché quindi non si può discutere e criticare apertamente questa misura, che non è, come spesso si dice “scientifica” ma meramente “politica”?
A proposito di cattiva informazione. La Risoluzione 2361 del Consiglio d’Europa raccomanda di “ensure that citizens are informed that the vaccination is not mandatory and that no one is under political, social or other pressure to be vaccinated if they do not wish to do so” (qui). Ma il Consiglio d’Europa non è l’Unione Europea. È una organizzazione internazionale che si occupa di diritti umani, i cui documenti non hanno alcun valore vincolante. Quanto al Regolamento 953 dell’UE, si fa riferimento all’art. 36. Che però non è un articolo, ma un “considerando”, privo di qualsiasi valore normativo; e peraltro non si riferisce ai green pass nazionali, ma all’EU Digital COVID Certificate.
L’11 ottobre il Collettivo Lavoratori Portuali di Trieste e Genova (gli stessi che negli ultimi anni hanno incrociato le braccia al traffico di armi diretto in Arabia Saudita), ed i sindacati di base hanno indetto uno sciopero generale, anche (ma non solo) contro il greenpass. Tra le altre richieste avanzate, che noi condividiamo, il reddito universale, la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, il rilancio dello Stato sociale, investimenti nella scuola pubblica, nella sanità pubblica, potenziamento del trasporto pubblico, sicurezza vera sul lavoro.
A proposito di fallacie. Il fatto che i lavoratori portuali abbiano incrociato le braccia quando si trattava di traffico d’armi dovrebbe garantire che ora hanno ragione? Si può avere ragione in un caso e torto nell’altro. In ogni caso, i portuali di Livorno — e nessuno apprezza la libertà più di un livornese — si sono opposti alla protesta contro il green pass.
Rivendichiamo un pensiero critico sulla pervasività degli interessi economici e politici nella medicina e nella sanità, sull’invadenza del digitale e delle tecnologie del controllo, sul mito della crescita economica infinita, sulla deriva scientista che si accanisce contro visioni del mondo e approcci di cura considerati non conformi.
Ma non ci si rende conto degli abusi che la difesa di approcci di cura considerati non conformi può consentire? Non ci si rende davvero conto di quante persone, con questo mito delle cure alternative, possono finire nelle mani di cialtroni di ogni genere e rimetterci la vita?
Può essere che ci sia una deriva scientista. Ma c’è anche, ed è vistosa e ben più pericolosa, una deriva antiscientifica. Che peraltro alimenta anch’essa un mercato fiorentissimo.
Se davvero la salute non è solo assenza di malattia ma presenza di uno stato di benessere psico-fisico che va dalle persone alla comunità, allora la via d’uscita è nella rivisitazione globale dei nostri stili di vita (e quindi politiche che sappiano indirizzare e favorire queste scelte, modificando l’attuale sistema economico senza lasciare impuniti i crimini ambientali che minacciano la salute pubblica).
Ah, certo, ci mancherebbe. Ma intanto c’è una pandemia. E una pandemia la fermi solo con i vaccini, in attesa che sette miliardi di persone cambino i loro stili di vita.
Si è più in salute mangiando cibo sano, locale, modificando radicalmente il nostro modo di muoverci e rapportarci alla terra, riducendo la nostra impronta ecologica, i nostri frenetici e consumisti stili di vita, praticando la sobrietà e la lentezza, organizzando vere e proprie comunità educanti, rafforzando la medicina di base.
La capacità di accettare i limiti che ci impone la natura ci condurrà ad un nuovo equilibrio sociale ed esistenziale, con l’ambiente e con gli altri popoli del mondo.
Ho come l’impressione che questo quadretto idilliaco comprenda la morte di qualche milione di persone, messe sotto la voce accettazione dei limiti. Sarebbe bello, davvero, se la natura benevola offrisse a tutti i suoi doni eccetera. Non è così. Viviamo in un ambiente che può essere molto ostile. Abbiamo, per difenderci e sopravvivere, gli strumenti dell’intelligenza: la tecnica — dalle pietre scheggiate alla farmacologia — e la scienza. E abbiamo un altro strumento, che ci accomuna al mondo animale: l’unità. Quando sono aggrediti da qualsiasi realtà esterna, gli esseri di qualsiasi specie reagiscono compatti, facendosi forza con la resistenza comune. È quello che sta facendo la specie homo sapiens di fronte al coronavirus. Tranne alcuni che si riempiono la bocca con parole come comunità, ma in realtà sono disperatamente individualisti.
Siamo più in salute se ci prendiamo cura del territorio in cui viviamo, se anche la scuola diventa più democratica, esperenziale e all’aperto, (da qui l’importanza di spazi verdi, cortili, parchi e giardini anche in città), un luogo dove educare al pensiero critico, alla cittadinanza attiva, a sani stili di vita.
Fuori tema, si direbbe.
Purtroppo la gestione securitaria e fobica della pandemia rischia di schiacciare questo cammino, costringendoci ancora più di prima dentro vite segnate dal predominio della tecnocrazia, della farmacologia e della medicalizzazione spinta.
La gente acquista quotidianamente una quantità di prodotti farmacologici — per lo più integratori: compresi quelli naturali — di cui non ha alcun bisogno. Lo fa per propria scelta. E vogliamo parlare di medicalizzazione spinta quando di fronte a una pandemia si chiede alla gente il gesto minimo di vaccinarsi?
Il continuo martellamento di messaggi ansiogeni, repressivi e colpevolizzanti ha contribuito ad aumentare sindromi depressive, consumo di alcool e psicofamaci.
Dunque se vedo che ti sta cadendo in testa una tegola devo evitare di dirtelo, perché altrimenti ti metto ansia. Le persone cadono in depressione e cominciano a bere perché qualcuno dice loro che sarebbe cosa buona e giusta se si vaccinassero? E su cosa si basa quest’affermazione? Cos’è, se non una colpevolizzazione di chi invece sostiene che vaccinarsi è doveroso?
La scuola è sempre più “ingessata” e chiusa in sé, con progetti e realtà educative innovative (ricordiamo ad es. Bimbisvegli), bloccate da regole senza senso.
Fuori tema.
Oltretutto queste imposizioni controproducenti ed ingiuste, esasperano gli animi e rendono le persone insofferenti anche ai “limiti ambientali” che multinazionali e mafie calpestano quotidianamente in totale impunità. Limiti all’inquinamento e al consumo che saranno sempre più necessari per fronteggiare l’emergenza climatica ed ambientale.
Oh, vediamo. Dunque i poveri no-vax, esasperati da “imposizioni controproducenti e ingiuste”, non solo diventano depressi e cominciano a bere e prendere psicofarmaci, ma si fanno per giunta insofferenti anche a qualcosa che non ho capito bene, se proprio devo essere sincero. Quello che è chiaro è che questa persone stanno male. Mi spiace per loro. Dev’essere per questo che devastano un pronto soccorso. Direi che occorre fornire loro assistenza psicologica, ma mi si accuserebbe di medicalizzare.
Abbiamo bisogno di ripartire dalla salute globale di ogni essere vivente, dobbiamo creare le condizioni per iniziare un nuovo cammino, contrastando il dominio di un capitalismo che non potrà mai avere un volto umano.
Non vogliamo arrenderci a una deriva che schiaccia i mondi diversi possibili o già praticati, vogliamo disegnare un nuovo umanesimo ecologista, pacifista e antifascista.
Torna il quadretto idilliaco, che spiega alla perfezione perché c’è bisogno di una seria revisione critica della nonviolenza. Una visione ipersemplificata del reale, di una ingenuità disarmante: da una parte tutto il bene — la natura, la comunità, la lentezza — dall’altra tutto il male: il capitalismo, il liberismo, la tecnica. Non è proprio così semplice. Una casa farmaceutica persegue interessi commerciali, dunque i farmaci sono un male, dunque il vaccino va evitato. Ma una casa farmaceutica è anche il lavoro, la ricerca, la passione di centinaia di persone. La salute globale di ogni essere vivente? Credo fermamente nel valore di ogni essere vivente, ma sono consapevole che non posso vivere senza distruggere quotidianamente una certa quantità di vite. Vite vegetali, che evidentemente nella percezione comune non sono vere vite; e invece lo sono. Non siamo in un mondo ideale. Non esiste nessuna natura benigna. Lo sapeva bene Aldo Capitini, che parlava della necessità di andare oltre la natura-vitalità. Così come sapeva che essere nonviolenti significa stare nella lotta, non tirarsene fuori usando la semplice evocazione di un mondo un sacco bello, nel quale tutto va magicamente a posto.
Proviamo a camminare insieme.
L’importante è non inciampare.
Valutare e valorizzare
“Ogni inizio contiene una magia”, scriveva Hermann Hesse nel Gioco delle perle di vetro. Ed è una affermazione che per me vale soprattutto per quel nuovo inizio che è il primo giorno di scuola. Che è il momento in cui maggiormente mi fermo a domandarmi — a ri-domandarmi — perché insegno: e cosa vuol dire insegnare. Quando prendo una classe nuova, passo i primi giorni a interrogarmi sulla questione con gli studenti.
Lo scorso anno l’ho chiuso come commissario interno all’esame di Stato. Una esperienza che è l’esatto contrario del primo giorno di scuola. Se questo ha la freschezza degli inizi e la fragranza della possibilità di cambiamento, l’esame di Stato ha la tristezza atroce del giudizio finale con i vincitori e in vinti; il momento nel quale l’istituzione celebra la sua istituzionale ottusità.
Ho passato l’estate a cercare di riprendermi moralmente dagli esami. E a riflettere, ancora e ancora. In particolare, dopo aver passato giorni a chiudere esistenze e storie in un numeretto, a domandarmi cos’è valutare.
La questione della valutazione comprende tre aspetti.
Il primo è quello della selezione lavorativa. Qualunque idea di scuola si abbia, non si può negare che il suo compito sia anche quello di formare persone che occuperanno un certo posto nella società, ed è importante che abbiano sufficiente motivazione e preparazione per farlo. In genere si fa attenzione al secondo aspetto; per me il primo è anche più importante. Preferisco che nel campo sociale, ad esempio, lavori uno studente fortemente motivato anche se non preparatissimo piuttosto che uno con una preparazione approfondita ma privo di empatia.
Il secondo aspetto è quello che potremmo chiamare dell’adempimento disciplinare. A scuola si insegnano diverse discipline. Ogni disciplina ha i suoi argomenti e i suoi obiettivi da raggiungere. Si valuta lo studente in base al raggiungimento di questi obiettivi. Questi due primi aspetti sono legati in modo problematico. La scuola ritiene che valutare l’adempimento disciplinare dello studente serva al contempo a selezionare buoni lavoratori. Il mondo del lavoro non la pensa proprio così, e chiede a gran voce che il modo di insegnare e di valutare cambi, lasciando più spazio alle competenze. La scuola reagisce stizzita, affermando che il suo compito è formare la persona, e non selezionare lavoratori.
Il terzo aspetto è quello della valorizzazione. Lo studente è un futuro lavoratore ed uno che deve apprendere diverse discipline, ma è anche e soprattutto una persona che sta crescendo, e che in questo percorso difficile va aiutato a tirare fuori il meglio di sé, e prima ancora ad apprezzare quello di buono che già ha in sé.
Ritengo che questo terzo aspetto sia quello più importante. Se ripenso al mio percorso educativo e scolastico, mi accorgo del fatto che avrei avuto bisogno soprattutto di questo, da parte della scuola. Non sono stato uno studente facile, perché non facile era il mio contesto. Studiavo molto, ma per conto mio; solo raramente le lezioni scolastiche intercettavano i miei interessi. Al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in tre materie. Una di queste era la lingua francese, che ho sempre amato moltissimo. Un’altra era arte. La mia prima scelta, per le superiori, ero stato i Liceo Artistico. Mi piaceva molto disegnare, ed ero anche piuttosto bravo. È evidente che dietro quelle insufficienze c’era qualcos’altro.
Alle superiori ho incontrato per lo più docenti che mi disprezzavano. Qualcuno di loro cercava anche di convincermi ad abbandonare la scuola. Il professore di musica riteneva che se avessi lasciato avrei potuto poi a diciott’anni fare il concorso in polizia — l’ho poi fatto davvero, superandolo anche — , mentre quello di matematica pensava, chissà perché, a una carriera da fotomodello. Quello che loro vedevano era uno studente che non studiava. Che non studiava quello che loro gli dicevano di studiare. E che per giunta aveva in classe un atteggiamento provocatorio; che al docente che gli chiedeva se stesse seguendo la lezione rispondeva con sincerità: no. E che per questo veniva invitato ad accomodarsi fuori dall’aula.
Poi è arrivato il professor Abbatangelo. Un vecchio professore di pedagogia, che evidentemente vedeva quello che agli altri sfuggiva. Non studiavo pedagogia. Va bene. Cosa studiavo? All’epoca ero immerso nello studio della filosofia indiana: la Bhagavadgita e il Vedanta. Se lo fece bastare. Mi interrogò sulla filosofia indiana, presi un gran bel voto. E cominciai a studiare pedagogia.
Che era successo? Era successo che il professor Abbatangelo mi aveva visto. Aveva visto, per la precisione, due cose. In primo luogo, me fuori dall’aula: i miei interessi, le mie domande. E poi aveva visto il mio altro. Non quello che ero, ma quello che potevo essere.
Chi insegna, chi educa, dovrebbe avere uno sguardo fertile. Dovrebbe guardare l’altro con occhi che fanno nascere cose, che scorgono le possibilità, che individuano i semi. Diseducatore è chi getta sull’altro uno sguardo che pietrifica. (“Studente con scarsa intelligenza”, aveva annotato sul suo registro la mia professoressa di latino. E questo nonostante il latino fosse praticamente l’unica disciplina nella quale avevo voti alti.)
Mi piace pensare alla scuola come il luogo in cui docenti, dirigenti, collaboratori scolastici siano sinergicamente impegnati a valorizzare gli studenti. Di fatto, questo avviene poco. E non solo perché la scuola è una istituzione che non riesce ancora a liberarsi dalle sue origini autoritarie e l’umiliazione dello studente, in forme aperte o subdole, è ancora pratica diffusa, ma soprattutto perché qualsiasi forma di riconoscimento avviene nell’alveo delle discipline. Quello che conta, alla fine, è che lo studente studi italiano, matematica e filosofia. Se lo fa è bravo, se non lo fa, non è bravo. Tutto qui. Un docente sensibile potrà incoraggiare lo studente in difficoltà, valorizzare i suoi punti di forza, sostenere la sua autostima, ma sempre nel cerchio della disciplina.
Cosa c’è che non va? Non è giusto che sia così? No, non lo è, e vediamo perché.
Lo studente X è arrivato in Italia da due anni. Prima di giungere da noi ha vissuto per diversi anni in un altro paese europeo. Conosce bene quattro lingue: la lingua madre, l’italiano, la lingua del paese in cui è vissuto e una quarta lingua che ha studiato nel suo paese natale. Ha una ricchezza linguistica che nessun altro studente ha nella sua classe. Ma non ama l’inglese. Se la cava male. Per la scuola, lo studente X è linguisticamente insufficiente. Ma non è così.
Consideriamo un altro caso. Questa volta mi permetto un ricordo. Anni fa uno studente russo di una mia prima giunse in ritardo alla prima ora. Per scherzo gli dissi che non potevo fare a meno di punirlo: avrebbe dovuto recitarmi una poesia russa a scelta. Lui ne fu felice, e cominciò a declamare dei versi di Puškin. Avrei scoperto poi che aveva una conoscenza molto approfondita della letteratura russa, ossia di una parte significativa della cultura mitteleuropea.
La scuola guarda gli studenti attraverso i suoi occhiali, che sono quelli disciplinari. Tutto ciò che non rientra in una delle discipline previste dall’indirizzo, semplicemente non esiste. La valutazione è il risultato della somma dei diversi sguardi disciplinari sullo studente. Il risultato è che la scuola è miope. E gli studenti lo sanno; una buona parte del loro malessere viene da qui. La scuola non li vede, se non nella misura in cui loro si scolarizzano. Se prendono la forma che la scuola richiede per guardarli. Uno studente figlio di genitori stranieri, ad esempio, non è in alcun modo invogliato dalla scuola a mantenere un contatto con le sue radici culturali. Le lingue e le culture nigeriana, o albanese, o romena non rientrano nel piano degli studi, e dunque non esistono. Sono una faccenda privata dello studente e della sua famiglia. L’integrazione dello studente straniero si riduce a organizzare corsi di italiano come L2; un processo unidirezionale, che non prevede alcuno scambio culturale, e dunque nessun riconoscimento reciproco.
Il tutto è più della somma delle parti. Difficile valutare uno studente procedendo per addizione, ma soprattutto difficile valorizzarlo in questo modo. Alla scuola manca una figura che segua, ascolti, guardi lo studente al di là delle discipline. Un tutor — la parola mi piace poco, ma non è questo il punto — che affianchi i docenti nella valutazione, offrendo una conoscenza più ampia che nasce anche dal confronto con la famiglia e dalla considerazione del contesto culturale. O forse manca semplicemente il coraggio di ripensarsi come una istituzione realmente educativa.
Le religioni sono violente?
“Un mondo senza religioni sarebbe un mondo più bello e meno violento?”, si chiede su Gli Stati Generali il pastore battista Gabriele Arosio. E posta così, la questione difficilmente può trovare risposta. In primo luogo, perché non è affatto facile distinguere cosa è religione e cosa non lo è. Il concetto di religione è occidentale; siamo sicuri che il dharma degli hinduisti, per non fare che un esempio, sia esattamente la stessa cosa? E il Confucianesimo cos’è? Confucio parla pochissimo di questioni ultime, e molto di etica. Sembra più un filosofo che un fondatore di religioni; ma del resto lo stesso concetto di filosofia è occidentale.
Ammesso anche che cristianesimo, islam, buddhismo e confucianesimo possano essere concepiti insieme come religioni, non ha molto senso parlarne all’ingrosso. Bisognerebbe chiedersi quanta violenza vi sia in ciascuna di essere, piuttosto che ritenere che meritino di stare in piedi o debbano cadere tutte insieme.
Ma più che di religione, sarebbe soprattutto il caso di parlare di Weltanschauung, visione del mondo. Noi esseri umani abbiamo una serie di bisogni, ben sintetizzati dalla piramide di Maslow. Abbiamo bisogno di mangiare e bere, di coprirci, di essere al sicuro, di realizzarci, di essere amati. Ma abbiamo anche un bisogno fondamentale, senza il quale la vita può essere difficile. Abbiamo il bisogno di inserire la nostra esistenza individuale in un contesto di significato che la inquadri e le dia una direzione, di una visione del mondo, appunto, che sia in grado di rispondere alle fondamentali domande di senso. Proprio perché una Weltanshauung risponde a un bisogno fondamentale, quando qualcosa, dall’esterno o dall’interno, la minaccia, accade la violenza. È la violenza che ha insanguinato l’Europa quando la visione del mondo della società tradizionale medioevale è stata messa in crisi dall’ascesa della borghesia e dallo sviluppo scientifico. Un cambiamento doloroso, che ha consentito però all’Occidente uno sviluppo tecnologico che ha travolto il resto del mondo. A persiani, indiani, cinesi l’Occidente appariva come un mostro irresistibile, che con il proprio potere militare, ma ancora di più con il fascino della propria civiltà, che si proponeva come l’unica evoluta, minacciava di annullare semplicemente mondi culturali millenari. Di qui la resistenza. Di qui la violenza. Perfino Gandhi giunge a distruggere pubblicamente i prodotti inglesi, in nome dello swadeshi, la valorizzazione dei prodotti e della cultura locale. In Iran prima della Rivoluzione islamica si diffonde il concetto di gharbzadegi, che si può tradurre con intossicazione occidentale. Espressione efficacissima: l’Occidente è percepito come un veleno che intossica e uccide tutte le civiltà diverse dalla propria.
Di qui la violenza. Che non è propriamente religiosa. È la violenza di qualsiasi civiltà che vede minacciata la propria visione del mondo. Anche religioni che predicano le forme più radicali di nonviolenza possono diventare violente in certe circostanze; lo dimostra, per non fare che un esempio, il Bodu Bala Sena cingalese.
Questa è una prima risposta. Una seconda risposta è che nella visione del mondo religiosa, come in qualsiasi visione del mondo, possono esserci semi di violenza, che in qualche caso sono evidenti, in altri meno.
La Chiesa cattolica negli ultimi decenni ha da un lato ammesso i propri errori passati, dall’altro aperto al dialogo con le altre religioni. Due cose senz’altro lodevoli; ma manca qualcosa. Manca ciò che è più urgente: comprendere le radici della violenza. Perché i cristiani hanno massacrato così tanto? Perché il cristianesimo è stato così feroce, se il Cristo insegna l’amore del prossimo? Come si spiega, per restare a tempi recenti, il genocidio degli indiani canadesi nelle scuole residenziali cristiane, per lo più cattoliche?
La mia risposta a questa domanda è che il Cristo ha insegnato l’amore, ma ha insegnato anche che c’è il Diavolo. E che c’è chi è con lui e chi è con il Diavolo. Dividendo in questo modo l’umanità in due, ha gettato le premesse terribili di qualsiasi violenza verso chiunque non rientrasse nella piena ortodossia e nella rassicurante identità del maschio bianco cristiano.
Questo è il seme violento del cristianesimo. Altre religioni hanno altri semi violenti. Ed è compito di chiunque voglia la pace, prima ancora di tendere la mano a chi segue un’altra religione, analizzare senza alcuna pietà la propria religione (ma anche: della propria visione del mondo, sia pure essa ateistica) e cercare in essa l’origine del male e della violenza.
La vita umana non è sacra
“La mia vita appartiene a me” è lo slogan scelto per la campagna referendaria Eutanasia Legale. Ed è uno slogan che appare pieno di buon senso. “A chi appartiene la tua vita? È una domanda che più retorica non si può. A chi vogliamo che appartenga? La vita appartiene a chi la vive. C’è forse altra possibilità?”, scrive Paolo Flores d’Arcais su Micromega. E certo, viene da essere d’accordo, contro chi afferma che la nostra vita appartiene a Dio. Una visione legittima per il credente, per quanto assolutamente discutibile come tutte le affermazioni dei credenti; ma che è inaccettabile che condizioni anche chi credente non è.
Ma la mia vita appartiene davvero a me? È chiaro che qui con vita non si intende la possibilità di decidere con assoluta libertà come passare il nostro tempo. Vivere nella nostra società vuol dire accettare tacitamente che gran parte della nostra giornata sia impegnata a fare cose che non faremmo volontariamente, per guadagnarci, appunto, da vivere. La vita vera e propria è quella del tempo libero. Che spesso, nella nostra società, è tempo invaso dalla manipolazione dei consumi. Se ci fermassimo a chiederci quando accade che la nostra vita appartenga davvero a noi, non riusciremmo probabilmente a trovare una risposta. E questo ci metterebbe molta angoscia.
Ciò che si intende con vita è qui, invece, il fatto di essere vivi e non morti. E si intende: la decisione se continuare a vivere o farla finita spetta solo a noi; è una nostra scelta libera. Ma proviamo a chiederci ancora: è proprio così? Ognuno ha la libertà di suicidarsi, e questo è innegabile. Di fatto, la vita appartiene a noi, in condizioni normali. In qualsiasi momento possiamo decidere di farla finita. Oggi il solo parlare di suicidio suscita un grave imbarazzo, ma nell’antichità l’arte di suicidarsi, per così dire, faceva parte dell’arte di vivere.
Ma, al di là della nostra incontestabile libertà, abbiamo anche il diritto di suicidarci? Spesso sì. Qualche volta no. Sappiamo bene che togliendoci la vita arrecheremo sofferenza alle persone che ci vogliono bene, ma nessuno può continuare una vita penosa solo per evitare a chi gli è vicino di soffrire. Diverso è il caso di chi abbia uno o più figli non autosufficienti. In questo caso, quali che siano le sofferenze che proviamo, abbiamo il dovere di continuare a vivere per prenderci cura della persona o delle persone che abbiamo messo al mondo.
Ci sono casi, dunque, in cui la vita non appartiene a noi, nel senso proprio della semplice esistenza fisica; in cui suicidarsi è una colpa. In altri casi, invece, il suicidio ha perfino un valore etico.
Accennavo alla posizione degli antichi sul suicidio. Seneca dedica una intera lettera a Lucilio a consigliargli il suicidio, quando è il momento opportuno. Con parole che ricordano lo slogan della campagna referendaria. Placet? Vive. Non placet? Licet eo reverti unde venisti (Ad Lucilium, VIII, 15). Se la vita ti piace, vivi. Se la vita non ti piace, torna da dove sei venuto. Semplice. Poco oltre Seneca racconta il caso di un uomo che stava per essere condotto sul patibolo per lo spectaculum del suo supplizio, e che riuscì ad uccidersi incastrando la testa fra i raggi della ruota del carro (ivi, 23).
Si direbbe che quest’uomo, infliggendosi da sé una morte atroce, abbia evitato a sé stesso sofferenze anche maggiori, agendo dunque in modo intelligente. O che abbia voluto semplicemente appropriarsi della propria morte.
Ma c’è forse qualcosa d’altro.
Quando qualcuno viene condotto su un patibolo e sottoposto al supplizio davanti a una folla che gode dello spectaculum, accadono due cose. La prima è che si arreca sofferenza a un uomo o a una donna. Una cosa atroce, ma individuale. La seconda è che si offende l’umanità. Ogni atto di violenza compiuto su un essere umano è un’offesa all’umanità. Auschwitz non è solo la sofferenza individuale di milioni di ebrei, zingari, omosessuali. Auschwitz è una ferita profonda inferta all’umanità. E una ferita profonda viene inferta ogni volta che si arreca sofferenza inutile a qualcuno. Ogni volta, ad esempio, che si getta qualcuno in una cella, a vegetare, inutile a sé stesso e agli altri, preclusa ogni via di crescita umana.
La sofferenza inutile è un’offesa all’umanità di tutti, e per questo l’eutanasia è un bene. Non si tratta di rivendicare, in un’ottica individualistica, la proprietà della nostra vita, ma di affermare, in una prospettiva transpersonale e comunitaria, il valore, la dignità, l’intoccabilità della vita di tutti.
Ogni volta che si fa del male a un essere umano, si fa del male all’umanità. Il film Schindler’s List ha reso noto il detto, tratto a dire il vero molto liberamente dalla Mishnà, che “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Il principio si trova formulato con grande chiarezza nel Corano (sura 5, 32, traduzione di Hamza Roberto Piccardo):
Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità.
Cosa vuol dire quel come se? Naturalmente chi salva la vita di un uomo o una donna ha salvato di fatto, solo quella vita. Ma al tempo stesso ha affermato il valore, la dignità, l’importanza della vita. Ha affermato, e difeso, qualcosa che va al di là di quella singola vita, e che riguarda tutti. Mandare in un campo di sterminio sei milioni di persone non vuol dire solo massacrare quelle persone. Vuol dire affermare il principio della massacrabilità dell’essere umano.
Potremmo affermare il principio della non massacralità della vita umana. E sembra che siamo molto lontani da quel principio della qualità della vita umana che ispira la bioetica laica e giustifica anche l’eutanasia. Se la vita umana non è massacrabile, non vuol dire che è sacra? E non è la sacralità della vita umana il principio in base al quale i cattolici rifiutano l’eutanasia?
Il verbo massacrare indica tanto l’uccidere quanto il fare del male a qualcuno. Massacrare di botte è espressione corrente. Una persona è massacrata quando viene uccisa, ma anche quando è torturata. Affermare la non massacrabilità di un essere umano significa rifiutare che possa essere torturato. E le condizioni nelle quali si parla di eutanasia in questo consistono: in una tortura. Lo spiegava benissimo Piergiorgio Welby, raccontando la sua vita su un letto d’ospedale nella nota lettera aperta all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
L’eutanasia va riconosciuta perché nessun essere umano dev’essere massacrato. Non è un diritto o una questione individuale. Non solo almeno. Non si tratta di rivendicare il possesso della propria vita. Si tratta di difendere l’umano dalla violenza.
È nota l’ambivalenza del sacro. Affermare che la vita umana è sacra è estremamente rischioso. Perché il passo dal sacro al sacrificio è breve. Ed è un passo terribile. Nella Bibbia ciò che è consacrato a Dio (herem) dev’essere distrutto: ucciso.
Nessuna persona votata con anatema può essere riscattata; sia messa a morte. (Levitico, 27, 29).
È con questo dispositivo violento che Israele ha sterminato i suoi nemici, sacrificandoli al proprio Dio.
I cattolici possono, se vogliono e se a loro piace, offrire come sacrificio la propria sofferenza inutile al loro Dio. Ma non hanno il diritto di sacrificare al loro Dio la vita di chi non crede. Perché di questo si tratta. Affermare la sacralità della vita umana come principio astratto si risolve in concreto nella condanna alla sofferenza di esseri umani votati a un Dio ormai improbabile, e tuttavia ancora pericoloso per tutti.
Insegnare è una stronzata?
Consentitemi di scusarmi subito per il titolo inelegante. E di spiegare. La parola stronzata traduce l’inglese bullshit; chiedendomi se l’insegnamento sia una stronzata mi riferisco alla analisi fatta dall’antropologo David Graeber dei bullshit jobs [1]: i lavori-stronzata, appunto. Chi fa un lavoro-stronzata — nell’edizione italiana del libro di Graeber si traduce pudicamente “lavori del cavolo” — se ne accorge, non c’è bisogno che giunga un antropologo a dirglielo: perché la prima caratteristica di un lavoro-stronzata è che il lavoratore torna a casa, la sera, e sente di non aver dato nessun contributo alla società. È evidente che il lavoro dello spazzino, dell’idraulico, dell’operaio, del benzinaio non sono stronzate. Ognuno di loro può essere sicuro di aver dato il suo piccolo contributo alla società, anche se la società non sembra riconoscerlo granché. In molti altri casi non è così facile raggiungere questa sicurezza. Graeber si sofferma sulla figura dei barracaselle (box tickers), “quei dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire a un’organizzazione di affremare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo”. Un barracaselle è una persona che compila schede, stila rapporti, riempie carte che nessuno userà mai, che sono nulla più che adempimenti formali.
Lo schwa renderà la nostra società meno sessista?
La proposta, avanzata dalla sociolinguista Vera Gheno, di introdurre lo schwa, una vocale media che si trascrive con una e rovesciata (ə), per superare il sessismo della lingua italiana, è oggetto di polemiche anche piuttosto accese, in particolare sui social network. Le obiezioni più violente vengono da chi rigetta i valori che sono dietro la proposta, ma non manca chi la rifiuta in nome della sacralità ed intangibilità della lingua italiana. Io condivido pienamente i valori e non ho alcuna sacra venerazione per la lingua — ritengo piuttosto che la lingua vada presa d’assedio, che ogni singola parola vada interrogata come si fa con un indiziato di reato — ; la mia condizione di persona che ha come madre lingua un dialetto caratterizzato da un uso perfino infestante dello schwa mi suggerisce però qualche considerazione critica.
L'eccellenza e le macerie
In occasione della consegna dei diplomi di licenza tre normaliste, Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, hanno letto un testo che è una denuncia della deriva non solo della Normale di Pisa, ma dell’intero sistema universitario italiano (qui il testo, qui il video della lettura). Un testo che non commento, perché ho davvero poco da aggiungere. Mi piace invece dire due o tre cose sulla replica che un altro ex normalista, Claudio Giunta, ha scritto per il Post.
“Tu non esisti”
Esordisce, Giunta, con un’affermazione incredibile: “Quattro o cinque anni di frequenza universitaria come studentesse e studenti non bastano, di per sé, a mettere queste studentesse e studenti nella condizione di dire cose particolarmente profonde o interessanti sull’università”. Chi è legittimato a parlare di università? Solo i docenti, in virtù della loro vasta esperienza? Quale esperienza particolare occorre per notare, come fanno le tre normaliste, che solo tre donne su tredici membri siedono nel Senato Accademico della Normale? Che “di 10 professori ordinari nella classe di Lettere, nove sono uomini” è una informazione che uno studente può ottenere facilmente, e che forse solo uno studente — non i nove ordinari maschi, e ancor meno forse l’ordinaria donna — può sottolineare. Tacendo del fatto che molti docenti hanno difficoltà ad esprimere opinioni critiche sul sistema perché temono ritorsioni personali, è surreale che in un Paese in cui non manca la predica quasi quotidiana sulla scuola o l’università di persone di assoluta incompetenza sul tema si ritenga non titolato un diplomato della Normale, ossia uno studente che ha seguito il percorso di studi che più di qualsiasi altro dovrebbe mettere in grado di analizzare i fatti sociali in modo critico.
Che quello che degli studenti hanno da dire sull’università contenga “una verità che non merita neppure di essere sottoposta a verifica e discussione” — come scrive ancora Giunta— è una affermazione rivelatrice nella sua arroganza. Di fatto, agli studenti italiani non viene chiesto mai di esprimersi sulla istituzione che vivono quotidianamente; sono clienti, non attori, del sistema. Nella linguaggio della Scuola di Palo Alto la premessa di Giunta è una disconferma. Che consiste non nel criticare gli argomenti dell’interlocutore, ma nel negarlo. Nel dirgli: “Tu non esisti”.
Un sistema di sfruttamento
Ma Giunta è generoso, e impiega qualche riga per criticare le cose scritte e dette dalle tre normaliste che non esistono. Il centro della sua critica è che le cose che esse dicono non sono particolarmente nuove e che è superficiale ricondurre i problemi di cui parlano al neoliberismo. Ora, ritengo che uno dei problemi della discussione attuale sulla scuola sia l’accusa arbitraria di neoliberismo, quella che chiamo reductio ad Hayekum. Convinti che sia in atto da anni un attacco neoliberista alla scuola pubblica, si rifiuta sdegnosamente qualsiasi cambiamento, vedendovi — spesso con vere e proprie acrobazie interpretative — una tessera del piano neoliberista; ed è così che, in nome della lotta al neoliberismo, si finisce per chiudersi nell’immobilismo della scuola cattedra-lezione. Ma Giunta cade nell’errore opposto. E’ naturale che l’università non sia un ambiente pienamente plasmato da logiche neoliberiste. Non lo è nemmeno la scuola secondaria. L’impostazione di base del nostro sistema di istruzione viene da lontano e certo non si trasforma da un giorno all’altro. Ma bisogna essere molto distratti per non vedere quello che sta succedendo. Lo denunciano le tre normaliste, e Giunta lo relativizza mettendolo quasi tra parentesi, con una strategia argomentativa da strapazzo. L’università è sotto-finanziata. Aumentano le posizioni a tempo determinato. I ricercatori, che prima erano a tempo indeterminato, ora hanno un contratto triennale rinnovabile per due anni una sola volta (se di tipo A) o non rinnovabile (se di tipo B). I ricercatori non si occupano solo di ricerca, ma insegnano. Moltissimi di loro lo fanno pur essendo stata rifiutata loro l’Abilitazione Scientifica necessaria per essere docenti. In sostanza lo Stato, attraverso l’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), dichiara che questi ricercatori non hanno la maturità scientifica necessaria per insegnare all’università; e tuttavia è essenziale per le università che questi ricercatori continuino ad insegnare. Umiliati e pagati meno di quanto spetterebbe loro per il lavoro che fanno. Ci sono poi i docenti a contratto, che tengono insegnamenti ma sono pagati in modo assolutamente simbolico, quando sono pagati: perché ci sono anche università che non pagano affatto i docenti a contratto.
Ricercatori, docenti a contratto, assegnisti, borsisti, dottorandi sono soggetti sfruttati a diverso titolo dall’università italiana. E non è difficile immaginare che succederebbe se queste figure scomparissero: le università chiuderebbero. Le università vanno avanti grazie allo sfruttamento del lavoro di migliaia di persone. A Giunta non piace che si parli di neoliberismo? Lo chiami come preferisce. Ma è un problema. Non astratto o teorico, ma che ha a che fare con la vita di molte persone. Vero è che molti docenti, anche indegni, sono “inamovibili”, come dice Giunta. Ma questo non dimostra che si tratta di un sistema garantito, e quindi opposto alle logiche neoliberiste. Dimostra, invece, che è un sistema di potere, in cui chi è in alto ha tutte le garanzie e chi è in basso non ne ha nessuna.
Discutere la didattica universitaria
Quello che è interessante, nel discorso di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi è che fa saltare i corollari correnti del discorso sulla scuola neoliberiste: perché denunciano la deriva neoliberista, ma anche la metodologia tradizionale di insegnamento. “All’uso non esclusivo — scrivono — della didattica frontale dovrebbe associarsi un ripensamento del momento del seminario in senso più formativo e meno performativo. Perché non considerare il seminario, soprattutto ai primi anni, come un’occasione prima di tutto metodologica, per imparare a scrivere e a parlare della propria ricerca, non necessariamente inedita? Perché non incoraggiare, in questa sede, il lavoro a più mani, a mostrare quanto le competenze individuali risultino potenziate in un progetto collettivo?” Una richiesta che è pienamente valida anche per la scuola primaria e secondaria. Ma se la messa in discussione del modo di insegnare dei docenti della scuola primaria e secondaria è pratica quotidiana, anche se soprattutto da parte di chi nulla sa di pedagogia e di didattica, parlare di didattica universitaria è un vero e proprio tabù.
L’impegno

Mentre ascoltavo il discorso di Magnaghi, Spacciante e Grossi il pensiero andava ad un altro normalista, che per me è stato fondamentale. Un normalista d’eccezione, perché della Normale è stato anche segretario, fino a quando non è stato costretto alle dimissioni per il rifiuto della tessera fascista: Aldo Capitini. Giovanni Gentile aveva chiesto a Capitini la tessera dopo uno scandalo legato a un suo carissimo amico, Claudio Baglietto, che aveva ottenuto nel 1932 una borsa di studio per seguire a Friburgo le lezioni di Heidegger ma poi si era dichiarato obiettore di coscienza e si era rifiutato di tornare in Italia. Il pensiero è andato a Capitini e Baglietto non solo perché il loro è stato uno scandalo alla Normale forse paragonabile, mutatis mutandis, a quello attuale, ma soprattutto perché il racconto che Capitini fa della vicenda in Antifascismo tra i giovani (1966; nuova edizione: Il Ponte, Firenze 2018) ci consegna la testimonianza di un ambiente di potere, sul quale calava la scure totalitaria, ma nel quale era tuttavia possibile un profondo scambio umano e intellettuale, nel quale ci si perfezionava negli studi, ma ci si formava anche all’impegno politico. Aldo Capitini è un esempio degli intellettuali impegnati che perfino in epoca fascista la Normale riusciva a formare. La rinuncia all’impegno degli attuali docenti è uno dei punti della critica delle tre normaliste. A Giunta la sola parola dà fastidio. Gli “fa un brutto effetto quasi in ogni sua declinazione”, scrive. Mi dispiace per lui. Ma ancora di più mi dispiace che il suo ostentato fastidio sia, in effetti, un segno dei tempi.
Le dimore leggere
E’ uscito presso l’editore Petite Plaisance di Pistoia il mio libro Le dimore leggere. Saggio sull’etica buddhista. Ho impiegato più di qualche anno a scriverlo; anni di studio, ma anche di pratica buddhista. Non sono in grado di valutare l’esito di tanto sforzo, ma non esistono in Italia molti studi sull’etica buddhista, e mi piace credere che il mio libro, qualunque sia il suo valore, possa essere di qualche utilità. Poiché so che in Italia, a causa dei tagli alla ricerca, alle università e alle biblioteche, la ricerca comporta spesso anche uno sforzo economico individuale, sono disposto a far avere una copia gratuita agli studiosi che ne facciano richiesta mandandomi una mail all’indirizzo rimarerum [at] gmail.com
Abominio
Si legge nella Nota verbale mandata al Governo italiano dalla Segreteria di Stato Vaticana per esprimere le perplessità della Chiesa riguardo al ddl Zan: “Diverse espressioni della Sacra Scrittura, della Tradizione ecclesiale e del magistero autentico dei Papi e dei Vescovi considerano, a molteplici effetti, la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina.”
E vediamola, questa prospettiva antropologica non disponibile. “Chiunque abbia giaciuto con un uomo come si giace con una donna, hanno compiuto tutti e due un abominio; siano messi a morte. Il loro sangue ricada su di essi”. E’ il Levitico (20, 13), con l’Esodo il centro stesso dell’Antico Testamento.
Il termine adoperato è תועבה, che indica una cosa disgustosa, che suscita orrore. Che un uomo faccia l’amore con un altro uomo è una cosa disgustosa, e talmente disgustosa, che entrambi devono essere uccisi. Uccidere è meno disgustoso che amare. Esistono oggi persone che ritengono che questo passo non sia l’espressione di una società arcaica, patriarcale, rozza e violenta, ma nulla di meno che la voce di Dio. E come tale, appunto, “non disponibile”. Ora, bisogna dirlo forte: se c’è qualcosa che è abominio, è questo testo. E disgustoso, abominevole è chiunque rivendichi l’atroce violenza che esprime. Così facendo, si tira fuori dalla società civile, da qualsiasi discorso comune sul bene e sul giusto. Se il cattolicesimo è questo, allora esso è totalmente incompatibile con la democrazia e i diritti umani. Bisogna prenderne atto e trarne tutte le conseguenze politiche.
L'autorità scolastica
E’ diffusa anche a sinistra, presso educatori che si richiamano ad esempio alla tradizione dell’attivismo freinetiano, la convinzione che l’autorità sia una componente inevitabile dell’educazione, e che si tratti piuttosto di esercitarla nei corretti limiti o con la giusta prospettiva. Il corollario di questa convinzione è che una relazione educativa è inevitabilmente una relazione asimmetrica.
Mi pare che si possano distinguere due forme di autorità in campo educativo. La prima è quella che chiamerei autorità personale. E’ un tipo di autorità che posa in primo luogo su atteggiamenti personali: alzare la voce, ad esempio, esprimere comandi, assumere nella relazione, per dirla con Pat Patfoort, la posizione Maggiore, costringendo l’altro nella posizione minore. La seconda è l’autorità burocratica. In questo caso la persona investita di autorità non ha bisogno di ricorrere a modalità relazionali particolari. Esercita la sua autorità attraverso atti burocratici. Non ha bisogno di alzare la voce o battere il pugno sul tavolo. Di fronte a un qualsiasi atto scorretto dello studente, potrà scrivere una nota sul registro. Se l’atto sarà grave, potrà chiedere di convocare il Consiglio di classe, che ai sensi del regolamento prenderà provvedimenti. Tutta la procedura avviene attraverso atti scritti.
Ora, al di là delle apparenze, la seconda forma di autorità è più violenta della prima. Nel primo caso esiste una relazione, anche se asimmetrica. Esiste una possibilità di confronto, e dunque di resistenza. Nel secondo caso la relazione scompare e tutto si sposta sul piano neutro della razionalità burocratica. Nel primo caso c’è una relazione burrascosa, nel secondo una procedura.
L'uscita a destra di Byung-Chul Han
Non so quante volte, dopo aver chiuso un libro di Byung-Chul Han, mi sono detto: bene, ma come ne usciamo? Bene per modo di dire, perché se apprezzo la chiarezza del filosofo sudcoreano e ritengo che nelle sue analisi vi sia molto di vero, mi pare anche che si tratti, più che di un ritratto della società attuale, di una sua caricatura. Che come tutte le caricature può servire a individuare meglio i difetti di un volto, ma che come tutte le caricature è frutto di una accentuazione unilaterale, che non coglie le possibilità di bellezza che possono essere anche in un volto irregolare. C’è poi una questione metodologica. Byung-Chul Han ha la pretesa di parlare, nientemeno, della società contemporanea, ossia di un campo vastissimo; arriva d’un balzo, cioè, dove un sociologo onesto si arresta, e lo fa senza aver bisogno di alcun dato sociologico o statistico. Non è il solo a farlo, a dire il vero, e nella sociologia non mancano esempi di imprese simili, spesso suggestive e di grande successo; ma si tratta di semplificazioni di una realtà complessa e contraddittoria. Caricature, appunto.
Acosmalgia
Lo stato d’animo più frequente e significativo, con il passare degli anni, mi sembra che non abbia, stranamente, un nome specifico. Molti con gli anni diventano nostalgici. Provano un dolore particolare che viene loro dal desiderio di una situazione lontana nel tempo. Io non sono propriamente nostalgico. Se qualcuno mi offrisse una macchina del tempo per tornare al 1984, al 1999, al 2010 rifiuterei senz’altro. Non c’è nulla di bello che mi aspetti nel mio passato. E tuttavia ho un passato. Ho vissuto il 1984, il 1999 e il 2010. Ho attraversato tempi diversi, ma soprattutto mondi diversi. Ho fatto parte di mondi che ora non esistono più. Mondi che erano da un lato la mia rete di relazioni – ad esempio i miei compagni di scuola – e dall’altra il contesto storico e culturale: la musica, l’arte, la televisione, la moda eccetera. Al tempo stesso, io ero altro da quello che sono ora. C’era un altro me che viveva in un altro mondo. Un me e un mondo estranei al mio me di adesso e al mondo in cui vivo; e tuttavia un mondo che è stato il mio, e un io che sono stato io.
Secondo la tradizione il Buddha insieme al Risveglio ottenne il ricordo delle vite precedenti. E se il Risveglio è gioia, non riesco a figurarmi questo ricordo di aver vissuto altre vite se non come questo genere di stordimento. E di fatto si tratta di questo: abbiamo vissuto, nella nostra vita, altre vite; siamo stati, in questa stessa vita, altre persone. E questa consapevolezza getta un’ombra sulla nostra stessa vita attuale.
Non la sofferenza per un luogo al quale vorremmo tornare. La sofferenza sottile – e lo stordimento – che nasce dall’essere in qualche modo legati a mondi che non sono più i nostri, a identità che abbiamo attraversato; la consapevolezza di non poter mettere radici in nulla, meno che mai in noi stessi, perché questo stesso io che sta scrivendo è un luogo di passaggio, e presto morirà per incarnarsi ancora in un altro io, in un altro mondo – in questa stessa vita. Chiamo acosmalgia il dolore che dà questo passare da un mondo all’altro, da un io all’altro, in questa stessa vita. E mi pare che dopo una certa età diventi la condizione principale. Il tono di fondo, quando cessano per qualche istante la seduzione delle cose e il fastidio degli altri.
Cristo con gli occhi a mandorla
Catia Cannizzaro, Elena Rossi, Giada Clementi, Giulia Rossa e Cirilla Costa hanno due cose in comune. La prima è che sono evidentemente pie donne: assidue nel gruppo Facebook dei devoti della Madonna di Fatima. La seconda è che, a guardare il loro profilo, si scoprono volti orientali che poco o nulla hanno a che fare con i nomi italianissimi. Una ulteriore stranezza salta agli occhi se ci si sofferma a leggere i loro post. Ricorrenti sono temi escatologici, apocalittici e messianici che ormai non appartengono più da tempo alla Chiesa cattolica. E frequentissimo è il riferimento ad una luna di sangue che apparirà il 26 maggio prossimo e che ha a che fare, evidentemente, con gli accadimenti degli ultimi giorni.
Seguendo il link, si entra nel sito www.kingdomsalvation.org, che ha nell’intestazione solo la scritta Vangelo della discesa del Regno. Bisogna andare nella pagina Chi siamo per capirci qualcosa. Il sito è di una Chiesa che annuncia che: [read more]
Negli ultimi giorni, come promesso e preannunciato da Lui Stesso, Dio Si è di nuovo incarnato ed è disceso in Oriente del mondo – in Cina – per svolgere l’opera di giudizio, castigo, purificazione e salvezza utilizzando la parola, sulle basi dell’opera di redenzione del Signore Gesù.
Si tratta della Chiesa di Dio Onnipotente o Folgore da Oriente (Quánnéng Shén Jiàohuì), una chiesa o setta – la differenza è sottile – cinese che afferma che Cristo è tornato, a quanto pare incarnandosi in una donna nata nel 1973, Yang Xiangbin. In Cina il movimento è perseguitato, accusato tra le altre cose dell’omicidio di una cassiera del McDonald’s di Zhaoyuan nel 2014. Ed evidentemente le vie dell’apostolato portano verso Occidente.
Considerata la notevole capacità degli aderenti del movimento di infiltrarsi e di mimetizzarsi sui social, considerato il bassissimo livello critico di chi frequenta questi gruppi – ogni post degli aderenti al movimento è commentato con decine di amen degli ignari, cattolicissimi frequentatori – non è da escludere che tra qualche decennio nelle nostre chiese, sempre più deserte, si veneri una donna con gli occhi a mandorla. [/read]
I bambini come merce
A meno che non si sia convinti che l’estinzione degli italiani sarebbe cosa buona e giusta – una tesi che si potrebbe sostenere con ottime ragioni – il drammatico calo della natalità nel nostro Paese costituisce un problema. Non ho dunque alcuna preclusione verso una cosa come degli Stati Generali della Natalità. Li seguirei perfino con entusiasmo, se fosse un’occasione per parlare del calo della fertilità dovuto all’inquinamento ed all’uso di pesticidi. O delle difficoltà che incontrano le giovani coppie nel mettere al mondo figli a causa della precarizzazione del lavoro. O del ricatto che le donne si trovano spesso ad affrontare sul lavoro, e che le costringe spesso ad abbandonare il lavoro una volta avuto un figlio. O della fragilità dell’assistenza sociale, dei costi dell’asilo nido, eccetera.
Ma no: nulla del genere. Gli Stati Generali della Natalità di oggi, a Roma, sono aperti dal papa, e questo dice molto. Ma non tutto. Perché non si tratta della solita ipoteca clericale sui temi della famiglia, ma di una apparentemente inedita sinergia tra mondo cattolico e mondo finanziario. Sponsor dell’iniziativa sono banche ed assicurazioni e i relatori, tolte le solite comparsate politiche, sono per lo più manager.
La scuola che verrà
Gli studenti sono i grandi assenti nel dibattito pubblico sulla scuola. Parlano tutti, di scuola; anche, e soprattutto, quelli che mai hanno insegnato: psicologi, pedagogisti, politologi, politici, politicanti. Non sorprende: l’accesso al discorso pubblico è legato allo status sociale, e se gli insegnanti hanno uno status sociale basso – per cui quello che dice un docente con vent’anni di esperienza conta meno dell’ultima uscita d’un Galli della Loggia – gli studenti (e questo è uno dei problemi della nostra società) non esistono quasi, come soggetti degni di parola. Per questo non si può non accogliere con favore le 95 tesi del collettivo studentesco torinese Rinascimento Studentesco per ripensare la scuola italiana post-pandemia.
Considerare gli studenti come interlocutori validi vuol dire anche non far loro sconti. Per questo comincerò l’analisi delle loro tesi con qualche considerazione critica. Cominciando dal numero delle tesi. Comprendo la suggestione di Lutero, ma elencare 95 tesi significa mettere insieme in modo confuso quello che è importante e quello che lo è meno e soprattutto dare l’impressione che si sia aggiunta proposta a proposta, più che discutere e cercare insieme un profilo coerente, sia dal punto di vista pedagogico che dal punto di vista politico. Qualche tesi è banale, qualche altra enuncia principi astratti più che formulare proposte, qualche tesi non è nemmeno una tesi (la 59: perché non metterla alla fine?). La tesi 93 – “Intensificare i controlli su tutti i congedi di cui usufruisce il personale scolastico (malattia, malattia del bambino ecc.)” – asseconda la penosa retorica dei docenti fannulloni, ignorando che dopo la riforma Brunetta il docente nei primi dieci giorni di malattia ha lo stipendio decurtato da ogni trattamento economico accessorio. [read more]
Nell’impossibilità di discutere tutte le tesi – occorrerebbe scrivere un libro – prenderò in considerazione quelle che mi sembrano più interessanti ed urgenti. Cominciando dalla prima – “Studenti più coinvolti nelle decisioni scolastiche (più studenti nei Consigli di Istituto)” – e dalla terza: “Una scuola più democratica e luogo di dibattito (garantire il diritto di assemblea, di classe e d’istituto)”. Il fatto che queste richieste siano in cima alle 95 tesi deve far riflettere. Si tratta, in effetti, di uno dei problemi più gravi della scuola italiana: la passivizzazione degli studenti. Che rivendicano, in questo caso, il diritto di assemblea garantito dalla legge. Ma devo osservare amaramente, da docente, che il rispetto rigoroso di questo diritto – e mi sorprenderei se qualche scuola non lo rispettasse – non è affatto garanzia di democrazia: ciò che emerge dalle assemblee può essere bellamente ignorato da chi di fatto gestisce la scuola. Il punto è che lo studente non è considerato, a scuola, un interlocutore, il membro di una comunità democratica, un legittimo portatore di interessi e punti di vista, ma, a seconda delle concezioni della scuola, un paziente da curare o un cliente da soddisfare. Ed è da qui che bisognerebbe partire, secondo la mia idea di scuola. È ridicola una scuola che voglia educare alla democrazia, alla partecipazione e all’impegno sociale senza coinvolgere costantemente gli studenti nella stessa pratica scolastica. Non si tratta di rafforzare la componente studentesca negli organismi decisionali – che in realtà si stanno sempre più svuotando di senso – ma di lavorare affinché la scuola sia una comunità in dialogo, ed in dialogo principalmente su sé stessa: una comunità di docenti e studenti che ragionano su cosa vuol dire fare scuola, cultura, educazione.
Democratizzare in questo modo la scuola è anche il miglior modo di fare educazione civica. L’altro aspetto centrale per una formazione politica degli studenti è ben colto dalla tesi 19: “La scuola dev’essere luogo d’incontro e formazione tra associazioni, obiettivi e cittadini della zona”, cui si collega la tesi 58: “Introdurre a scuola la storia del volontariato in Italia e nel mondo, spronando gli studenti all’attivismo sin da piccoli, piuttosto che occupare il tempo con programmi spesso troppo lunghi”. Si può fare a dire il vero di più, e di meglio, introducendo in Italia il Service Learning, come già si sta facendo da qualche anno in alcune scuole. È una pratica che va oltre il volontariato, perché porta gli studenti a impegnarsi nella loro comunità mettendo in pratica quello che studiano in classe. Studio e impegno civile sono legati in modo organico, in un processo nel quale è essenziale il protagonismo progettuale degli studenti.
I Patti educativi di comunità, introdotti lo scorso anno, possono essere uno strumento importante per superare la chiusura della scuola al territorio e integrare la comunità educativa scolastica nella più ampia comunità cittadina. Ma mi sembra importante insistere su questo: prima di aprirsi alla comunità esterna la comunità scolastica deve costituirsi, appunto, come comunità. E non c’è comunità se non si mette in comune qualcosa. Non c’è comunità senza relazione autentica. Mi spiace non trovare nelle tesi quello che a mio avviso è il punto fondamentale: la relazione. A scuola le relazioni sono per lo più inautentiche, ipocrite, mediate dalla norma più che tese alla ricerca comune. Un conflitto viene risolto con il ricorso a un testo scritto in un registro burocratico: la nota. E anche i dirigenti, ormai manager aziendali, comunicano trincerandosi dietro un gergo giuridico-burocratico, che diffonde dall’alto una grande freddezza umana. E no, non si può fare quella cosa calda, viva, palpitante che è l’educazione, in un contesto in cui le relazioni umane sono rapporti tra superiore e subordinato (anticipazione di quello che sarà poi il mondo del lavoro).
Da docente, mi sarei aspettato una più radicale messa in discussione delle pratiche didattiche correnti. Ma la tesi 35 centra il punto: “Disposizione delle classi più inclusiva e coinvolgente possibile, allontanarsi dalla ‘retta’ per andare verso il ‘cerchio’”. Non è solo una questione di setting (che a dire il vero è tutt’altro che marginale, e condiziona fortemente il lavoro didattico ed educativo). Passare dalla unidirezionalità (dal trasmettere, direbbe Dolci) alla circolarità vuol dire andare all’essenza dell’insegnamento. Non può essere, l’insegnamento, il semplice trasferimento di contenuti culturali dall’insegnante allo studente. Se quest’ultimo dev’essere studente, e non semplicemente alunno o allievo, occorre che quei contenuti culturali siano discussi, analizzati, criticati; e cercati insieme, più che semplicemente consegnati, con l’aiuto del manuale. Da docente, so quanto è gratificante parlare per un’ora davanti a una classe ammirata dal tuo sapere. Ma non serve agli studenti. Ogni parola di troppo del docente è una parola sottratta allo studente.
Un ultimo punto sul quale mi sembra importante soffermarsi è quello della laicità. La tesi 71 afferma: “Eliminare completamente l’insegnamento della religione cattolica: la scuola deve essere laica per tutti, il credo religioso fa parte della cultura familiare e in famiglia deve restare”. Se questa tesi sembra negare qualsiasi insegnamento della religione, la tesi 55 afferma: “Essendo l’Italia, secondo la Costituzione, uno Stato laico, anche la scuola deve esserlo sia dal punto di vista teorico (insegnamento della storia delle religioni) sia dal punto di vista pratico (eliminazione dei crocifissi dalle scuole)”.
Naturalmente hanno ragione. L’insegnamento confessionale della religione cattolica è assurdo. Assurdo è che si assumano dei docenti pagati dallo Stato ma scelti dalla Curia. Scandalosa e inaccettabile è la presenza del crocifisso in aule scolastiche che accolgono ormai studenti di ogni religione. Ma c’è un problema meno vistoso, ma non meno grave, ed è la totale chiusura della nostra scuola a qualsiasi cultura che sia diversa da quella europea ed occidentale. L’insegnamento della filosofia ripercorre tutta la storia della filosofia occidentale, rifiutandosi sdegnosamente di considerare vera filosofia quella cinese o quella indiana, quello della storia è la cronaca dei diversi imperi europei con un’appendice sulla storia americana, quello della letteratura riempie lo studente di ammirazione per la grandezza dell’Iliade e dell’Eneide, evitando accuratamente di rivelargli l’esistenza del Mahabharata. E lo studente esce dalla scuola – e poi dall’Università – con la certezza incrollabile che non esista civiltà al di fuori dell’Europa. Incapace, di fatto, di comprendere un mondo globalizzato, nel quale l’Europa diventa sempre più periferia.
Articolo pubblicato su Comune, 31 marzo 2021.[/read]
E se la scuola neoliberista fosse quella tradizionale?
L’edizione del 27 marzo di The Guardian ha in prima pagina una notizia che sembra venir fuori da un episodio di Black Mirror. Teleperformance, società leader mondiale nel settore dei call center – 380.000 dipendenti in trentaquattro nazioni – monitorerà i suoi dipendenti attraverso particolari webcam che riveleranno eventuali infrazioni nel lavoro domestico. Il lavoratore che avrà bisogno di una breve pausa, ad esempio per andare in bagno, dovrà segnalarlo utilizzando una apposita app.(1)
Se non sarà efficacemente contrastata, questa sorveglianza totalitaria diventerà una delle caratteristiche del lavoro nell’epoca del capitalismo della sorveglianza. La riduzione del lavoratore a strumento digitalmente manovrato fa sistema con la costante manipolazione resa possibile dai big data, che penetrano dove anche il più efficiente dei regimi totalitari era costretto ad arrestarsi: l’immaginario, il desiderio, le aspirazioni, il mondo di dentro. Che è invece ora costantemente esposto, analizzato, profilato e sfruttato commercialmente.
Leggendo la notizia ripensavo a una cosa letta in un gruppo di insegnanti qualche giorno fa. Un insegnante spiegava come monitorare in tempo reale il lavoro degli studenti su Google Classroom, che con Microsoft Office 365 è, grazie a un discutibilissimo sostegno ministeriale, la piattaforma di gran lunga più usata per la didattica a distanza. Controllare gli studenti sembra essere l’ossessione dei docenti che insegnano a distanza. Controllarli mentre seguono le lezioni, controllarli mentre fanno i compiti, controllarli durante le verifiche.
Ciò che appare come una evidente e grave violazione dei diritti umani quando si tratta di lavoratori, è invece normale se riguarda quei lavoratori particolari che sono gli studenti. Il controllo, che la DaD rende più difficile, è una delle caratteristiche principali della condizione scolastica. Essere a scuola vuol dire essere controllato. Stare costantemente sotto lo sguardo del docente, dover in ogni istante adattare il proprio comportamento ai codici scolastici fino ad interiorizzarli e diventare uno studente scolarizzato. La scuola è rimasta una istituzione panottica. L’aula non ha angoli bui, zone d’ombra nelle quali ci si possa rifugiare. Per respirare occorre andare altrove, approfittare dei pochi minuti in cui è concesso andare in bagno.
Sappiamo che non è possibile preservare quella cosa fragile che è la dignità umana senza qualche paravento, qualcosa che ci sottragga all’esposizione, all’invadenza dello sguardo. Dignità umana è il diritto di non essere visti, di non restare nudi, di non dire e di non dirsi. È diritto di sottrarsi. Un luogo interamente illuminato, interamente esposto, è un luogo violento e disumano.
Si ritiene che la scuola debba rappresentare il luogo nel quale, formando la persona a contatto con i più alti valori culturali, è possibile contrastare le tendenze disumanizzanti del neoliberismo. È per questo che molti si sono opposti sdegnosamente all’alternanza scuola-lavoro. Pareva un cedimento della scuola, che dev’essere otium, tempo dedicato alla pura e disinteressata cura di sé, alle esigenze del mercato del lavoro. Sfuggiva, e sfugge, che c’è invece piena continuità tra la scuola tradizionale e il mondo del lavoro come lo desidera il neoliberismo.
Definisco scuola tradizionale la scuola ancora in gran parte prevalente nel nostro Paese: la scuola centrata sulla lezione, sul manuale, sullo studio autonomo e sulla valutazione individuale. Il setting corrispondente a questa scuola è quello dei banchi in fila che mettono capo alla cattedra del docente.
In questa scuola ogni studente è intento a perseguire il proprio profitto individuale. Per farlo, il modo più sicuro è attenersi in tutto e per tutto alle indicazioni del docente, lasciarsi guidare da lui sulla via del sapere. E piegarsi al suo sguardo: accettare di essere costantemente osservati e prendere la forma che l’occhio desidera che si assuma.
È frequente, quando si parla di scuola, che si ricorra a quella che io chiamo la reductio ad Hayekum. Come è noto, la reductio ad Hitlerum consiste nel mettere a tacere l’avversario sostenendo che le sue tesi erano sostenute da Hitler o conducono a qualche tesi sostenuta da Hitler. La reductio ad Hayekum (da Friedrich von Hayek, uno dei maggiori teorici del liberismo) ne è la versione aggiornata: si insinua che una tesi, una proposta, una riforma siano animati dallo spirito del neoliberismo. È questa l’accusa con la quale si è letta, come detto, l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, che pure ha consentito in Italia, ad esempio, la prima sperimentazione del Service Learning, ossia di una metodologia che forma alla cittadinanza e all’impegno civile. Più in generale, è la fallacia con la quale si attacca qualsiasi ipotesi di cambiamento della scuola italiana, che muove sempre da qualche losco proposito di neoliberalizzazione. Sfugge che la scuola così com’è, con il suo impianto tradizionale, tradizionalissimo, è pressoché perfetta per un ambiente di lavoro neoliberista. Manca giusto l’attitudine al lavoro di gruppo, ma a quello si rimedia. La scuola in compenso consegna al mondo del lavoro uno studente che per anni è stato abituato a lasciarsi osservare costantemente e a cedere alle richieste dell’ambiente per ottenere la gratificazione individuale del voto. E non si comprende per quale miracolo questo studente perfettamente scolarizzato dovrebbe diventare poi un lavoratore in grado di far valere i propri diritti e di rivendicare la propria dignità umana.
(1) P. Walker, Call centre staff face being watched working at home, “The Guardian”, 27 marzo 2021.
Articolo pubblicato su Comune il 27 marzo 2021.
La solitudine della scuola
Sono grato a Paolo Fasce per la sua replica al mio articolo sul tempo della scuola. Gli sono grato anche – soprattutto – perché mi offre l’opportunità di tornare sul punto fondamentale di quell’articolo, che nella ricezione sembra essere invece rimasto sullo sfondo. Non replicherò a quello che scrive punto per punto, per pietà verso il lettore (già così questo articolo sarà, temo, troppo lungo). Continuerò un attimo la mia “difesa d’ufficio” dei docenti, per andare poi al punto.
Scrive Fasce che la DaD è “troppo spesso l’apoteosi” della scuola che chiama Spiego, Studi, Interrogo, Dimentichi (SSID). Come ho scritto, non sono un sostenitore entusiasta della DaD, e qui stesso sono intervenuto per denunciare la follia di certe derive. Ma non credo che essa abbia fatto diventare alcuni, per magia, dei pessimi insegnanti. Chi faceva la scuola SSID in classe ha continuato a farla, pessimamente, in DaD. Per gli altri, la DaD è stata occasione per sperimentare e riflettere ancora una volta su cosa vuol dire fare questo mestiere. Per me scuola è comunità, ed è la comunità che ho cercato di portare in DaD. Con l’aiuto di uno strumento come Moodle, pensato per la didattica, che però non mi è stato più possibile usare dopo che il Miur ha vergognosamente sostenuto le piattaforme proprietarie di Google e Microsoft. Mi piacerebbe poter dire che ci siamo inventati una nuova didattica con l’aiuto del Ministero; nel mio caso almeno, è più aderente alla realtà l’affermazione che lo abbiamo fatto nonostante il Ministero.[read more]
Paolo Fasce mi accusa di ingenuità, perché do valore ai voti dei docenti, affermando che non si può prescindere dai risultati degli scrutini del primo quadrimestre per ragionare di tempo perso o meno. (E tra parentesi: non ho affermato che nessuno può giudicare il lavoro dei docenti; ho sostenuto e sostengo che solo i docenti del Consiglio di classe e nessun altro al posto loro – certo non i politici – possono attribuire voti agli studenti.) I suoi argomenti sono due: 1) i voti sono riferiti ad una classe, e dunque ad un contesto particolare, e dunque non hanno un valore assoluto; 2) i docenti attribuiscono sufficienze o insufficienze secondo la personale convenienza.
Il secondo (presunto) argomento è semplicemente una calunnia, e come tale non merita di essere preso in considerazione, perché discuterlo significa dargli la dignità di un argomento, che evidentemente non ha. Mi limito ad osservare che ingenuo appare lo stesso Fasce: come può pensare che i docenti che alla fine del primo quadrimestre falsano i voti per non dover lavorare a giugno, a giugno poi possano trasformarsi in professionisti sinceramente preoccupati dei loro studenti e attivamente impegnati in attività didattiche in loro favore? Il primo argomento merita un ragionamento. Insegno da ventitré anni; ho insegnato alle medie, in diversi istituti professionali in un istituto tecnico, al liceo, al sud ed al centro. Ho una percezione abbastanza ampia della realtà scolastica. E sì, posso confermare che un 8 in un certo contesto non ha lo stesso valore di un 8 in un contesto diverso. A dire il vero, uno stesso voto può avere un contenuto diverso anche in due indirizzi dello stesso liceo. Mi sfugge però cosa questo c’entri con il prolungamento dell’anno scolastico. La disomogeneità è un problema strutturale del nostro sistema scolastico e richiede un intervento ugualmente strutturale, non certo l’eccezionale apertura delle scuole a giugno.
Il contesto era il vero tema del mio articolo. Permettetemi di tornarvi su. Nel modo più concreto possibile: raccontando, cioè, una storia. B. era un ragazzone alto più di un metro ed ottanta. All’improvviso cominciò a deperire sotto i nostri occhi. Tememmo qualche malattia, poi scoprimmo che semplicemente non mangiava. E toccava a noi portargli qualcosa da casa, perché mangiasse almeno a scuola. Che era successo? Qualche mese prima ero stato a casa sua per consegnarli un computer che eravamo riusciti a recuperare in qualche modo (dismesso da un docente; l’appello agli enti ed imprese locali affinché ci aiutassero a procurare computer usati ai nostri studenti più poveri cadde nel vuoto). Viveva in una baracca, con la sorellina, la madre e il padre. Il padre era disoccupato. Mi era sembrato un uomo in gamba, pieno di iniziative, che soffriva molto per la sua condizione di impotenza economica. Bene: il padre di B. ora era in galera. Tentato omicidio. Un lavoro su commissione della mafia per racimolare qualche soldo. Lo Stato aveva messo in prigione il padre di B. senza chiedersi come avrebbero fatto la moglie (una donna con disturbi mentali) ed i figli a mangiare. Abbandonandoli a loro stessi. Lo Stato avrebbe potuto investire qualche migliaio di euro per dare un lavoro a quell’uomo; ha preferito sprecare più di centomila euro all’anno, per non so quanti anni, per tenerlo in galera. Uno spreco assurdo, per me incomprensibile. Siamo un Paese impoverito dalla spaventosa evasione fiscale, e continuamo quotidianamente a gettar via soldi per tenere la gente in galera, mentre tutto ciò che potrebbe prevenire la galera è trascurato.
In questa situazione, in questi contesti, si chiede alla scuola di intervenire. Di fare il miracolo. Ma i miracoli non esistono. Buona parte del discorso pubblico sull’educazione è basato su affermazioni e frasi fatte dal sapore romantico. “Nessun bambino è perso se ha un insegnante che crede in lui”. Cose così. E sarebbe bello se le cose fossero così semplici. Ma la realtà è molto più complessa. Potrei riformulare: qualsiasi insegnante è perso se non ha una comunità che crede in lui. E: che lavora con lui. Non posso lavorare con B. se lo Stato lo affama. Se i servizi sociali lo abbandonano. Se non esistono politiche per combattere la disuguaglianza. Se nessun governo costringe i ricchi a pagare le tasse. Se diamo per scontati la povertà, il degrado, l’abbandono di intere comunità.
C’è qualcosa di molto più serio della differenza tra un 8 dato ai Parioli e un 8 dato a Scampia. C’è la vergognosa differenza di possibilità tra chi ha la fortuna di nascere in un contesto ricco e chi invece si trova fin dalla nascita a combattere con infiniti ostacoli, con forze che deformano e disumanizzano. Quello che intendevo dire con il mio articolo è che un discorso sugli studenti che “restano indietro” è ipocrita (“No Child Left Behind” era lo slogan della politica scolastica del repubblicano Bush, lo stesso le cui politiche hanno accresciuto il divario sociale ed economico negli Stati Uniti) senza una considerazione più ampia sui rapporti tra scuola e società. La scuola, lo ripeto, non fa miracoli, se è isolata. Se davvero interessa affrontare il problema di chi resta indietro – e sarei felicissimo se il governo se lo ponesse – allora occorre lavorare seriamente (e cioè: investendo soldi, molti soldi) per creare un solido sostegno sociale al lavoro degli insegnanti. Non c’è buona pedagogia senza buona economia. E non c’è buona economia senza lotta seria, non retorica, alla disuguaglianza. Tenere le scuole aperte a giugno, in mancanza di questo impegno più ampio, e strutturale, è nulla più che un’uscita populista.
Gli Stati Generali, 13 febbraio 2021.[/read]
Il tempo della scuola
Solidarietà al maestro Giampiero Monaca
Nella scuola italiana di oggi la risposta alla domanda di Tagore è senz’altro sì. Dobbiamo negare ai bambini il privilegio di salire sull’albero perché noi adulti ne siamo esclusi. Possiamo regalargli giocattoli costosi e tecnologici fin dalla più tenera età, anche se non ne ha bisogno; possiamo comprargli tutto il cibo spazzatura che desidera; possiamo consentirgli di passare la giornata alternando lo schermo del televisore con quello di uno smartphone; possiamo riconoscergli la libertà di accedere ai social network in età sempre più precoce. Ma non possiamo concedergli alcuna libertà di movimento reale. Non nella città: potrà uscire solo se accompagnato, sorvegliato, gestito da qualcuno. Nessuna esplorazione autonoma della città gli è consentita. Meno ancora fuori nella natura. Tutto è dannatamente pericoloso. Ovunque il mondo è pieno di insidie, e noi vogliamo tenere i bambini al sicuro.
Nessun commento :
Posta un commento