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blog di antonio vigilante

In margine a un concerto

Qualche giorno fa ho provato un brivido sentendo le note e i ritmi a me ben noti di una tarantella garganica in un ambiente inusuale, un teatro di Siena, e in un contesto non meno inusuale: prima di quelle note, di quei ritmi, avevo ascoltato musica nordafricana, mediorientale, balcanica, yiddish, spagnola, francese. Ho avuto la netta sensazione che fosse quello il contesto più vero: che quella musica fosse parte integrante di quel discorso. Si trattava di un concerto di Ginevra Di Marco accompagnata dalla Orchestra Multietnica di Arezzo, che da più di dieci anni porta avanti una ricerca musicale che fa dialogare la musica popolare europea con quella del Mediterraneo e araba.
Ho letto molto, ultimamente, di Dariush Shayegan, un filosofo iraniano scomparso lo scorso anno che per tutta la vita si è occupato del dialogo tra il mondo musulmano e quello occidentale. La sua tesi è che le società tradizionali, e quella islamica soprattutto, si trovano in una condizione paradossale, che chiamava entre deux: non possono più vivere nel loro tradizionale mondo culturale, ma non riescono ancora a vivere nel mondo occidentalizzato. Sono bloccati tra il non più e il non ancora, e questa situazione di impasse genera l’ideologizzazione dell’islam (che ha dato origine alla rivoluzione iraniana) e il terrorismo.

C’è un campo, però, nel quale questi mondi che paiono così lontani, e che con grandi sforzi la filosofia interculturale (di cui Shayegan è uno dei maestri) cerca di far dialogare, si incontrano meravigliosamente, ed è appunto la musica. Quella tradizionale islamica riesce ad incontrarsi con quella popolare europea senza stridore, come se fossero lingue che dicono in modo diverso la stessa cosa. E la cosa più interessante, e più importante, è che questo incontro, questo dialogo musicale non è affare da etnologi o da musicologi, ma è arte, ossia emozione. Chi ascolta sente di trovarsi di fronte non ad una operazione intellettuale, ma ad una cosa viva.
Quell’emozione ci dice che esiste una casa comune. E’ il Mediterraneo, una terra di scambi antichi, di antichi colloqui, non solo interni, ma aperti anche alle suggestioni del Medio Oriente e, più oltre, dell’Iran, dell’India. Esiste una continuità tra i ritmi zigani del flamenco, quelli arabi, quelli balcanici, e la nostra tarantella.
Da qualche tempo abbiamo deciso di voltare le spalle a questa casa comune. Non vogliamo saperne di albanesi, di Rom, di egiziani e tunisini. Ci siamo tirati fuori da questa fitta rete di intrecci, di legami, di richiami; siamo diventati un paese astratto. Astratta è la stessa rivendicazioni delle nostre radici, perché le radici affondano in un terreno comune, e non c’è albero se non c’è bosco. Negare le relazioni, gli scambi, i condizionamenti reciproci è tagliare e negare le nostre stesse radici. E’ una affermazione di identità che in realtà istituisce un popolo fittizio, che non è che un ego più grande, l’ipostatizzazione del nostro misero egoismo provinciale.
La nostra nuova casa e una casa inospitale. E’ una non casa, a dire il vero, perché il concetto di casa non è separabile dal concetto di ospitalità. E’ un non luogo, una dimensione astratta costruita dal denaro, nella quale le relazioni sono scambi economici e poco più. Il non più e non ancora caratterizza la nostra società non meno di quella islamica. Non siamo più la civiltà contadina, ce la siamo lasciata alle spalle con un senso di liberazione con il boom economico del secolo scorso. Non siamo ancora… cosa? Nulla. Non siamo ancora nulla. In passato avevamo un non ancora. Sognavamo una società giusta, avevamo davanti un progetto, una meta. Oggi non abbiamo davanti nulla. Non procediamo verso nulla. Il non ancora è lo spazio della sopravvivenza. Esistiamo, siamo vivi perché non è ancora avvenuta la catastrofe, che pure si annuncia. Tra il non più e il non ancora abitiamo uno spazio paradossale ed alienante. Non potendo procedere né retrocedere, ci trinceriamo nel presente per combattere una guerra di posizione contro i nostri fantasmi. E al prossimo mostriamo la faccia feroce, che non si sa mai.
Articolo pubblicato su l’Attacco, 22 febbraio 2019.

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In margine a un concerto

Qualche giorno fa ho provato un brivido sentendo le note e i ritmi a me ben noti di una tarantella garganica in un ambiente inusuale, un teatro di Siena, e in un contesto non meno inusuale: prima di quelle note, di quei ritmi, avevo ascoltato musica nordafricana, mediorientale, balcanica, yiddish, spagnola, francese. Ho avuto la netta sensazione che fosse quello il contesto più vero: che quella musica fosse parte integrante di quel discorso. Si trattava di un concerto di Ginevra Di Marco accompagnata dalla Orchestra Multietnica di Arezzo, che da più di dieci anni porta avanti una ricerca musicale che fa dialogare la musica popolare europea con quella del Mediterraneo e araba.
Ho letto molto, ultimamente, di Dariush Shayegan, un filosofo iraniano scomparso lo scorso anno che per tutta la vita si è occupato del dialogo tra il mondo musulmano e quello occidentale. La sua tesi è che le società tradizionali, e quella islamica soprattutto, si trovano in una condizione paradossale, che chiamava entre deux: non possono più vivere nel loro tradizionale mondo culturale, ma non riescono ancora a vivere nel mondo occidentalizzato. Sono bloccati tra il non più e il non ancora, e questa situazione di impasse genera l'ideologizzazione dell'islam (che ha dato origine alla rivoluzione iraniana) e il terrorismo.

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Il vangelo leghista

Le parole del cattolicissimo ministro della famiglia Lorenzo Fontana sul mirabile accordo tra razzismo istituzionale leghista e cattolicesimo – “Ci accusano anche da ambienti cattolici, ma la nostra azione politica sull’immigrazione si ispira al catechismo. ‘Ama il prossimo tuo’ ovvero in tua prossimità e per questo dobbiamo occuparci prima dei nostri poveri” – possono indignare solo chi crede che il cristianesimo e il cattolicesimo posino su principi sani, santi e giusti. Chi, come chi scrive, è convinto del contrario, si scopre con qualche ribrezzo d’accordo con il ministro (che, sia chiaro, sul piano dell’esegesi neotestamentaria ha l’autorevolezza di una marmotta). In effetti il Vangelo dice più o meno questo. Interrogato da uno scriba sul “primo di tutti i comandamenti”, Gesù risponde che è amare il Signore con tutto il cuore; “il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Marco, 12, 31). Si tratta di una citazione da Levitico, 19, 18:
וְאָהַבְתָּ לְרֵעֲךָ כָּמוֹךָ
…e ama il tuo prossimo come te stesso.
La parola ebraica tradotta con “prossimo” è רֵיעַ, che indica una persona con cui si abbia familiarità: può indicare un amico, un fratello, un vicino. Il comandamento dunque non ha a che fare con un amore universale, qualcosa di simile alla metta buddhista, ma riguarda una sfera molto più limitata. Fontana ha ragione fin qui. Ha torto nel far corrispondere la figura del prossimo con quella del connazionale. Se prossimo è chi mi è vicino, anche fisicamente, allora può esserlo anche il mio vicino di casa straniero, o lo straniero che abita nel mio stesso quartiere, o gestisce il negozio sotto casa. Si può dire che l’etica del Vangelo (e del Levitico) più che un’etica dell’amore dell’Altro (la maiuscola va di gran moda) sia un’etica di buon vicinato. Non è una critica: c’è un gran bisogno di rapporti di buon vicinato.

C’è un altro passo evangelico che Fontana avrebbe potuto citare, se come esegeta neotestamentario non avesse l’autorevolezza di una marmotta. E’ Matteo, 15, 21:
Partito di là, Gesù si ritirò nelle regioni di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna cananea, originaria di quei paesi, gridava: “Abbiate pietà di me, signore, figlio di Davide; mia figlia è duramente vessata dal demonio!”. Ma egli non le rispose neppure una parola. Avvicinatisi i discepoli, lo pregavano: “Esaudiscila, perché sta gridando dietro a noi”. Egli rispose; “Non sono stato mandato se non alle pecore disperse della casa d’Israele”. Ma essa venne a prostrarsi davanti a lui e disse: “Signore, soccorrimi!”. Ed egli: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cani“. Ma ella disse: “Si, signore, ma anche i cani si nutrono delle briciole che cadono dalla mensa dei loro padroni“. Allora Gesù rispose: “O donna, grande è la tua fede! ti sia fatto come tu vuoi”. Da quel momento sua figlia fu guarita.
Qui compare un Gesù che davvero piacerebbe ai leghisti. Una donna cananea – oggi si potrebbe dire: extracomunitaria – gli chiede di guarire la figlia. Gesù si rifiuta, con una motivazione fondata tutta sulla sua diversità: è cananea (extracomunitaria), e lui fa miracoli solo agli ebrei. Una discriminazione bella e buona. Prima gli ebrei (che si tradurrebbe, per gente come Fontana, in: Prima gli italiani)! Alla fine accetta, ma non perché abbia cambiato idea sull’inopportunità di far miracoli per gli stranieri, che assimila ai cani, ma perché la donna ha detto una cosa arguta, e l’arguzia è una delle cose che Gesù apprezza di più.
Dunque ha ragione Fontana? Hanno ragione i leghisti cattolici? No, perché in quel passo c’è un’altra cosa, oltre alla distinzione – disgustosa: e se vi pare blasfemo che la consideri tale non è un problema mio – tra figli e cani. Gesù dice: “Non sono stato mandato se non alle pecore disperse della casa d’Israele”. Parole chiarissime: dice che il suo messaggio, la sua missione, la sua venuta sono solo per gli ebrei. Per nessun altro. Non per i cananei, che pure erano vicini. Questo vuol dire che non aveva intenzione di fondare nessuna chiesa, e meno che mai una chiesa cattolica, vale a dire universale. Fontana, insomma, potrebbe prendersi la ragione a condizione di riconoscere che il suo essere cattolico è basato su un enorme – tragico? comico? forse le due cose insieme – equivoco storico.

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Il vangelo leghista

Le parole del cattolicissimo ministro della famiglia Lorenzo Fontana sul mirabile accordo tra razzismo istituzionale leghista e cattolicesimo - "Ci accusano anche da ambienti cattolici, ma la nostra azione politica sull’immigrazione si ispira al catechismo. ‘Ama il prossimo tuo’ ovvero in tua prossimità e per questo dobbiamo occuparci prima dei nostri poveri" - possono indignare solo chi crede che il cristianesimo e il cattolicesimo posino su principi sani, santi e giusti. Chi, come chi scrive, è convinto del contrario, si scopre con qualche ribrezzo d'accordo con il ministro (che, sia chiaro, sul piano dell'esegesi neotestamentaria ha l'autorevolezza di una marmotta). In effetti il Vangelo dice più o meno questo. Interrogato da uno scriba sul "primo di tutti i comandamenti", Gesù risponde che è amare il Signore con tutto il cuore; "il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Marco, 12, 31). Si tratta di una citazione da Levitico, 19, 18:
וְאָהַבְתָּ לְרֵעֲךָ כָּמוֹךָ
...e ama il tuo prossimo come te stesso.
La parola ebraica tradotta con "prossimo" è רֵיעַ, che indica una persona con cui si abbia familiarità: può indicare un amico, un fratello, un vicino. Il comandamento dunque non ha a che fare con un amore universale, qualcosa di simile alla metta buddhista, ma riguarda una sfera molto più limitata. Fontana ha ragione fin qui. Ha torto nel far corrispondere la figura del prossimo con quella del connazionale. Se prossimo è chi mi è vicino, anche fisicamente, allora può esserlo anche il mio vicino di casa straniero, o lo straniero che abita nel mio stesso quartiere, o gestisce il negozio sotto casa. Si può dire che l'etica del Vangelo (e del Levitico) più che un'etica dell'amore dell'Altro (la maiuscola va di gran moda) sia un'etica di buon vicinato. Non è una critica: c'è un gran bisogno di rapporti di buon vicinato.

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La libertà di culto non vale per i satanisti?

Qualche giorno fa, a margine della risibile polemicuccia italiota riguardo le presunte invocazioni a Satana al festival di Sanremo, con immancabile presa di posizione del ministro dell’Interno, mi son chiesto sul mio profilo Facebook: “Ma esattamente perché le sette sataniche dovrebbero essere un problema? Non è grave che un ministro attacchi pubblicamente gli appartenenti ad una credenza religiosa? Che sarebbe successo se avesse detto che i protestanti, gli ebrei o i neocatecumenali sono un problema da combattere? Perché in questo paese non è possibile essere satanisti?”.
Il mio post ha inquietato assai alcuni bravi senesi, che improvvisandosi piccoli inquisitori di provincia hanno gridato allo scandalo per le mie parole di gravità inaudita, incompatibili con il mio ruolo di docente nel liceo cittadino. Quelle parole, dicono, dimostrano che il sottoscritto non può avere “le qualità morali richieste per un ruolo delicato come il suo quale quello di formare le giovani menti“. Per questi Torquemada in sedicesimo io avrei violato l’articolo 415 del Codice Penale: “Altrimenti, quando un domani troveremo tombe sfregiate, cadaveri vilipesi, animali trucidati per le strade, non vi lamentate”.
Non è naturalmente il caso di difendersi da questa accuse deliranti. Ci sarebbe da scrivere qualcosa su un certo ambiente provinciale che si scandalizza ogni tre per due, per il quale tutto ciò che esce dalla sacra triade Dio-Patria-Famiglia è eresia e fa sudare le mani e tremare le gambe, ma magari un’altra volta. Voglio scrivere due o tre cose sulla faccenda del satanismo e della libertà religiosa, che davvero mi sta a cuore.
Dunque: non hanno i satanisti diritto di seguire le loro credenze? Non è il satanismo un credo come un altro? La libertà di culto deve trovare un limite preciso nel solo satanismo?

Vediamo intanto la Costituzione. L’articolo 19 dice che “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume“. Ora, il concetto di “buon costume”, che qui costituisce unica possibile restrizione dell’altrimenti illimitata libertà religiosa, è estremamente controverso. Lo era molto meno quando la Costituzione è stata scritta, e nel Paese c’era un sentire comune, un modo di vita condiviso, un sistema pacifico di costumi e di usanze. Come pensare una cosa come il “buon costume” in una società complessa, nella quale si sono moltiplicati i culti religiosi, le credenze, le usanze, le scelte di vita? Dove esiste il criterio condiviso, unanime per stabilire quale costume è buono e quale no? Una lettura restrittiva dell’articolo riconduce il buon costume alla sola sfera sessuale, per cui bisognerebbe vietare tutti quei culti che prevedano pratiche sessuali promiscue e contrarie al comune senso del pudore. Ma, se è comprensibile che si vietino ipotetiche pratiche religiose a carattere sessuale in pubblico, cosa dire di pratiche private? Si può impedire ad adulti consenzienti di praticare sesso in privato attribuendogli un significato religioso? Se lo facessimo, saremmo ai tempi di Suor Giulia di Marco. Era il Seicento, e c’era davvero l’Inquisizione. Una interpretazione più ampia, e condivisibile, fa rientrare nei cattivi costumi le pratiche violente. E sarei abbastanza d’accordo. Poiché la sensibilità nei confronti della violenza sta crescendo, mi pare che si possa accettare il principio di vietare tutte le pratiche religiose a carattere violento. Ma non sono sicuro che una tale interpretazione estensiva colpirebbe (solo) i satanisti. Che dire, ad esempio, del rito del sabato santo a Nocera Terinese? Non è contro il buon costume colpirsi le gambe fino a farne fuoriuscire copiosamente il sangue, imbrattando le strade lungo le quali sfila la processione? Non è uno spettacolo terribile per i bambini? Bisogna poi considerare che l’evoluzione del senso comune porta molte persone ad avere orrore di ogni forma di violenza verso gli animali. Che dire allora delle tante feste del patrono durante le quali gli animali sono esposti, maltrattati, usati per divertimento, spesso rimettendoci la vita? Non sono riti contrari al buon costume?
Si dirà: ma i satanisti sono brutta gente; ci sono stati satanisti che hanno compiuto cose terribili. Vero. Come è vero che mentre scrivo si sta svolgendo in Vaticano un summit sulla pedofilia dei sacerdoti cattolici. Come è vero che non era un satanista, ma un predicatore cristiano il reverendo Jim Jones, responsabile della morte di 909 suoi seguaci. E potrei continuare con una lunga, lunghissima lista di crimini e di criminali.
Si dirà, ancora: ma il satanismo predica l’odio. Non necessariamente, in realtà; e non diversamente da molte religioni. Ma soprattutto occorre fare un discorso più complesso. La figura di Satana è legata a doppio filo alla spaventosa violenza che l’Occidente ha compiuto nei secoli nei confronti di diversi soggetti: gli ebrei, i non cristiani, le donne, i neri, eccetera. Se si analizza ognuna di queste forme della violenza occidentale, si scopre che la vittima è associata in qualche modo a Satana, e che ciò giustifica la sua soppressione. L’ebreo è satanico, e per questo può essere ucciso. La donna è satanica, e per questo può essere accusata di stregoneria e uccisa, non prima di aver abusato di lei sessualmente. I neri sono satanici: non è forse il nero il colore del Diavolo? E dunque la schiavitù non è un peccato.
Insomma: il cristianesimo predica l’amore, ma indica anche un Nemico terribile, assoluto. Ed è in nome di questo nemico che la religione dell’amore può praticare l’odio e la violenza più atroci. Basta che qualcuno sia associato o associabile al Nemico, per diventare oggetto di odio. E’ la stessa logica che conduce queste brave persone ad invitare “chi di dovere, a fare gli accertamenti del caso”. Perché il professore di liceo che invita al rispetto rigoroso della libertà religiosa ha osato parlare di Satana, e dunque è oltre il cerchio della rispettabilità. Lo si può associare ad ogni nefandezza, come “animali trucidati per le strade”. Una immagine, peraltro, evocata in modo davvero maldestro in una città come Siena, in cui non più di qualche mese fa un cavallo si è schiantato in piazza in un palio in onore della Madonna, morendo poco dopo.
Immagine: William Blake, Satan Smiting Job with Sore Boils, 1826.

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La scuola e il vuoto

Le parole del ministro Bussetti sulle scuole del sud – “Vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Lavoro, impegno, sacrificio” – sono una bestialità ed offendono lo straordinario lavoro quotidiano di migliaia di docenti meridionali. Bisogna dire però che la domanda del giornalista cui rispondevano è non meno bestiale: “Cosa arriverà di più qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord? Più fondi?”. Un giornalista che peraltro non aveva ascoltato, a quanto pare, quello che Bussetti aveva detto solo qualche secondo prima, e cioè che non esistono scuole del nord e scuole del sud, ma solo scuole italiane. Con buone ragioni. Ho insegnato per più di dieci anni in scuole del sud, dalle medie ai professionali e ai licei, e da qualche anno insegno in Toscana. Dove ho trovato scuole che hanno problemi gravissimi e che si trovano a fronteggiare problemi di forte disagio sociale senza avere i fondi necessari per acquistare anche quel minimo di strumentazione informatica richiesta dalla svolta digitale della scuola italiana.
Ma quella domanda rappresenta una bestialità soprattutto perché riduce i complessi problemi della scuola ad una semplice questione di fondi. Che la scuola abbia bisogno di investimenti è ovvio. Investimenti sulle strutture, che cadono a pezzi; investimenti sulla valorizzazione dei docenti, che sono malpagati e sempre meno socialmente apprezzati; investimenti nella sperimentazione educativa e didattica. Ma è ingenuo e superficiale ritenere che basti dare più soldi alle scuole per superare i numerosi gap del nostro paese, e non solo del sud.

La principale piaga italiana, nel campo dell’istruzione, è l’abbandono scolastico. Al di sotto dei 25 anni il 17,25% dei giovani hanno abbandonato la scuola prima di conseguire il diploma; siamo il penultimo paese nell’area OCSE. E l’abbandono scolastico è un sintomo di disagio sociale. Abbandona la scuola il ragazzino che non ci crede, alla favola bella che se ti impegni e studi e prendi una laurea poi otterrai un lavoro che ti consentirà di fare una vita come si deve; e non ci crede perché ha spesso dei docenti precari, che nonostante la laurea faticano a tirare avanti e pagare il mutuo, e perché conosce chi sta anche peggio: ragazzi con una laurea che sbarcano il lunario con lavoretti precari, quotidianamente umiliati da una società che non sa cosa farsene della loro preparazione e della loro passione. Ma abbandona la scuola anche, e più spesso, il ragazzino che non riesce a trovare una mediazione tra il suo mondo culturale e quello scolastico. Quando insegnavo italiano nelle scuole medie di Foggia mi capitavano studenti per i quali la lingua quotidiana era il dialetto. L’italiano una lingua straniera, ed estranei, ostili tutti i valori sui quali è centrata la scuola. Non basterebbe far le scuole d’oro per superare un gap di questo tipo, che è culturale. Bisognerebbe, piuttosto, cambiare la scuola. Da tempo diversi pedagogisti, inascoltati quando non derisi, cercano di attirare l’attenzione sulla questione dei compiti a casa, ad esempio. Un bambino seguito a casa da un genitore analfabeta è un bambino che in un momento essenziale della sua formazione, quello dell’applicazione delle conoscenze, è lasciato solo. Mentre altri bambini vengono seguiti, lui, che non ha che sé stesso, resta inevitabilmente indietro. Se è la famiglia a dover completare il lavoro della scuola, anche sul piano strettamente didattico, allora la differenza tra una famiglia colta e una famiglia di analfabeti diventa decisiva. Fatale. E’ uno dei meccanismi che fanno della scuola italiana una delle meno efficaci nel contrasto della disuguaglianza sociale. Un altro è la lezione frontale, che resta la base solida e indiscussa della scuola italiana, che può funzionare bene, forse, in condizioni di normalità, ma che in contesti difficili non può che lasciare il campo a metodologie più attive e coinvolgenti.
Più che di soldi, insomma, bisognerebbe discutere di che tipo di scuola vogliamo, di quale tipo di didattica e di educazione, e ovviamente (perché sempre di questo si tratta, quando parliamo di scuola) di quale società vogliamo. Ed è qui che appare evidente il vuoto di Bussetti. Il governo Renzi aveva provato a dare una direzione alla scuola. Una scuola centrata sulle tecnologie informatiche (con l’introduzione dell’animatore digitale, una figura di sistema, ma non pagata), sull’alternanza scuola lavoro, sul protagonismo dei dirigenti, sulla valorizzazione dei docenti più bravi o presunti tali. Una visione fortemente discutibile, ma pur sempre una visione. Il governo attuale non ha alcuna idea di scuola e di educazione, a meno che non si vogliano elevare al rango di idea le penose volgarità di Salvini sugli schiaffi educativi.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 10 febbraio 2019.

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La libertà di culto non vale per i satanisti?


Qualche giorno fa, a margine della risibile polemicuccia italiota riguardo le presunte invocazioni a Satana al festival di Sanremo, con immancabile presa di posizione del ministro dell'Interno, mi son chiesto sul mio profilo Facebook: "Ma esattamente perché le sette sataniche dovrebbero essere un problema? Non è grave che un ministro attacchi pubblicamente gli appartenenti ad una credenza religiosa? Che sarebbe successo se avesse detto che i protestanti, gli ebrei o i neocatecumenali sono un problema da combattere? Perché in questo paese non è possibile essere satanisti?".
Il mio post ha inquietato assai alcuni bravi senesi, che improvvisandosi piccoli inquisitori di provincia hanno gridato allo scandalo per le mie parole di gravità inaudita, incompatibili con il mio ruolo di docente nel liceo cittadino. Quelle parole, dicono, dimostrano che il sottoscritto non può avere "le qualità morali richieste per un ruolo delicato come il suo quale quello di formare le giovani menti". Per questi Torquemada in sedicesimo io avrei violato l'articolo 415 del Codice Penale: "Altrimenti, quando un domani troveremo tombe sfregiate, cadaveri vilipesi, animali trucidati per le strade, non vi lamentate".
Non è naturalmente il caso di difendersi da questa accuse deliranti. Ci sarebbe da scrivere qualcosa su un certo ambiente provinciale che si scandalizza ogni tre per due, per il quale tutto ciò che esce dalla sacra triade Dio-Patria-Famiglia è eresia e fa sudare le mani e tremare le gambe, ma magari un'altra volta. Voglio scrivere due o tre cose sulla faccenda del satanismo e della libertà religiosa, che davvero mi sta a cuore.
Dunque: non hanno i satanisti diritto di seguire le loro credenze? Non è il satanismo un credo come un altro? La libertà di culto deve trovare un limite preciso nel solo satanismo?

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La scuola e il vuoto

Le parole del ministro Bussetti sulle scuole del sud - "Vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Lavoro, impegno, sacrificio" - sono una bestialità ed offendono lo straordinario lavoro quotidiano di migliaia di docenti meridionali. Bisogna dire però che la domanda del giornalista cui rispondevano è non meno bestiale: "Cosa arriverà di più qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord? Più fondi?". Un giornalista che peraltro non aveva ascoltato, a quanto pare, quello che Bussetti aveva detto solo qualche secondo prima, e cioè che non esistono scuole del nord e scuole del sud, ma solo scuole italiane. Con buone ragioni. Ho insegnato per più di dieci anni in scuole del sud, dalle medie ai professionali e ai licei, e da qualche anno insegno in Toscana. Dove ho trovato scuole che hanno problemi gravissimi e che si trovano a fronteggiare problemi di forte disagio sociale senza avere i fondi necessari per acquistare anche quel minimo di strumentazione informatica richiesta dalla svolta digitale della scuola italiana.
Ma quella domanda rappresenta una bestialità soprattutto perché riduce i complessi problemi della scuola ad una semplice questione di fondi. Che la scuola abbia bisogno di investimenti è ovvio. Investimenti sulle strutture, che cadono a pezzi; investimenti sulla valorizzazione dei docenti, che sono malpagati e sempre meno socialmente apprezzati; investimenti nella sperimentazione educativa e didattica. Ma è ingenuo e superficiale ritenere che basti dare più soldi alle scuole per superare i numerosi gap del nostro paese, e non solo del sud.

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Sentire l'universo

“Sentire l’universo attraverso ogni sensazione. Che importa allora che ciò sia piacere o dolore? Se si ha la mano stretta da un essere amato, rivisto dopo lungo tempo, che importa se stringe forte e fa male?”

Simone Weil, Quaderni, vol. I, Adelphi, p. 229.

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Una città che non sa sognare i propri figli

“Ciascuno cresce solo se sognato”. E’ il bellissimo verso conclusivo di una poesia di Danilo Dolci, che compendia con straordinaria efficacia tutto il suo impegno educativo e sociale. E che vale, da solo, più di qualche tomo di pedagogia, una disciplina che oscilla tra un vacuo moralismo e una non meno vacua ricerca del nuovo. Vuol dire, quel verso, che non puoi educare nessuno se non hai la capacità di interpretare le sue possibilità; se non sai vedere nel ragazzino rozzo e violento di oggi la persona onesta, buona, pacifica che potrà essere domani. Diseducare è invece prendere il dato attuale e considerarlo definitivo.
La figura di Dolci sta uscendo da qualche anno dall’oblio nel quale era precipitata dopo la sua morte, nel 1997, e quel verso è oggi perfino un po’ abusato. Ma non è un male. Basterebbe, da solo, ad avviare una discussione pubblica sull’educazione. Non è forse vero che educare significa sognare quello che saranno i nostri figli? E siamo davvero capaci di farlo? Sappiamo sognare le nuove generazioni?

Negli ultimi giorni – mentre le forze dell’ordine arrestavano alcuni pericolosi, e giovanissimi, rappresentanti della innominata mafia locale – il principale tema di discussione a Foggia è stato quello di alcune ragazzine, anzi bambine, che terrorizzavano i passanti in centro, con aggressioni gratuite. Sono diventate, queste bambine di cui non era difficile indovinare il profilo sociale, il primo problema della città. E sui social la città ha riservato loro quella ferocia che in genere riserva agli extracomunitari. Riporto qualche commento; mi piacerebbe, perché qualcuno dovrebbe cominciare ad assumersi la responsabilità sociale delle sue azioni, riportare anche i nomi, ma mi limiterà al genere. “Linciatele” (donna), “Bruciatele vive” (uomo), “Pestatele a ste bestie” (donna), “Ste puttanelle… andrebbero massacrate di sberle” (uomo), ” A queste zoccole prima ai genitori è [sic] poi a loro un bel paliatone se denunciano ancora paliatone è [sic] poi portarle su un’isola a pane e acqua” (uomo), “Linciare no e il minimo una volta prese si portano al centro della piazza via lanza e subiscono cio [sic] che loro facevano alle loro vittime, cosi la prossima volta ci pensano di nn ronpere [sic] il cazzo alle persone ste cesse” (uomo; una donna dice di concordare: sul suo profilo c’è una foto in cui sventola una bandiera della pace); “saranno future bestie, figlie di bestie” (donna). Eccetera.
Ho detto che questa è la ferocia che in genere si riserva agli extracomunitari. Non mi sorprende. Nei commenti è chiara la percezione della provenienza sociale delle bambine. E il nuovo razzismo, per me, non è altro che questo: odio verso chi vive situazioni di esclusione sociale. Un odio che è performativo: crea a sua volta maggiore esclusione sociale, in una spirale tragica.
Una verità elementare è che non siamo noi a decidere quello che siamo. Non, certamente, a dieci o dodici anni. Siamo il risultato di un contesto. La famiglia, certo; ma anche la città. Un bambino che a dodici anni conosce solo la violenza è il risultato di una città in cui molte cose non vanno. Una città in cui la ricchezza è distribuita in modo diseguale, tanto per cominciare. In cui alcuni sono ricchi, moltissimi sono poveri, alcuni sono poverissimi. E’ un problema che riguarda tutti i paesi occidentali (negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata a causa delle politiche neoliberiste), e colpisce città come Foggia più di altre. La povertà genera disagio, ignoranza, abbandono, che a sua volta genera altra povertà, anzi miseria. A spezzare questa spirale dovrebbe pensare la politica. Ma avere masse di disperati da manipolare, il cui voto costa un pacco di pasta o poco più, fa comodo. E allora lasciamo stare le cose così. 
Dolci chiamava un sistema simile clientelare-mafioso. Un sistema che trasuda rabbia e violenza, in cui il sogno di molti – espresso in pubblico, senza pudore, sapendo di trovare consenso – è poter linciare o dar fuoco a qualcuno. Purché sia debole. Un migrante o una bambina di dodici anni, poco importa. 
Articolo pubblicato su l’Attacco, 12 febbraio 2019.

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Sentire l'universo

"Sentire l'universo attraverso ogni sensazione. Che importa allora che ciò sia piacere o dolore? Se si ha la mano stretta da un essere amato, rivisto dopo lungo tempo, che importa se stringe forte e fa male?"

Simone Weil, Quaderni, vol. I, Adelphi, p. 229.

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Una città che non sa sognare i propri figli

"Ciascuno cresce solo se sognato". E' il bellissimo verso conclusivo di una poesia di Danilo Dolci, che compendia con straordinaria efficacia tutto il suo impegno educativo e sociale. E che vale, da solo, più di qualche tomo di pedagogia, una disciplina che oscilla tra un vacuo moralismo e una non meno vacua ricerca del nuovo. Vuol dire, quel verso, che non puoi educare nessuno se non hai la capacità di interpretare le sue possibilità; se non sai vedere nel ragazzino rozzo e violento di oggi la persona onesta, buona, pacifica che potrà essere domani. Diseducare è invece prendere il dato attuale e considerarlo definitivo.
La figura di Dolci sta uscendo da qualche anno dall'oblio nel quale era precipitata dopo la sua morte, nel 1997, e quel verso è oggi perfino un po' abusato. Ma non è un male. Basterebbe, da solo, ad avviare una discussione pubblica sull'educazione. Non è forse vero che educare significa sognare quello che saranno i nostri figli? E siamo davvero capaci di farlo? Sappiamo sognare le nuove generazioni?

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Dopo Dio, dopo Auschwitz

Sull’Attacco di venerdì Michele Illiceto ha ricordato le inquietudini della teologia e della filosofia dopo Auschwitz. Il dilemma, per chi crede, è: o Dio avrebbe potuto salvare gli ebrei, ma non ha voluto farlo, o avrebbe voluto farlo, ma non ha potuto. Dio, dunque, è buono ma impotente oppure potente ma non buono. Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il melangolo) non ha dubbi: un credente non può assolutamente rinunciare a pensare che Dio sia buono. E se non ha aiutato, dunque, è perché non poteva: perché era debole. “Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza”, scrive Jonas, che sa bene di allontanarsi da una tradizione ben consolidata che enfatizza la forza e l’efficacia dell’intervento divino. L’alternativa è, per lui, rifugiarsi nell’incomprensibilità e nel mistero.

Mi sembra interessante provare a percorrere l’altro sentiero, che Jonas scarta subito: che Dio sia potente, ma non buono. Se si legge il libro di Giobbe, quello che emerge è proprio il profilo di un Dio che, più che non buono, è al di là sia del bene che del male, un Dio la cui potenza non è limitata da nessuna concezione etica, da alcun obbligo morale. Proviamo a pensare che Dio non sia buono né cattivo. Il che significa che è indifferente alla vicenda umana, poiché definiamo buono o cattivo solo ciò che è in relazione con noi. Pensiamo, come faceva Epicuro, che Dio, se pure c’è, sia indifferente all’essere umano.

Non è difficile intuire che questo sentiero conduce oltre il cristianesimo, poiché essere cristiano significa credere che Dio ha sacrificato sé stesso per la salvezza dell’uomo. Ma non è un sentiero che conduce oltre la religione. Non tutte le religioni ritengono che Dio sia buono o che sia un essere personale (per dirla tutta, non tutte le religioni credono in Dio). Il Taoismo, ad esempio, caratterizza il Tao in un modo che non ha nulla a che fare con un Dio personale e buono, così come non ha nulla di personale o di etico il Brahman dello hinduismo. Se Dio è qualcosa di trascendente, possiamo considerare Dio l’universo, con la sua inconcepibile vastità, con i suoi infiniti misteri, con le sue leggi che sfidano la logica e il senso comune. Ma un tale universo è freddo e distante. Che farci?

Nel Seicento Spinoza si pose, e pose all’Europa, una domanda che è ancora attualissima: in che modo possiamo essere felici indipendentemente da quello che ci accade? Esiste un bene che possa darci una felicità che nulla può attaccare? Per rispondere a questa domanda partì da lontano. Parlò della Natura come una realtà impersonale, indifferente a noi e alle nostre umanissime esigenze; disse che quella Natura era Dio, ma fu subito chiaro a tutti che quel Dio nulla aveva a che fare con il Dio dell’ebraismo e del cristianesimo. La sua conclusione fu che la felicità costante, inattaccabile, consiste nel vivere non in un’ottica limitata, egoistica, ma sentendosi costantemente parte di quell’Essere infinito, della Natura che ci trascende e ci unisce tutti. E, nel suo pensiero, questo essere legati all’eterno ci consente anche di vincere l’odio con l’amore, le passioni tristi con la gioia.

C’è in lui un Dio che è potente, ma non è buono nel senso della bontà del Dio ebraico-cristiano (che è un prendersi cura dell’uomo); e c’è, anche, un vivere divinamente, per così dire, stando in questo Dio che nulla concede al nostro bisogno di rassicurazione. Queste due cose – disumanizzare Dio e cercare al contempo la gioia – sono attualissime, costituiscono le direzioni di una autentica ricerca spirituale nell’epoca postmoderna.

Non illudiamoci: Dio è morto. Vorrei poter dire che è morto e sepolto, ma non è così. E’ un morto insepolto, un cadavere ingombrante che qualcuno cerca di rianimare, con tentativi sostanzialmente patetici. Il Dio debole di Jonas e di Bonhoeffer cerca di salvare almeno uno degli aspetti centrali della visione del mondo cristiana: il narcisismo. L’uomo al centro del mondo, che ha messo Dio stesso al suo servizio. Dio non potrà salvarlo, aiutarlo, soccorrerlo, ma è con lui nella sofferenza. La centralità è salvata: il dolore umano trova risonanza cosmica nel dolore di Dio. Basta fare un piccolo passo, ancora, per cominciare a pensare in modo nuovo: Dio non è (solo) diventato debole; Dio è morto, semplicemente. E’ morto, si potrebbe aggiungere, dopo aver vissuto una breve vita criminale, dopo aver messo un popolo contro l’altro, comandato stermini, seminato odio mascherato da amore, costruito una civiltà della paura e della speranza, due passioni ugualmente infelici. Il Dio-Persona, dagli evidenti tratti maschili, è un fugace affioramento nella storia della specie, che ci stiamo lasciando definitivamente alle spalle. E poi?

Tra le vittime di Auschwitz c’è Etty Hillesum. Non era una filosofa né una teologa. Lavorava come dattilografa e teneva un diario. Ma quel diario testimonia una spiritualità che è tra le più profonde del Novecento. Un libro in cui si legge: “Se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura, e per puro interesse nei confronti dell’umanità: Mio Dio, ragazzo, che cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni?” Anche Hillesum parla di Dio. Se il Dio-Natura di Spinoza è fuori di noi, è la Natura che ci trascende, il Dio di Hillesum è in noi, è il fondo di noi stessi, una sorta di sorgente pura non toccata dal male. Anche questa una concezione di Dio che ha poco a che fare con il Dio della tradizione ebraico-cristiana, benché i cattolici tendano a considerarla una santa con qualche imbarazzante propensione per il sesso.

La domanda, ora, non è più: Dio c’è, se c’è Auschwitz?; e quale Dio? La domanda è un’altra: è possibile, qualunque cosa avvenga – anche Auschwitz – mantenere dentro di noi la capacità di amare anche il nostro aguzzino? Se questa possibilità c’è, allora c’è ancora una via per la spiritualità nel tempo della morte di Dio. Una spiritualità che non chiede nulla a un Dio-Tappabuchi, per usare un termine di Bonhoeffer, un Dio rassicurante che ci salvi dal male e dai nemici, ma è l’atto al tempo stesso umano e più che umano con il quale si accende una luce nel buio e la si custodisce, costi quel che costi.

Articolo pubblicato su L’Attacco, 6 febbraio 2019.

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Dopo Dio, dopo Auschwitz

Sull'Attacco di venerdì Michele Illiceto ha ricordato le inquietudini della teologia e della filosofia dopo Auschwitz. Il dilemma, per chi crede, è: o Dio avrebbe potuto salvare gli ebrei, ma non ha voluto farlo, o avrebbe voluto farlo, ma non ha potuto. Dio, dunque, è buono ma impotente oppure potente ma non buono. Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il melangolo) non ha dubbi: un credente non può assolutamente rinunciare a pensare che Dio sia buono. E se non ha aiutato, dunque, è perché non poteva: perché era debole. "Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza", scrive Jonas, che sa bene di allontanarsi da una tradizione ben consolidata che enfatizza la forza e l'efficacia dell'intervento divino. L'alternativa è, per lui, rifugiarsi nell'incomprensibilità e nel mistero.
Mi sembra interessante provare a percorrere l'altro sentiero, che Jonas scarta subito: che Dio sia potente, ma non buono. Se si legge il libro di Giobbe, quello che emerge è proprio il profilo di un Dio che, più che non buono, è al di là sia del bene che del male, un Dio la cui potenza non è limitata da nessuna concezione etica, da alcun obbligo morale. Proviamo a pensare che Dio non sia buono né cattivo. Il che significa che è indifferente alla vicenda umana, poiché definiamo buono o cattivo solo ciò che è in relazione con noi. Pensiamo, come faceva Epicuro, che Dio, se pure c'è, sia indifferente all'essere umano.
Non è difficile intuire che questo sentiero conduce oltre il cristianesimo, poiché essere cristiano significa credere che Dio ha sacrificato sé stesso per la salvezza dell'uomo. Ma non è un sentiero che conduce oltre la religione. Non tutte le religioni ritengono che Dio sia buono o che sia un essere personale (per dirla tutta, non tutte le religioni credono in Dio). Il Taoismo, ad esempio, caratterizza il Tao in un modo che non ha nulla a che fare con un Dio personale e buono, così come non ha nulla di personale o di etico il Brahman dello hinduismo. Se Dio è qualcosa di trascendente, possiamo considerare Dio l'universo, con la sua inconcepibile vastità, con i suoi infiniti misteri, con le sue leggi che sfidano la logica e il senso comune. Ma un tale universo è freddo e distante. Che farci?

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Un contesto di degrado

Un bambino massacrato di botte dal compagno della madre per aver rotto, giocando, la testiera del letto. Il brutale assassinio di Cardito suscita rabbia, indignazione, incredulità. La difesa dei bambini non è nemmeno un principio di civiltà: è qualcosa di più arcaico, iscritto nella nostra stessa natura di mammiferi, la protezione a tutti i costi dei cuccioli che accomuna noi, scimmie dotate di ragione e di cultura, con i cani, i gatti, i maiali. Ma noi siamo, appunto, esseri culturali, ed in nome della cultura spesso siamo più violenti degli animali. E’ quello che accade con i bambini. Nel paese che s’indigna per la tragedia di Cardito la violenza sui bambini è ampiamente praticata, e perfino teorizzata. E’ il paese in cui un ministro dell’Interno può twittare senza suscitare alcuno sconcerto: “Educazione civica in classe, e se non basta anche due ceffoni a casa da mamma e papà”. Una frase che avrebbe comportato le immediate dimissioni in paesi come la Svezia nei quali per uno schiaffo a un bambino si finisce in galera, e che invece nel nostro paese suscita approvazione.
Non c’è nessun’altra categoria sociale nei cui confronti sia consentito lo schiaffo. Se un giudice, prima di emettere sentenza, schiaffeggiasse un pluriomicida, la cosa sarebbe considerata una grave violazione dei suoi diritti. Al bambino basta molto meno per essere umiliato: perché il danno maggiore, nello schiaffo, non è il dolore fisico, ma l’umiliazione. Il senso di impotenza, l’essere in balia dell’arbitrio altrui. La negazione del diritto al rispetto, che è riconosciuto a chiunque, ma non al bambino. Un bambino schiaffeggiato impara molte cose. Impara che la violenza è una cosa accettabile, che picchiare qualcuno può essere un buon modo di affrontare i problemi relazionali. Impara che il più forte ha ragione. Impara che il dialogo, la ragione non servono. E no, non impara a star buono: perché la rabbia repressa viene sfogata appena fuori casa, su persone o cose, con atti che verranno riportati ai genitori, causando nuova violenza, e dunque nuova rabbia, in un circolo vizioso terribile.

Eppure i genitori che ritengono lo schiaffo uno strumento educativo accettabile, se non necessario, sono gli stessi che levano alte grida se a ricorrere alla violenza educativa è una maestra. Questa contraddizione si spiega con un tassello ulteriore che completa un quadro fosco: i genitori credono di essere gli unici ad avere diritto di esercitare violenza sui figli, perché il bambino è cosa loro. Appartiene alla famiglia, non alla comunità, e la famiglia può permettersi cose di cui alla comunità non deve render conto.
Si dice che il brutale assassinio di Cardito è maturato in un contesto di degrado, ed è senz’altro vero. Ma è anche una interpretazione deresponsabilizzante: il caso è eccezionale, legato a una situazione-limite, e dunque non ci riguarda, non ci interpella. C’è invece un contesto più ampio, un più vasto degrado dietro quella vicenda, ed è l’incapacità del nostro paese – il paese di Maria Montessori – di creare una solida, condivisa, radicata cultura del rispetto dell’infanzia.
Articolo pubblicato su L’Attacco del 1 febbraio 2019.

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Un contesto di degrado

Un bambino massacrato di botte dal compagno della madre per aver rotto, giocando, la testiera del letto. Il brutale assassinio di Cardito suscita rabbia, indignazione, incredulità. La difesa dei bambini non è nemmeno un principio di civiltà: è qualcosa di più arcaico, iscritto nella nostra stessa natura di mammiferi, la protezione a tutti i costi dei cuccioli che accomuna noi, scimmie dotate di ragione e di cultura, con i cani, i gatti, i maiali. Ma noi siamo, appunto, esseri culturali, ed in nome della cultura spesso siamo più violenti degli animali. E' quello che accade con i bambini. Nel paese che s'indigna per la tragedia di Cardito la violenza sui bambini è ampiamente praticata, e perfino teorizzata. E' il paese in cui un ministro dell'Interno può twittare senza suscitare alcuno sconcerto: "Educazione civica in classe, e se non basta anche due ceffoni a casa da mamma e papà". Una frase che avrebbe comportato le immediate dimissioni in paesi come la Svezia nei quali per uno schiaffo a un bambino si finisce in galera, e che invece nel nostro paese suscita approvazione.
Non c'è nessun'altra categoria sociale nei cui confronti sia consentito lo schiaffo. Se un giudice, prima di emettere sentenza, schiaffeggiasse un pluriomicida, la cosa sarebbe considerata una grave violazione dei suoi diritti. Al bambino basta molto meno per essere umiliato: perché il danno maggiore, nello schiaffo, non è il dolore fisico, ma l'umiliazione. Il senso di impotenza, l'essere in balia dell'arbitrio altrui. La negazione del diritto al rispetto, che è riconosciuto a chiunque, ma non al bambino. Un bambino schiaffeggiato impara molte cose. Impara che la violenza è una cosa accettabile, che picchiare qualcuno può essere un buon modo di affrontare i problemi relazionali. Impara che il più forte ha ragione. Impara che il dialogo, la ragione non servono. E no, non impara a star buono: perché la rabbia repressa viene sfogata appena fuori casa, su persone o cose, con atti che verranno riportati ai genitori, causando nuova violenza, e dunque nuova rabbia, in un circolo vizioso terribile.

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