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blog di antonio vigilante

Elogio della dismorfofobia

“Timore ossessivo d’essere o di diventare brutti, asimmetrici, deformi. Colpisce quasi esclusivamente giovinette di fattezze belle e regolarissime”, dice l’Enciclopedia Treccani. La parola viene dal greco: paura del brutto. Dismorfofobia. A dire il vero, più che di bruttezza in senso stretto si tratta di una difficoltà di venire a patti con la propria immagine. Non riconoscersi, e per questo, sì, trovarsi brutti. Non so quanto sia vera l’affermazione che il problema colpisce quasi esclusivamente belle ragazze. Non vedo per quale ragione dovrebbe soffrirne una ragazza bella più di una poco bella. E soprattutto perché dovrebbe soffrirne una donna più di un uomo. In ogni caso, chi scrive è dismorfofobico.
Ora, la cosa ha indubbiamente i suoi lati imbarazzanti, difficili o dolorosi. Il rinnovo periodico della carta d’identità, per dire, è un passaggio talmente impegnativo che dopo averlo superato si comincia a pensare con ansia al prossimo rinnovo, tra dieci anni. Ed ogni esibizione di un documento è una fitta al cuore. “Per ottenere il rimborso la preghiamo di compilare il modulo allegato e di rimandarcelo con copia del documento di identità.” Ma perché? Tenetevi pure il rimborso, grazie. Ma può essere perfino un problema guardarsi allo specchio al mattino. Soprattutto quando non si tratta del tuo specchio, che ti è diventato in qualche modo familiare, amico nella sua ostilità. Gli specchi degli alberghi – freddi, ostili, pronti a cogliere ogni particolare della tua estraneità a te stesso, capaci di restituirti le prove della tua alienazione con asettica ferocia – diventano prove iniziatiche. Come i finestrini del treno quando scende la notte.

La tua immagine, che cerchi di dimenticare, di lasciare da parte come un peso ingombrante, un bagaglio imbarazzante che vorresti dimenticare in una stazione, ti incalza, si riaffaccia approfittando di ogni spiraglio, di ogni frammento riflettente, quasi il mondo ci tenesse a ricordarti chi sei.
Ma dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, diceva Hoelderlin. In questo caso il pericolo stesso è, per me, ciò che salva.
Sono fermamente convinto che voltare le spalle alla nostra società sia una pratica igienica, salutare, perfino salvifica. Il confronto con gli antichi, ma anche con quelli che respiravano solo un secolo fa, mi ha convinto che siamo con ogni probabilità nella società più stupida che abbia mai calcato il pianeta terra (per quanto vi siano poche notizie dei cosiddetti preistorici, che in realtà sono i protagonisti dei nove decimi della vita umana sulla terra). La stupidità è superficialità. E se la superficialità è un tratto umano costante, mi pare innegabile che oggi abbia raggiunto una perfezione prima inimmaginabile. Più che vivere, galleggiamo. scivoliamo sulle cose. E su noi stessi. Ed ecco: la cura della propria immagine, la sua riproduzione più o meno infinita, la sua arrogante imposizione all’altro mi sembra che occupino l’occhio del ciclone di banalità dal quale siamo agitati.
“Lathe biosas”, diceva il mio Epicuro. Vivi nascosto. Se c’è una massima filosofica assolutamente inattuale, è questa. Vivere nascosto? Perché mai? Nell’epoca del selfie, non c’è nulla di più insensato. E per chi l’epoca del selfie la rifiuta, per chi ne prova disgusto, non c’è prassi più rivoluzionaria. Attenzione: non si tratta di rifiutare la bellezza. Non si tratta di dire: ecco, non voglio essere bello, curato, attraente come voi. Un dismorfofobico ha un problema diverso dal sentirsi brutto. Non si riconosce. Non sente di essere lui l’immagine che vede, e questo gli provoca una sensazione dolorosa, qualcosa di non troppo diverso dal traumatico risveglio di Gregor Samsa. Ed è per questo che la dismorfofobia ha un che di rivoluzionario. La nostra civiltà si fonda sulla pretesa che le immagini, con il loro libero fluttuare, dicano la realtà. Che la rispecchino fedelmente. O meglio: che siano la realtà, tout court. La mia dismorfobia mi sottrae e a questa pretesa. Mi porta altrove. E mi consegna il diritto di essere, di sentirmi sempre al di là della rappresentazione che altri hanno di me: che vuol dire, più o meno, essere liberi.

L’Attacco, 23 maggio 2019.

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Elogio della dismorfofobia

"Timore ossessivo d'essere o di diventare brutti, asimmetrici, deformi. Colpisce quasi esclusivamente giovinette di fattezze belle e regolarissime", dice l'Enciclopedia Treccani. La parola viene dal greco: paura del brutto. Dismorfofobia. A dire il vero, più che di bruttezza in senso stretto si tratta di una difficoltà di venire a patti con la propria immagine. Non riconoscersi, e per questo, sì, trovarsi brutti. Non so quanto sia vera l'affermazione che il problema colpisce quasi esclusivamente belle ragazze. Non vedo per quale ragione dovrebbe soffrirne una ragazza bella più di una poco bella. E soprattutto perché dovrebbe soffrirne una donna più di un uomo. In ogni caso, chi scrive è dismorfofobico.
Ora, la cosa ha indubbiamente i suoi lati imbarazzanti, difficili o dolorosi. Il rinnovo periodico della carta d'identità, per dire, è un passaggio talmente impegnativo che dopo averlo superato si comincia a pensare con ansia al prossimo rinnovo, tra dieci anni. Ed ogni esibizione di un documento è una fitta al cuore. "Per ottenere il rimborso la preghiamo di compilare il modulo allegato e di rimandarcelo con copia del documento di identità." Ma perché? Tenetevi pure il rimborso, grazie. Ma può essere perfino un problema guardarsi allo specchio al mattino. Soprattutto quando non si tratta del tuo specchio, che ti è diventato in qualche modo familiare, amico nella sua ostilità. Gli specchi degli alberghi - freddi, ostili, pronti a cogliere ogni particolare della tua estraneità a te stesso, capaci di restituirti le prove della tua alienazione con asettica ferocia - diventano prove iniziatiche. Come i finestrini del treno quando scende la notte.

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La Chiesa omertosa

E’ stato condannato dalla corte d’Appello di Bari a vent’anni di carcere Gianni Trotta. Da sacerdote, ha violentato nove bambini, approfittando della sua condizione di sacerdote e di allenatore di una squadra di calcio in due paesini del Foggiano. Non si limitava alle violenze, don Gianni: gli atti venivano filmati e divulgati in Internet; a casa sua gli investigatori hanno trovato un vero centro di produzione di materiale pedopornografico. “La cosa più orribile che mi era mai capitata di vedere”, dice un investigatore.
Don Gianni, il delinquente, il pedofilo don Gianni, non è in realtà più don. La Chiesa lo ha ridotto allo stato laicale nel 2012, un provvedimento grave dal punto di vista religioso, che tuttavia ha lasciato libero un pedofilo. Perché l’uomo non è stato denunciato. La Chiesa locale sapeva che Trotta era un pedofilo, sapeva che avrebbe continuato a fare cose gravissime, sapeva che avrebbe distrutto la vita di bambini innocenti: ed ha taciuto. E l’uomo ha continuato a violentare altri bambini. La Chiesa avrebbe potuto salvarli; ha preferito salvare sé stessa. L’ex sacerdote passerà in carcere gran parte di quel che resta della sua vita. Gli altri, quelli che sapevano ed hanno preferito tacere, continueranno invece a pontificare sul bene e sul male, a considerarsi guide e pastori di anime, a riempirsi la bocca di Dio e Gesù Cristo e di Vangelo. Tanto le gente dimentica presto. Il sacerdote pedofilo – l’ennesimo – non fa notizia, non finisce sulle prime pagine dei giornali, e nonostante l’evidenza di un fenomeno sociale pericoloso e pervasivo, non crea allarme.

Nel suo libro “Sodoma” (Feltrinelli), nel quale documenta la diffusione dell’omosessualità nella Chiesa cattolica, comprese le più alte gerarchie, quelle più vicine al papa, il giornalista francese Frédéric Martel si chiede come si spieghi una così alta concentrazione di persone omosessuali in una istituzione pur apertamente omofoba. La risposta di Martel è che in passato, quando essere omosessuali significava subire un forte stigma sociale, entrare nella Chiesa offriva una via d’uscita a molti giovani: avrebbero potuto praticare l’omosessualità in un contesto riservato, nel quale ciò che conta è che si agisca con discrezione, senza fare scandalo. “Il sacerdozio – scrive Martel – è stato a lungo la via di fuga ideale per i giovani omosessuali. L’omosessualità è una delle chiavi della loro vocazione.” E questa, per Martel, è anche una delle ragioni della crisi delle vocazioni in una società in cui, nonostante l’omofobia della Chiesa, lo stigma sociale verso gli omosessuali si è di gran lunga attenuato.
Non c’è alcun problema se un sacerdote è omosessuale. E’ un problema solo per la Chiesa stessa: fino a quando continuerà nella sua lotta insensata e suicida contro l’omosessualità, anzi contro la sessualità stessa, costringerà migliaia di sacerdoti, di vescovi, di cardinali ad una penosa doppiezza. Considerando casi come quello di Trotta, tuttavia, non si può fare a meno di chiedersi se questo contesto rassicurante, questa discrezione spinta fino alla protezione di un criminale, costi quel che costi, non sia una soluzione appetibile anche per chi voglia praticare un crimine come la pedofilia con il minimo dei rischi. La Chiesa offre la possibilità di accedere all’infanzia e all’adolescenza, attraverso il catechismo, l’oratorio, le squadre di calcio, e al tempo stesso un ambiente omertoso, nel quale il massimo che si rischia è la riduzione allo stato laicale. Se le cose stanno così, la Chiesa non potrà liberarsi dalla pedofilia fino a quando non farà i conti apertamente, coraggiosamente, radicalmente con la sua sessuofobia e con la sua omofobia.

L’Attacco, 14 maggio 2019

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La Chiesa omertosa

E' stato condannato dalla corte d'Appello di Bari a vent'anni di carcere Gianni Trotta. Da sacerdote, ha violentato nove bambini, approfittando della sua condizione di sacerdote e di allenatore di una squadra di calcio in due paesini del Foggiano. Non si limitava alle violenze, don Gianni: gli atti venivano filmati e divulgati in Internet; a casa sua gli investigatori hanno trovato un vero centro di produzione di materiale pedopornografico. "La cosa più orribile che mi era mai capitata di vedere", dice un investigatore.
Don Gianni, il delinquente, il pedofilo don Gianni, non è in realtà più don. La Chiesa lo ha ridotto allo stato laicale nel 2012, un provvedimento grave dal punto di vista religioso, che tuttavia ha lasciato libero un pedofilo. Perché l'uomo non è stato denunciato. La Chiesa locale sapeva che Trotta era un pedofilo, sapeva che avrebbe continuato a fare cose gravissime, sapeva che avrebbe distrutto la vita di bambini innocenti: ed ha taciuto. E l'uomo ha continuato a violentare altri bambini. La Chiesa avrebbe potuto salvarli; ha preferito salvare sé stessa. L'ex sacerdote passerà in carcere gran parte di quel che resta della sua vita. Gli altri, quelli che sapevano ed hanno preferito tacere, continueranno invece a pontificare sul bene e sul male, a considerarsi guide e pastori di anime, a riempirsi la bocca di Dio e Gesù Cristo e di Vangelo. Tanto le gente dimentica presto. Il sacerdote pedofilo - l'ennesimo - non fa notizia, non finisce sulle prime pagine dei giornali, e nonostante l'evidenza di un fenomeno sociale pericoloso e pervasivo, non crea allarme.

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I migranti e il silenzio della politica

Fa sorridere (amaramente) l’ingenuità mostrata dai lavoratori migranti che il 6 maggio manifestavano a Foggia per la dignità e i diritti: in uno dei loro cartelli si rivolgevano al sindaco Landella per chiedergli giustizia per il giovane gambiano morto nell’incendio della sua baracca di legno e lamiera. Avranno pensato che il sindaco è, come tale, il capo di una comunità, ed il capo di una comunità non può disinteressarsi delle violazioni dei diritti elementari che accadono nella sua città. Da Landella, naturalmente, solo silenzio. Ma null’altro che silenzio giunge anche dal principale sfidante di Landella, Pippo Cavaliere. Guardo e riguardo la sua pagina Facebook, che in campagna elettorale è per ogni candidato ormai il principale strumento di propaganda, ma nulla. Non una sola parola, non un link. Per il candidato di sinistra alle elezioni la manifestazione di centinaia di migranti semplicemente non è mai avvenuta. Né mi pare che altri si siano espressi.
Posso comprenderli. L’Italia è ormai un paese in cui il razzismo ha messo solide radici, e Foggia è anche più razzista della media italiana, benché abbia un numero di migranti decisamente inferiore alle città del centro-nord. Sotto elezioni è meglio non compromettersi con questa gente, si rischia di perdere voti. Ma a non compromettersi si rischia qualcosa di peggio: di vincere, ma di non differenziarsi affatto dall’avversario. Di essere diventati di destra, nel tentativo di sconfiggere la destra.

Uno degli argomenti di destra contro i migranti – uno dei pochi che usano quando provano ad argomentare, cosa che non va più molto di moda – è che i migranti sono manodopera a basso costo, che vengono qui solo per essere sfruttati, che l’immigrazione non è altro che racket di esseri umani. Che sia così, almeno a Foggia (o a Rosarno) è difficile negarlo. Ma la conclusione logica di questa premessa non è la negazione dell’immigrazione (che sarebbe, peraltro, la negazione di un fenomeno antico quanto la specie umana: e senza la quale, peraltro, la specie umana nemmeno esisterebbe, almeno non come è adesso), ma la lotta per i diritti dei lavoratori migranti. Se fosse un vero argomento, e non un pretesto, quelli di destra dovrebbero essere al fianco dei lavoratori africani che scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, a cominciare da paga, contratto, alloggio decente e documenti. Solo in questo modo è possibile riportare legalità nelle campagne: e legalità è una delle parole di cui si riempiono la bocca i salviniani (salvo poi difendere a spada tratta il sottosegretario, già pregiudicato per bancarotta fraudolenta, accusato di corruzione).
Dietro il silenzio dei “politici” foggiani di fronte a quella manifestazione – un silenzio riempito dalle scomposte eruttazioni dei tanti frustrati da social network, degli infelici che vivono d’odio – c’è un duplice fallimento. Il fallimento, la miseria morale di una destra che si riempie la bocca dei valori cristiani tradizionali, ma non riesce a vedere nel nero che crepa in una baracca un essere umano; ed è un fallimento che prescinde dal successo elettorale. Chi costruisce il suo successo personale sull’odio e sul razzismo è un fallito come essere umano ed è un fallito come politico. Ed è il fallimento di una sinistra che per calcolo elettorale dimentica i fondamenti stessi di qualsiasi politica di sinistra: l’uguaglianza, la liberazione di tutti cercata, rivendicata, costruita faticosamente a partire da chi sta peggio.
Dietro il silenzio dei “politici” c’è il fallimento di una intera città, che tira a campare tra una partita di calcio e un panino in piazza (“un bilancio entusiasmante” per Libando, annuncia il sindaco Landella), senza davvero sapere dove sta andando – dove vuole andare.

L’Attacco, 9 maggio 2019

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I migranti e il silenzio della politica

Fa sorridere (amaramente) l'ingenuità mostrata dai lavoratori migranti che il 6 maggio manifestavano a Foggia per la dignità e i diritti: in uno dei loro cartelli si rivolgevano al sindaco Landella per chiedergli giustizia per il giovane gambiano morto nell'incendio della sua baracca di legno e lamiera. Avranno pensato che il sindaco è, come tale, il capo di una comunità, ed il capo di una comunità non può disinteressarsi delle violazioni dei diritti elementari che accadono nella sua città. Da Landella, naturalmente, solo silenzio. Ma null'altro che silenzio giunge anche dal principale sfidante di Landella, Pippo Cavaliere. Guardo e riguardo la sua pagina Facebook, che in campagna elettorale è per ogni candidato ormai il principale strumento di propaganda, ma nulla. Non una sola parola, non un link. Per il candidato di sinistra alle elezioni la manifestazione di centinaia di migranti semplicemente non è mai avvenuta. Né mi pare che altri si siano espressi.
Posso comprenderli. L'Italia è ormai un paese in cui il razzismo ha messo solide radici, e Foggia è anche più razzista della media italiana, benché abbia un numero di migranti decisamente inferiore alle città del centro-nord. Sotto elezioni è meglio non compromettersi con questa gente, si rischia di perdere voti. Ma a non compromettersi si rischia qualcosa di peggio: di vincere, ma di non differenziarsi affatto dall'avversario. Di essere diventati di destra, nel tentativo di sconfiggere la destra.

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Il fenomeno Soccio

Conobbi Pasquale Soccio a metà degli anni Novanta. Mi portò da lui Franco Marasca, con la sua guida che aveva per me qualcosa di misterioso: l’utilitaria faticava, sbandava, a momenti urtava qualcosa, ma riusciva sempre in qualche modo a giungere a destinazione senza danni. Premise: “E’ un burbero benefico”. Mi parve piuttosto un San Girolamo, quest’uomo scavato dagli anni, cieco, ascetico, seduto ieraticamente nel suo studio dominato da un enorme tavolo ingombro di libri. Ad una parete un quadro di Giuseppe Ar che lo ritraeva da giovane. Mi sottopose a un fuoco di fila di domande; solo dopo compresi che si trattava di un esame, e che l’avevo passato. Soccio aveva bisogno di qualcuno che gli leggesse libri e giornali, che parlasse un po’ con lui e lo aiutasse a scrivere un libro di filosofia cui pareva tenere molto. Io ero alla ricerca d’un lavoro. E la paga non era granché, ma quando sei disoccupato – e io lo ero – guadagnare qualcosa è meglio che non guadagnare nulla.
Per un po’, dunque, ho fatto questo di lavoro – fino a quando la vecchiaia ha avuto la meglio, e l’ha ricacciato nella natia San Marco in Lamis, affidato alle premure della famiglia ed al calore di quello che fu il grembo materno. L’ho visto letteralmente rimpicciolirsi, farsi quasi bimbo nella sua culla, prima della liberazione.

Fragile di costituzione, ma anche per le origini sociali, Soccio aveva imparato come corazzarsi. Con la forza della cultura, con la fermezza (durezza, anche) del carattere, con gli opportuni legami sociali. Ed ora, vicino ai novant’anni, poteva permettersi di alzare la voce con persone di potere, le quali reagivano con la mansuetudine dello scolaretto che sa che la correzione è per il suo bene.
Dal punto della sociologia della cultura, il fenomeno Soccio è interessantissimo. Omero garganico, grande scrittore, grande filosofo. O no? Come filosofo i suoi meriti sono modesti. Penso, dunque invento, il libro cui stava lavorando quando l’ho conosciuto, parte da una idea interessante (la ragione produce miti), ma procede in modo raffazzonato e confuso. E c’è poco altro. Gli studi vichiani, tanto celebrati, si riducono sostanzialmente ad una antologia scolastica. Una buona antologia, ma non apre nuove vie agli studi vichiani. Unità e brigantaggio, scritto con Tommaso Nardella, è un libro interessante, ma non più di tanti altri; e quando ho studiato il brigantaggio per me sono stati ben più importanti i saggi di Tommaso Pedio. Il maestro studioso, ripubblicato in stampa anastatica con il contributo del Rotary e della Banca del Monte di Foggia in occasione dei novant’anni di Soccio, è un bignamino per la preparazione al concorso magistrale, privo oggi di qualsiasi interesse. Restano Gargano segreto e Lucera minore. Due libri di valore – il secondo più del primo – scritti in una prosa che qua e là attinge la poesia. La cultura di Soccio, tanto celebrata, era vasta, ma aveva confini ben precisi. Nulla aveva compreso, per dire, dei cambiamenti avvenuti nella filosofia a partire dagli anni Cinquanta; e poco e male conosceva la cultura in lingua inglese. Come accade a molti, apparire straordinariamente colto finché si muoveva nel suo campo (e costringeva l’altro a farlo); quando ci si avvicinava pericolosamente al perimetro della sua sfera del sapere, il discorso si troncava. Si giocava alle sue regole, o non si giocava affatto.
Come si spiega dunque il successo di Soccio? Bisogna riprendere un libro mediocrissimo come Omaggio a Foggia, anch’esso ripubblicato per il novantesimo di Soccio, questa volta dalla Provincia di Foggia. Soccio fa poesia dell’oggi e del passato di Foggia, con ostinato lirismo cerca poesia nei vicoli e nei secoli. “Io dormo sul tuo cuore antico, o Foggia, e sogno oro di grano, oro di lana”: così comincia. Due endecasillabi. Non dice che il “cuore antico”, ossia quel piano delle fosse che per Ungaretti meritava di diventare monumento nazionale, era stato devastato, distrutto per costruire proprio quel palazzo nel quale lui dormiva e sognava grano e lana. Un palazzo sul quale si legge una sorta di inno al progresso.
E’ un libro mediocrissimo, ho detto: perché è falso, e i libri devono più di ogni cosa essere veri. Essere magari sbagliati, scritti male, pensati peggio: ma portare la passione per la verità. Quel libro dà però al lettore quello che cerca. E quello che cerca è una narrazione rassicurante. Perfino poetica. Quella narrazione che sempre riporta il foggiano a Federico II, che fu l’unico a riconoscere il destino imperiale della città. Una narrazione che sarebbe innocua, se non distogliesse lo sguardo dalla realtà. Se non chiudesse in un bozzolo di indifferenza, in una idiozia poetica o erudita, che abbandona a sé stessi i terrazzani, i cafoni, i proletari che tra l’oro del grano e l’oro della lana gettano sangue e veleno.
Se dovessi scrivere un libro su Foggia, probabilmente si intitolerebbe Oltraggio a Foggia. Perché ritengo che compito di chi ha il privilegio di scrivere sia quello di dire la verità. Sempre, costi quel che costi. Sanguini quel che deve sanguinare. Se poi chi scrive ha le sue radici in una città che sta già sanguinando, dire la verità significa indicare le piaghe, toccarle, aprirle perfino perché siano ben evidenti. E si possa cominciare a curarle.

L’Attacco, 1 maggio 2019.

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Il fenomeno Soccio

Conobbi Pasquale Soccio a metà degli anni Novanta. Mi portò da lui Franco Marasca, con la sua guida che aveva per me qualcosa di misterioso: l'utilitaria faticava, sbandava, a momenti urtava qualcosa, ma riusciva sempre in qualche modo a giungere a destinazione senza danni. Premise: "E' un burbero benefico". Mi parve piuttosto un San Girolamo, quest'uomo scavato dagli anni, cieco, ascetico, seduto ieraticamente nel suo studio dominato da un enorme tavolo ingombro di libri. Ad una parete un quadro di Giuseppe Ar che lo ritraeva da giovane. Mi sottopose a un fuoco di fila di domande; solo dopo compresi che si trattava di un esame, e che l'avevo passato. Soccio aveva bisogno di qualcuno che gli leggesse libri e giornali, che parlasse un po' con lui e lo aiutasse a scrivere un libro di filosofia cui pareva tenere molto. Io ero alla ricerca d'un lavoro. E la paga non era granché, ma quando sei disoccupato - e io lo ero - guadagnare qualcosa è meglio che non guadagnare nulla.
Per un po', dunque, ho fatto questo di lavoro - fino a quando la vecchiaia ha avuto la meglio, e l'ha ricacciato nella natia San Marco in Lamis, affidato alle premure della famiglia ed al calore di quello che fu il grembo materno. L'ho visto letteralmente rimpicciolirsi, farsi quasi bimbo nella sua culla, prima della liberazione.

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