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blog di antonio vigilante

La verità dell'annegato


La verità è reazionaria, l'interpretazione è rivoluzionaria. Questo, in sintesi estrema, è il messaggio che Gianni Vattimo affida a Essere e dintorni (La nave di Teseo, Milano 2018). Per chi, come chi scrive, si è formato filosoficamente tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, Vattimo è stato un maestro; attraverso di lui abbiamo letto Nietzsche e Gadamer, grazie ai suoi scritti siamo riusciti perfino ad entusiasmarci per Heidegger, prima che Franco Cassano ci richiamasse alla civiltà del mare contro l'ossessione heideggeriana per il bosco (Il pensiero meridiano, 1996: un libro che merita di essere riletto e rimeditato con attenzione). Ma, per quanto faccia piacere che giunga a pensarsi perfino come anarchico (gli anarchici non sono mai abbastanza), si fatica davvero a seguirlo.

Come eliminare la bocciatura e vivere felici

Dopo la pubblicazione del mio articolo sull’orale dell’esame di Stato qualcuno si è chiesto come sia possibile che uno studente giunga agli esami finali senza saper risolvere un limite. Provo a spiegarlo. Il nostro studente, che chiameremo Taldeitali, giunge allo scrutinio finale del primo anno di liceo con una sola insufficienza, grave, in matematica; nelle altre discipline ha sufficienza piena, e anche qualche otto. Che si fa? Promosso con giudizio sospeso: dovrà recuperare matematica. Dopo due mesi lo studente si presenta all’esame di riparazione e, come è prevedibile, non ne sa più di prima. Allora? I casi sono due: o il docente di matematica, che due mesi prima era rigoroso, ora diventa improvvisamente malleabile e si fa bastare quel poco che lo studente sa, o resta irremovibile e il consiglio di classe, valutando complessivamente i risultati dello studente, decide comunque di ammetterlo alla classe successiva. Il nostro Taldeitali affronterà dunque il secondo anno di liceo con basi traballanti in matematica, e rimedierà con ogni probabilità una seconda insufficienza, che sarà sanata allo stesso modo. E così per tutti gli anni di liceo, fino a giungere agli esami di Stato senza sapere molto della disciplina.
È evidente che c’è una falla nel sistema (una tra le tante). Respingere peraltro uno studente per una disciplina significa condannarlo a ripetere, l’anno successivo, tutte le discipline nelle quali ha raggiunto la piena sufficienza, solo per recuperarne una. Un assurdo evidente. A dire il vero non è meno assurdo che lo si faccia per tre discipline; anche in questo caso lo studente dovrà ripetere dieci discipline nelle quali ha raggiunto la sufficienza: vale a dire decine e decine di argomenti che già conosce. Uno spreco umano, intellettuale ma anche economico, perché un anno di scuola costa allo Stato intorno ai settemila euro all’anno. E se lo studente è bocciato, quei settemila euro sono soldi buttati.

Ismail Kadare e i labirinti della cultura

“Per l’albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all’infinito”, recita all’articolo 101 il Kanun, l’onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell’altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all’infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.

In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una sorta di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell’onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni  di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell’altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana.  L’incontro con la realtà dell’altopiano – interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti – farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l’incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.

L’atmosfera è kafkiana, soprattutto nelle pagine in cui il giovane Gjiorg si avvia, dopo l’omicidio,  verso la kulla di Orosh, una sorta di fortezza che vigila sull’applicazione del Kanun, e dove dovrà depositare al più presto l’imposta del sangue, la tassa dovuta dopo aver compiuto la vendetta. Questo cuore oscuro dell’altopiano, che si alimenta anche economicamente con lo sterminio di intere generazioni, è tuttavia minacciato dalla modernità: dal sud, da Tirana, spira un vento diverso, un modo nuovo di pensare e di vivere che rischia di far vacillare le antiche regole. Si uccide sempre meno, e sempre meno soldi arrivano ad Orosh con le imposte del sangue.

Il romanzo di Kadare è ambientato in un tempo imprecisato, ma prima dell’avvento del comunismo; e ad una prima lettura può sembrare una denuncia dei mali antichi di parte del paese in un momento in cui essi sono già, almeno in parte, trascesi (“In nessun’altra parte del mondo puoi incontrare per strada persone che, come alberi marcati per essere abbattuti, portano su di sé il segno della morte”, dice Besian Vorpsi alla moglie). Ma leggendo il romanzo  (che è del 1978, il periodo della rottura dei rapporti tra Albania e Cina, con il conseguente isolamento del paese) si ha anche la sensazione che il vero bersaglio di Kadare sia un altro. Lo scrittore si sofferma sui mille modi in cui le regole del Kanun imbrigliano la vita quotidiana, gettando una intera popolazione, oltre che nell’orrore degli assassinii incrociati, in una sorta di sindrome ossessivo-compulsiva collettiva: e questi furono i tratti del comunismo di Enver Hoxha, che terrorizzò il popolo paventando una improbabile invasione dei nemici e disseminando l’Albania di bunker antiatomici.

La kulla di Orosh fa pensare a quell’altro segno di potere che fu la villa di Hoxha nel Bloku, il quartiere centrale di Tirana allora riservato alle gerarchie del Partito. Ma quello di Kadare è anche un dramma che tematizza il rapporto tra cultura ed esistenza individuale. Attraverso il Kanun, Kadare mostra quanto può una cultura: una definizione capillare, precisissima, rigorosa e che non consente alcuna deviazione di tutte le azioni umane, una sorta di copione immanente al quale nulla e nessuno sfugge, un meccanismo che pesa come una maledizione da cui nessuno riesce a liberarsi. “Il Kanun era più forte di quanto sembrasse. Si trovava ovunque, strisciava per terra, ai margini dei campi, entrava nelle fondamenta delle case, nelle tombe, nelle chiese, nelle strade, nei mercati, nelle feste di matrimonio, saliva sino ai pascoli alpini, ancora più in alto, fino allo stesso cielo, per poi ridiscendere in forma di pioggia per riempire i corsi d’acqua, a causa dei quali accadeva almeno un terzo degli omicidi”. Quello di Gjorg è (anche) il dramma di chi si trova imprigionato nella sua stessa cultura. preso nella morsa di un modo di vivere che non consente scarti e che avvolge con un manto di lutto intere regioni. E’ un dramma che noi italiani conosciamo bene: e il libro di Kadare ha la stessa oscura forza e il medesimo valore di denuncia di romanzi come Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e di opere sociologiche come Fare presto (e bene) perché si muore di Danilo Dolci.

{1} Kanun i Lekë Dukagjinit, EDFA, Tiranë 2016, p. 70.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

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Ismail Kadare e i labirinti della cultura

Ismail Kadare
"Per l'albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all'infinito", recita all'articolo 101 il Kanun, l'onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell'altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all'infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.
In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell'onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni  di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell'altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana.  L'incontro con la realtà dell'altopiano - interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti - farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l'incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.

Oui, je suis John Dewey

A chi scrive capita di controllare l’accoglienza dei propri libri, sia presso i lettori (quante copie vendute?) che presso gli addetti ai lavori. Ci si imbatte così in citazioni, riprese, qualche elogio e qualche critica. Se sensata, la critica fa anche più piacere dell’elogio, perché vuol dire che le cose scritte non sono banali e danno da pensare. Una cosa meno frequente, per fortuna, è che qualcuno ti critichi, anche aspramente, ma prendendoti per un altro. E che altro!
Tempo fa ho cominciato a lavorare ad un manuale on-line di pedagogia, che poi è confluito nel progetto di divulgazione delle scienze umane Discorso Comune. Avevo scritto, tra l’altro, un capitolo sul grande filosofo e pedagogista americano John Dewey, completandolo con una scelta di testi. Ora, nel volume Sulle orme di Athena (Libreria universitaria, Padova 2016) Aldo Rizza cita diversi passi di quella piccola antologia deweyana, ma per una svista particolarmente curiosa li attribuisce a me. E, cosa ancor più curiosa, li critica passo dopo passo, parola per parola. Nel bel mezzo di una citazione di Dewey, ad esempio, annota: “Certo neppure il pragmatismo americano si spinge a dire tanto; si tratta di una estremizzazione superficiale di qualcosa che è certamente presente nel positivismo e nel pragmatismo, ma con più fine e accorta visione” (p. 338, nota). Dunque: Antonio Vigilante riprende e sviluppa il pensiero di Dewey, ma lo fa estremizzando in modo superficiale, con una visione più rozza. Peccato che tutti i testi che Aldo Rizza ha letto non siano miei, ma di John Dewey. Il quale, dunque, si trova ad essere più superficiale di sé stesso.

La cosa, è chiaro, fa ridere. E al tempo stesso riflettere. Qualche tempo fa Antonio Menna si è divertito a ipotizzare cosa sarebbe successo se Steve Jobs fosse nato a Napoli. L’esito, inutile dirlo, sarebbe stato catastrofico. Ora, il sottoscritto non corre alcun rischio di scrivere libri importanti quanto quelli di John Dewey. Facciamo però questa ipotesi: che nasca, in Italia, un filosofo della levatura di John Dewey. Ipotizziamo che questo filosofo non abbia voglia, per ragioni pienamente comprensibili, di sottoporsi al calvario della carriera accademica. Che non voglia, o non possa, fare per anni il portaborse, affrontare la trafila del dottorato, delle borse, degli assegni di ricerca eccetera; che abbia, poniamo, l’urgenza di lavorare, in mancanza di una famiglia che lo mantenga in attesa che l’accademia si accorga della sua grandezza. E’ una ipotesi tutt’altro che peregrina: se facessi l’elenco di tutti i giovani in gamba che hanno rinunciato alla carriera accademica perché le condizioni economiche famigliari non consentivano loro la condizione di portaborse (o perché – e forse più spesso – disgustati dalle logiche di selezione dei più capaci ) questo articolo diventerebbe troppo lungo. Ipotizziamo ancora che questo John Dewey italiano abbia però voglia, come succede, di continuare a pensare, studiare, scrivere. Quante possibilità avrebbe, in Italia, di essere letto con serietà? Temo che la risposta sia a pagina 338 del libro di Rizza.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

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Oui, je suis John Dewey

A chi scrive capita di controllare l'accoglienza dei propri libri, sia presso i lettori (quante copie vendute?) che presso gli addetti ai lavori. Ci si imbatte così in citazioni, riprese, qualche elogio e qualche critica. Se sensata, la critica fa anche più piacere dell'elogio, perché vuol dire che le cose scritte non sono banali e danno da pensare. Una cosa meno frequente, per fortuna, è che qualcuno ti critichi, anche aspramente, ma prendendoti per un altro. E che altro!
Tempo fa ho cominciato a lavorare ad un manuale on-line di pedagogia, che poi è confluito nel progetto di divulgazione delle scienze umane Discorso Comune. Avevo scritto, tra l'altro, un capitolo sul grande filosofo e pedagogista americano John Dewey, completandolo con una scelta di testi. Ora, nel volume Sulle orme di Athena (Libreria universitaria, Padova 2016) Aldo Rizza cita diversi passi di quella piccola antologia deweyana, ma per una svista particolarmente curiosa li attribuisce a me. E, cosa ancor più curiosa, li critica passo dopo passo, parola per parola. Nel bel mezzo di una citazione di Dewey, ad esempio, annota: "Certo neppure il pragmatismo americano si spinge a dire tanto; si tratta di una estremizzazione superficiale di qualcosa che è certamente presente nel positivismo e nel pragmatismo, ma con più fine e accorta visione" (p. 338, nota). Dunque: Antonio Vigilante riprende e sviluppa il pensiero di Dewey, ma lo fa estremizzando in modo superficiale, con una visione più rozza. Peccato che tutti i testi che Aldo Rizza ha letto non siano miei, ma di John Dewey. Il quale, dunque, si trova ad essere più superficiale di sé stesso.

Reciprocità

- Salve signor Antonio, mi chiamo Aurora e la chiamo da...
- Mi perdoni, non mi interessano offerte commerciali.
- Ma non è un'offerta commerciale. Si tratta di trading online. Lei conosce il trading online?
- Le confermo che non mi interessa.
- Ma come può sapere che non le interessa se non lo conosce?
- Ha ragione. Lei conosce la psicologia transpersonale?
- Eh?
- Bene, parliamo un po' di psicologia transpersonale.
- Oh Dio!
- Perché non vuole parlare di psicologia transpersonale con me?

La filosofia e il negativo: il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali.

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Esami di Stato, ovvero come ti ridicolizzo lo studente

Si siede davanti alla commissione. Ha lo sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata. A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata. Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente. Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché mi fate questo?

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Elogio della competenza: una replica

Perdonami, lettore: questo è uno di quegli articoli lunghi e un po’ noiosi che però non è possibile non scrivere. E’ una risposta a questo articolo polemico di Giovanni Carosotti, che a sua volta replica a questa mia recensione di un libro di Galli della Loggia. I toni di Carosotti sono antipaticissimi, ma farò finta di niente, per non farti perdere altro tempo. Per la stessa ragione sorvolerò anche su alcuni punti dell’articolo, non proprio sintetico, di Carosotti.

Una premessa. Ritengo che la scuola abbia bisogno di qualcosa di più radicale di una riforma burocratica. Sono convinto che essa sia una istituzione che ha un difetto di origine piuttosto serio: la violenza. Per secoli le aule scolastiche sono state luoghi in cui si è perpetrata una violenza anche fisica; oggi la scuola continua a portare il peso di questa tradizione. Ed è necessaria una cesura, netta. Cesura che per me passa principalmente attraverso un ripensamento della relazione tra insegnante e studente, che si configura ancora come relazione di potere (o meglio: di dominio).
Questa premessa è necessaria per spiegare ciò che a dire il vero dovrebbe essere di per sé evidente: perché considero il discorso di Ernesto Galli della Loggia reazionario. Ecco: io considero qualsiasi discorso sulla scuola che non ne metta radicalmente in discussione l’impianto autoritario, l’asimmetria, la comunicazione unidirezionale, il setting burocratico come un discorso reazionario e conservatore.

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La controeducazione sessuale

“Ha forma ovoide con l’asse maggiore dall’avanti all’indietro, ed è delimitata in basso dal perineo, lateralmente dalle cosce, in alto dall’addome. Comprende in alto, davanti alla sinfisi pubica, una sporgenza di tessuto cellulare e di grasso, detta monte di Venere”. E’ l’incipit poco rassicurante – il seguito è anche peggio – della voce “vulva” in una vecchia edizione dell’Enciclopedia Curcio. Voce scritta in piccolo, quasi sussurrata, e naturalmente non accompagnata da nessuna immagine. Chi trovandosi ad essere adolescente negli anni Ottanta avesse voluto farsi un’idea di come funziona il corpo femminile, dopo aver fatto questo inutile tentativo con la divulgazione scientifica non aveva che una alternativa: la pornografia. Una alternativa però terribilmente imbarazzante, ché si trattava di andare all’edicola con qualche amico e sussurrare: “Vorrei quello…” E l’edicolante si divertiva a rispondere a voce altissima: “Quale, quello porno?”

Oggi la pornografia è accessibile agli adolescenti fin da subito, la prima esposizione avviene spesso già a dieci anni. Difficile dire però se si tratti di un cambiamento in meglio o in peggio. Quello che resta quasi costante è l’atteggiamento della scuola. Se negli anni Ottanta il sesso a scuola era rigorosamente tabù oggi qualche scuola tenta progetti di educazione sessuale, nei quali però si avverte il più delle volte il peso si una concezione medicalizzata, centrata sulle precauzioni necessarie per evitare malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate. Che è un passo avanti rispetto alla tradizionale sessuofobia, ma trasmette comunque una visione negativa della sessualità; ciò che prima era peccato ora diventa un pericolo da cui guardarsi. E il piacere? La cosa cioè per la quale si fa l’amore? Ha poco a che fare con la scuola, da sempre. Luogo in cui si perpetravano violenze continue, anche fisiche – non bisogna mai dimenticare che la scuola è stata questo, per secoli, e che ogni volta che un docente entra in classe ha alle spalle questa tradizione violenta – oggi la scuola è il luogo del dovere, e dunque della noia. In una società nella quale la ricerca del piacere è ovunque, vero principio regolatore dell’economia e della società, la scuola crede, in buona fede o per semplice abitudine, di dover educare al dovere, al sacrificio, all’impegno. Le sfuggono un po’ di cose. Le sfugge che la pornografia sta intanto educando i ragazzi a una certa concezione della sessualità, centrata sulla performance, mentre i mass media e Instagram presentano ossessivamente corpi levigati, scolpiti, privi della minima imperfezione. Gli adolescenti cercano di costruirsi un percorso tra il silenzio imbarazzato degli adulti e il chiasso del mercato del sesso, ma spesso è difficile.
Making of Love è il progetto coraggioso di quattro ragazze e quattro ragazzi che stanno lavorando ad un film da portare nelle scuole per fare educazione sessuale in modo diverso. “Creeremo un immaginario per i ragazzi diverso da quello del porno, perché è lì che oggi si impara a fare l’amore”, si legge nel Manifesto. Qualcuno obietterà che sì, è sbagliato imparare a fare l’amore su Internet, guardando film porno, ma l’alternativa non può essere la scuola: a fare l’amore si impara dalla vita. Può essere. Ma a scuola è importante che si imparino diverse cose che la vita, qualunque cosa si intenda con questo termine, può non insegnare. Ad esempio, ad accettare il proprio corpo con le sue imperfezioni reali o immaginarie (e chi insegna sa quanto è urgente un lavoro simile), a riconoscere che esistono forme diverse di sessualità, compresa la masturbazione, e liberarsi dall’idea che esistano cose sporche. Se davvero le scuole riuscissero a fare un lavoro in questa direzione, in futuro forse sarebbe meno grande, meno doloroso, lo scarto tra la sessualità che pratichiamo e la sessualità che raccontiamo.
Dietro il progetto, che è indipendente e si finanzia grazie ad una campagna di crowdfunding, c’è la riflessione di Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione all’università di Milano Bicocca, il cui Piccolo manuale di controeducazione è uno dei testi più vivi della pedagogia italiana contemporanea. Nel pensiero di Mottana, nella sua proposta di una controeducazione e di una educazione diffusa, si concentra il meglio della pedagogia e filosofia libertaria, da Fourier a Illich. In questi ragazzi a prevalere è piuttosto l’urgenza di diventare protagonisti di un momento importante nella formazione della loro generazione, sottraendo l’educazione sessuale tanto alla freddezza scientifica quanto al moralismo aperto o dissimulato degli insegnanti. Una urgenza che ad un’istituzione chiusa e autoreferenziale, quale è ancora la scuola, non può apparire che come una provocazione e una sfida. E probabilmente lo è: ma è una provocazione necessaria.

Gli Stati Generali, 23 giugno 2019.

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Il nuovo esame di Stato e i sogni del signor Miur

Il pianista sorride al pubblico, si accomoda davanti alla tastiera, si raccoglie un attimo e poi attacca con notturno di Chopin. Va avanti per qualche minuto, la sala è già quasi presa dall’intensità di quella musica, quando all’improvviso smette di suonare e sembra porsi in ascolto, con l’espressione sicura di chi sa cosa sta facendo. Il pubblico è perplesso. Qualcuno più scaltro, o meglio informato, avverte: sta suonando 4′ 33” di John Cage. Il pubblico annuisce, è ora ammirato da una così ardita evoluzione. Dopo quattro minuti e trentatré secondi il pianista posa nuovamente le mani sulla tastiera ed attacca un blues, per proseguire con la sigla dei Puffi e concludere, con l’aria trionfale, con Tanti auguri a te. Il pubblico è in delirio.
Ecco, fino allo scorso anno l’orale dell’esame di Stato funzionava più o meno così. Lo studente preparava il percorso o la tesina, una rete surreale di link tenuti insieme da un tema centrale, che nelle varie ramificazioni si smarriva miseramente, ma funzionava ottimamente come pretesto per scegliersi una parte significativa delle domande dell’esame. Ed era divertente assistere alle evoluzioni che portavano dal male di vivere (il tema più gettonato in assoluto) al sistema muscolare, da Schopenhauer alle derivate.

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Davide Marasco: fu accanimento terapeutico

Il 28 aprile 2008 è nato mio nipote Davide. Fu subito chiaro cose non erano andate granché bene. Con il passare delle ore i problemi presero forma in tre parole: sindrome di Potter. Non ne avevamo mai sentito parlare. Facemmo una ricerca in rete, e la tragedia si mostrò in tutta la sua crudezza. La sindrome di Potter, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è incompatibile con la vita. “Prognosi costantemente infausta”: vuol dire che i bambini con sindrome di Potter muoiono. Sempre.
Davide non muore subito, però. Viene intubato ed i medici dell’ospedale di Foggia pensano di trasferirlo in altro ospedale per sottoporlo a dialisi in attesa di un improbabile (no: impossibile) trapianto di reni. Ma è necessario il consenso dei genitori, che comprensibilmente non arriva. Il dottor Magaldi si rivolge allora al Tribunale per i minorenni e chiede ed ottiene la sospensione della potestà genitoriale dei genitori di Davide, viene nominato tutor del bambino e ne dispone il trasferimento all’ospedale di Bari, dove viene sottoposto a dialisi. La vicenda diventa un caso che divide. Per alcuni si tratta di un provvedimento gravissimo, che priva due genitori dei loro diritti naturali per consentire a dei medici di mettere in pratica forme dolorose di accanimento terapeutico; per altri, è una legittima e doverosa difesa della vita. Il 30 maggio il Tribunale per i minorenni di Bari restituisce ai genitori la potestà genitoriale, con un provvedimento che suona come una beffa: i genitori saranno tenuti ad aderire a “tutte le indicazioni loro impartite, con l’avvertenza che in caso di inottemperanza potranno essere adottati nuovamente nei loro confronti provvedimenti limitativi della potestà genitoriale” (1). “Questa potestà genitoriale, nella decisione non c’è, è solo formalmente restituita ma sostanzialmente non c’è nessuno dei contenuti che caratterizzano la potestà genitoriale”, commentava il compianto Stefano Rodotà (2).

Dopo più di dieci anni la sentenza del Tribunale di Bari: quello su Davide Marasco fu accanimento terapeutico. I medici a processo – il dottor De Palo dell’ospedale di Bari oltre al citato Magaldi – si sono difesi sostenendo che la dialisi cui Davide è stato sottoposto era l’unica terapia salvavita possibile. Ma, obiettano i giudici, “alcuna terapia salvavita era concretamente prospettabile, visto che non si conoscono in letteratura casi di guarigione da una siffatta gravissima patologia mediante l’effettuazione del trapianto renale, sopravvenendo invece il decesso dei neonati affetti da tale patologia dopo pochi giorni dalla nascita. Né i convenuti sono stati in grado di confutare tale affermazione, ma si sono limitati ad invocare genericamente protocolli nazionali ed internazionali, senza meglio supportare l’affermazione con riferimenti a specifica letteratura scientifica”. Nei suoi quasi tre mesi di vita – morì il 18 luglio – Davide fu sottoposto ad intubazione, drenaggio pleurico, impianto di catetere venoso centrale, nuova intubazione orotracheale, predisposizione di accesso vascolare per dialisi, intervento chirurgico di cateterizzazione peritoneale, oltre a continui esami diagnostici. Subì perfino un assurdo intervento per risolvere una ritenzione dei testicoli. L’ho visto staccato dalle macchine, tra le braccia della madre, una sola volta: poco prima di morire.
La vicenda di mio nipote ha rappresentato per me uno spiraglio drammatico sullo stato dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Ho un perfezionamento universitario in bioetica, come filosofo so quanto siano diversi i punti di vista su temi come il fine vita e l’eutanasia, ma quella che nelle aule universitarie è diversità di opinioni nelle televisioni, sui giornali, nei social network diventa uno scontro feroce, disumano, terribile. Persone che stanno vivendo una tragedia difficile da comprendere dal di fuori diventano nemici pubblici da attaccare senza nessuna pietà, senza risparmiare nessuna arma, comprese la diffamazione, l’irrisione, l’insulto. Eccelle in questa pratica disgustosa l’allora parlamentare cattolico Luca Volontè (attualmente a processo per corruzione). Evidentemente Volontè non ha la minima idea di cosa sia la sindrome di Potter, scrive che “sino all’età di dieci anni Davide dovrà sottoporsi a dialisi e poi sarà trapiantato e starà benone”, mentre gli sarebbe bastato perdere cinque minuti in rete per sapere che non esiste al mondo un solo bambino di dieci anni con sindrome di Potter, perché muoiono tutti poco dopo la nascita. In preda ad un autentico delirio, Volontè accusa fin dal titolo i genitori di Davide di “incredibile cinismo”, di voler “accoppare” il figlio perché non è perfetto, evoca l’eugenetica nazista, i sacrifici umani al demone Balaal, e conclude. “Davide vivrà, lo ha deciso il tribunale e il medico se ne prenderà cura, sempreché i genitori non montino una campagna per il funerale del proprio figlio” (3). Ora un tribunale ha stabilito che le cose non sono andate propriamente così.
Su un caso delicato, difficile, complesso come quello di Davide è legittimo avere posizioni diverse. Gli sviluppi della scienza e della tecnica ci pongono di fronte di continuo a nuove domande, che mettono a dura prova le nostre convinzioni. Quello che non è, che non può essere legittimo è fare le guerre ideologiche sulla pelle di chi sta soffrendo. Affermare la (presunta) purezza dei propri principi rivendicandoli sul corpo martoriato di un neonato. Incitare al disprezzo ed all’odio verso chi vive tragedie personali. I medici sono stati condannati per accanimento terapeutico. Nessun tribunale condannerà invece questo disgustoso accanimento ideologico, questo penoso sciacallaggio fondamentalista che rappresenta un cancro della nostra vita civile e morale.

(1) Il provvedimento si trova ora in Storia di Davide. Consenso informato e accanimento terapeutico, I quaderni di Eleonora, Napoli 2009, pp. 47-48.
(2) Intervista a Micromega on-line, 7 giugno 2008; ora la trascrizione è disponibile in Storia di Davide, cit., pp. 51-52.
(3) L. Volontè, L’incredibile cinismo di quei genitori di Foggia, in Liberal, 30 maggio 2008; ora in Storia di Davide, cit., pp. 45-46. Alle pp. 49-50 la mia risposta di allora: L’incredibile cinismo dell’onorevole Luca Volontè.

Gli Stati Generali, 19 giugno 2019.

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Quale discorso di sinistra sulla scuola?

Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n’esca con l’affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E’ invece l’editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: “Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo”. Pensate un po’ che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l’idraulica, non l’entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell’educazione!

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La filosofia e il negativo: il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali.

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Esami di Stato, ovvero come ti ridicolizzo lo studente

Si siede davanti alla commissione. Ha lo sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata. A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata. Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente. Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché mi fate questo?

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Elogio della competenza: una replica

Perdonami, lettore: questo è uno di quegli articoli lunghi e un po' noiosi che però non è possibile non scrivere. E' una risposta a questo articolo polemico di Giovanni Carosotti, che a sua volta replica a questa mia recensione di un libro di Galli della Loggia. I toni di Carosotti sono antipaticissimi, ma farò finta di niente, per non farti perdere altro tempo. Per la stessa ragione sorvolerò anche su alcuni punti dell'articolo, non proprio sintetico, di Carosotti.

Una premessa. Ritengo che la scuola abbia bisogno di qualcosa di più radicale di una riforma burocratica. Sono convinto che essa sia una istituzione che ha un difetto di origine piuttosto serio: la violenza. Per secoli le aule scolastiche sono state luoghi in cui si è perpetrata una violenza anche fisica; oggi la scuola continua a portare il peso di questa tradizione. Ed è necessaria una cesura, netta. Cesura che per me passa principalmente attraverso un ripensamento della relazione tra insegnante e studente, che si configura ancora come relazione di potere (o meglio: di dominio).
Questa premessa è necessaria per spiegare ciò che a dire il vero dovrebbe essere di per sé evidente: perché considero il discorso di Ernesto Galli della Loggia reazionario. Ecco: io considero qualsiasi discorso sulla scuola che non ne metta radicalmente in discussione l'impianto autoritario, l'asimmetria, la comunicazione unidirezionale, il setting burocratico come un discorso reazionario e conservatore.

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La controeducazione sessuale

"Ha forma ovoide con l'asse maggiore dall'avanti all'indietro, ed è delimitata in basso dal perineo, lateralmente dalle cosce, in alto dall'addome. Comprende in alto, davanti alla sinfisi pubica, una sporgenza di tessuto cellulare e di grasso, detta monte di Venere". E' l'incipit poco rassicurante - il seguito è anche peggio - della voce "vulva" in una vecchia edizione dell'Enciclopedia Curcio. Voce scritta in piccolo, quasi sussurrata, e naturalmente non accompagnata da nessuna immagine. Chi trovandosi ad essere adolescente negli anni Ottanta avesse voluto farsi un'idea di come funziona il corpo femminile, dopo aver fatto questo inutile tentativo con la divulgazione scientifica non aveva che una alternativa: la pornografia. Una alternativa però terribilmente imbarazzante, ché si trattava di andare all'edicola con qualche amico e sussurrare: "Vorrei quello..." E l'edicolante si divertiva a rispondere a voce altissima: "Quale, quello porno?"

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Il nuovo esame di Stato e i sogni del signor Miur

Il pianista sorride al pubblico, si accomoda davanti alla tastiera, si raccoglie un attimo e poi attacca con notturno di Chopin. Va avanti per qualche minuto, la sala è già quasi presa dall’intensità di quella musica, quando all’improvviso smette di suonare e sembra porsi in ascolto, con l’espressione sicura di chi sa cosa sta facendo. Il pubblico è perplesso. Qualcuno più scaltro, o meglio informato, avverte: sta suonando 4′ 33” di John Cage. Il pubblico annuisce, è ora ammirato da una così ardita evoluzione. Dopo quattro minuti e trentatré secondi il pianista posa nuovamente le mani sulla tastiera ed attacca un blues, per proseguire con la sigla dei Puffi e concludere, con l’aria trionfale, con Tanti auguri a te. Il pubblico è in delirio.
Ecco, fino allo scorso anno l’orale dell’esame di Stato funzionava più o meno così. Lo studente preparava il percorso o la tesina, una rete surreale di link tenuti insieme da un tema centrale, che nelle varie ramificazioni si smarriva miseramente, ma funzionava ottimamente come pretesto per scegliersi una parte significativa delle domande dell’esame. Ed era divertente assistere alle evoluzioni che portavano dal male di vivere (il tema più gettonato in assoluto) al sistema muscolare, da Schopenhauer alle derivate.

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Davide Marasco: fu accanimento terapeutico

Il 28 aprile 2008 è nato mio nipote Davide. Fu subito chiaro cose non erano andate granché bene. Con il passare delle ore i problemi presero forma in tre parole: sindrome di Potter. Non ne avevamo mai sentito parlare. Facemmo una ricerca in rete, e la tragedia si mostrò in tutta la sua crudezza. La sindrome di Potter, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è incompatibile con la vita. “Prognosi costantemente infausta”: vuol dire che i bambini con sindrome di Potter muoiono. Sempre.
Davide non muore subito, però. Viene intubato ed i medici dell’ospedale di Foggia pensano di trasferirlo in altro ospedale per sottoporlo a dialisi in attesa di un improbabile (no: impossibile) trapianto di reni. Ma è necessario il consenso dei genitori, che comprensibilmente non arriva. Il dottor Magaldi si rivolge allora al Tribunale per i minorenni e chiede ed ottiene la sospensione della potestà genitoriale dei genitori di Davide, viene nominato tutor del bambino e ne dispone il trasferimento all’ospedale di Bari, dove viene sottoposto a dialisi. La vicenda diventa un caso che divide. Per alcuni si tratta di un provvedimento gravissimo, che priva due genitori dei loro diritti naturali per consentire a dei medici di mettere in pratica forme dolorose di accanimento terapeutico; per altri, è una legittima e doverosa difesa della vita. Il 30 maggio il Tribunale per i minorenni di Bari restituisce ai genitori la potestà genitoriale, con un provvedimento che suona come una beffa: i genitori saranno tenuti ad aderire a “tutte le indicazioni loro impartite, con l’avvertenza che in caso di inottemperanza potranno essere adottati nuovamente nei loro confronti provvedimenti limitativi della potestà genitoriale” (1). “Questa potestà genitoriale, nella decisione non c’è, è solo formalmente restituita ma sostanzialmente non c’è nessuno dei contenuti che caratterizzano la potestà genitoriale”, commentava il compianto Stefano Rodotà (2).

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Quale discorso di sinistra sulla scuola?

Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n'esca con l'affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E' invece l'editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L'aula vuota. Come l'Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: "Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo". Pensate un po' che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l'idraulica, non l'entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell'educazione!

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La "logica" del leghista foggiano

Il signor Joseph Splendido lamenta la presunta omissione della nazionalità degli autori di reati sulla stampa locale e nazionale. “Perché nasconderlo quando si tratta di uno straniero a delinquere?” La risposta non è difficile, ed è sulla sua stessa pagina Facebook. Solo due giorni fa il leghista foggiano ha pubblicato la notizia di una rapina compiuta da una banca da una persona di etnia Rom. I suoi amici hanno prontamente commentato che “gli zingari sono la feccia della società” e che “la razza piu [sic] inaffidabile e [sic] quella dei rom: zingari si vendono anche le madri ma di che cosa stiamo parlando non ce [sic] gente piu [sic] bastarda”. Quando, nel novembre dello scorso anno, un incendio ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, sulla pagina del signor Splendido ho letto, con le lacrime agli occhi e vergognandomi profondamente per loro, questi commenti dei suoi amici: “Speriamo che bruciano anche loro”; “Io vi bruciavo vivi”; “Finalmente“; “Fate la pipì sopra così sapete dove andarla a fare”. Il signor Splendido non ha censurato nessuna di queste bestialità, che peraltro configurano il reato di istigazione all’odio razziale.
In sostanza il signor Splendido lamenta la mancanza di frattaglie sanguinanti da dare in pasto al suo branco di cani. Una lamentela ipocrita, perché Splendido sa bene che nell’Italia salviniana non si perde occasione, anche sui giornali, per dare addosso agli stranieri. Da leghista foggiano – chissà cosa si prova ad essere un ossimoro vivente – dovrebbe però riflettere su una cosa. Io vivo da cinque anni in un paesino sui colli della Montagnola senese. Poco più di duemila e cinquecento anime. Il tasso di stranieri è dell’11,50% circa, quasi tre volte quello di Foggia (4%). Ai quali bisogna aggiungere i numerosissimi immigrati meridionali, soprattutto siciliani, impegnati nel settore edilizio. Nel paese non si hanno notizie di reati compiuti da immigrati. Li trovo al mattino nel bus delle 7.25 che ci porta al lavoro a Siena. Da quando viviamo qui io e la mia compagna abbiamo una percezione di sicurezza tale da lasciare senza problemi le buste della spesa incustodite. E tuttavia nemmeno qui è il paradiso. Undici anni fa, nel 2008, c’è stata una rapina a mano armata in una gioielleria del paese, che finì con l’uccisione di uno dei rapinatori. Era una banda di napoletani. Due anni fa un’altra rapina, questa volta in banca. Il rapinatore, arrestato, era un pugliese residente a Grosseto, che durante le rapine fingeva di essere marocchino. Pugliese era anche l’autore di diverse rapine tra Siena e San Gimignano, compiute tra il 2015 e il 2016; un cerignolano nel 2016 ha fatto una rapina a Colle Val d’Elsa con pistole e kalashnikov, mentre era foggiano l’autore di una rapina del 2015 a Stacciano Scalo. Potrei continuare a lungo.
Una parte significativa degli atti di delinquenza nella zona in cui vivo sono compiuti da persone meridionali, molte delle quali pugliesi. Seguendo la logica del signor Splendido, i giornali dovrebbero enfatizzare la provenienza dei delinquenti. Quindi io al mattino, andando a scuola, ai Banchi di sopra dovrei imbattermi nello strillo della “Nazione”: “Foggiano assalta banca con kalashnikov”. E poi, una volta entrato in classe, affrontare gli sguardi sospettosi degli studenti.
Ecco: quando si chiede che venga sbattuta in prima pagina la provenienza di chi compie un reato, bisognerebbe ricordarsi che i foggiani continuano ad essere emigranti. E che alcuni di loro compiono reati esattamente come gli extracomunitari. E che la logica razzista per la quale se uno sbaglia sbagliano tutti – che nel caso degli extracomunitari giunge a picchi di follia pura: un etiope in quanto extracomunitario è corresponsabile di quello che ha fatto un ghanese, anche se Etiopia e Ghana sono due paesi lontanissimi – è una logica che, se applicata a noi stessi, ci porterebbe ad essere additati in molti luoghi come delinquenti della peggior specie, pur essendo persone perbene.
Ma forse sto pensando male del signor Splendido. E forse i suoi amici sono raffinati analisti sociali, che si nascondono dietro espressioni colorite perché di questi tempi fare gli intellettuali non va di moda. Forse il signor Splendido vuole che i giornalisti diano la possibilità ai lettori di ragionare sui rapporti tra reati e provenienza. In questo caso, insegnando sociologia, mi permetto di anticipare le conclusioni. Non esistono etnie peggiori di altre. Non esistono persone predisposte al crimine per il colore della pelle o per la provenienza. Non esistono dna criminali, nemmeno in senso culturale. Esistono le classi sociali e le dinamiche di classe. Esistono quelli in giacca e cravatta (benché spesso travestiti con le felpe) che ha i loro reati: ad esempio rubare allo Stato, ossia a tutti noi, quarantanove milioni di euro. Esistono poi i proletari ed i sottoproletari, che hanno reati diversi: più visibili, anche se spesso meno gravi. Ed esistono poi i sotto-sottoproletari. Sono gli equivalenti italiani dei paria indiani: persone letteralmente intoccabili come i rom o gli schiavi neri delle campagne foggiane, gente che subisce quotidianamente una impressionante disumanizzazione, persone spinte ai margini dell’umano, destinatari di una considerazione e di una cura di gran lunga inferiore a quella che ottengono i cani. Anche loro compiono reati. Non sono più gravi di quelli compiuti dalla gente in giacca e cravatta, né di quelli dei proletari. Sono reati dettati dalla disperazione, dall’esclusione sociale, dall’essere non più esseri umani, ma extracomunitari, clandestini, esseri sospesi tra l’umano e l’inumano, tra la vita e la morte. La responsabilità di questi reati, quali essi siano, è tutta sulle spalle di chi, piuttosto di lavorare per restituire a tutti dignità, riconoscimento e possibilità di vita, capitalizza l’odio sociale e razziale per il proprio vergognoso tornaconto elettorale.

L’Attacco, 26 giugno 2019.

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La "logica" del leghista foggiano

Il signor Joseph Splendido lamenta la presunta omissione della nazionalità degli autori di reati sulla stampa locale e nazionale. "Perché nasconderlo quando si tratta di uno straniero a delinquere?" La risposta non è difficile, ed è sulla sua stessa pagina Facebook. Solo due giorni fa il leghista foggiano ha pubblicato la notizia di una rapina compiuta da una banca da una persona di etnia Rom. I suoi amici hanno prontamente commentato che "gli zingari sono la feccia della società" e che "la razza piu [sic] inaffidabile e [sic] quella dei rom: zingari si vendono anche le madri ma di che cosa stiamo parlando non ce [sic] gente piu [sic] bastarda". Quando, nel novembre dello scorso anno, un incendio ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, sulla pagina del signor Splendido ho letto, con le lacrime agli occhi e vergognandomi profondamente per loro, questi commenti dei suoi amici: “Speriamo che bruciano anche loro”; “Io vi bruciavo vivi”; “Finalmente“; “Fate la pipì sopra così sapete dove andarla a fare”. Il signor Splendido non ha censurato nessuna di queste bestialità, che peraltro configurano il reato di istigazione all'odio razziale.

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