In margine a un concerto
In margine a un concerto
Il vangelo leghista
וְאָהַבְתָּ לְרֵעֲךָ כָּמוֹךָ…e ama il tuo prossimo come te stesso.
Partito di là, Gesù si ritirò nelle regioni di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna cananea, originaria di quei paesi, gridava: “Abbiate pietà di me, signore, figlio di Davide; mia figlia è duramente vessata dal demonio!”. Ma egli non le rispose neppure una parola. Avvicinatisi i discepoli, lo pregavano: “Esaudiscila, perché sta gridando dietro a noi”. Egli rispose; “Non sono stato mandato se non alle pecore disperse della casa d’Israele”. Ma essa venne a prostrarsi davanti a lui e disse: “Signore, soccorrimi!”. Ed egli: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cani“. Ma ella disse: “Si, signore, ma anche i cani si nutrono delle briciole che cadono dalla mensa dei loro padroni“. Allora Gesù rispose: “O donna, grande è la tua fede! ti sia fatto come tu vuoi”. Da quel momento sua figlia fu guarita.
Il vangelo leghista
וְאָהַבְתָּ לְרֵעֲךָ כָּמוֹךָ...e ama il tuo prossimo come te stesso.
La libertà di culto non vale per i satanisti?
La scuola e il vuoto
Le parole del ministro Bussetti sulle scuole del sud – “Vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Lavoro, impegno, sacrificio” – sono una bestialità ed offendono lo straordinario lavoro quotidiano di migliaia di docenti meridionali. Bisogna dire però che la domanda del giornalista cui rispondevano è non meno bestiale: “Cosa arriverà di più qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord? Più fondi?”. Un giornalista che peraltro non aveva ascoltato, a quanto pare, quello che Bussetti aveva detto solo qualche secondo prima, e cioè che non esistono scuole del nord e scuole del sud, ma solo scuole italiane. Con buone ragioni. Ho insegnato per più di dieci anni in scuole del sud, dalle medie ai professionali e ai licei, e da qualche anno insegno in Toscana. Dove ho trovato scuole che hanno problemi gravissimi e che si trovano a fronteggiare problemi di forte disagio sociale senza avere i fondi necessari per acquistare anche quel minimo di strumentazione informatica richiesta dalla svolta digitale della scuola italiana.
Ma quella domanda rappresenta una bestialità soprattutto perché riduce i complessi problemi della scuola ad una semplice questione di fondi. Che la scuola abbia bisogno di investimenti è ovvio. Investimenti sulle strutture, che cadono a pezzi; investimenti sulla valorizzazione dei docenti, che sono malpagati e sempre meno socialmente apprezzati; investimenti nella sperimentazione educativa e didattica. Ma è ingenuo e superficiale ritenere che basti dare più soldi alle scuole per superare i numerosi gap del nostro paese, e non solo del sud.
La principale piaga italiana, nel campo dell’istruzione, è l’abbandono scolastico. Al di sotto dei 25 anni il 17,25% dei giovani hanno abbandonato la scuola prima di conseguire il diploma; siamo il penultimo paese nell’area OCSE. E l’abbandono scolastico è un sintomo di disagio sociale. Abbandona la scuola il ragazzino che non ci crede, alla favola bella che se ti impegni e studi e prendi una laurea poi otterrai un lavoro che ti consentirà di fare una vita come si deve; e non ci crede perché ha spesso dei docenti precari, che nonostante la laurea faticano a tirare avanti e pagare il mutuo, e perché conosce chi sta anche peggio: ragazzi con una laurea che sbarcano il lunario con lavoretti precari, quotidianamente umiliati da una società che non sa cosa farsene della loro preparazione e della loro passione. Ma abbandona la scuola anche, e più spesso, il ragazzino che non riesce a trovare una mediazione tra il suo mondo culturale e quello scolastico. Quando insegnavo italiano nelle scuole medie di Foggia mi capitavano studenti per i quali la lingua quotidiana era il dialetto. L’italiano una lingua straniera, ed estranei, ostili tutti i valori sui quali è centrata la scuola. Non basterebbe far le scuole d’oro per superare un gap di questo tipo, che è culturale. Bisognerebbe, piuttosto, cambiare la scuola. Da tempo diversi pedagogisti, inascoltati quando non derisi, cercano di attirare l’attenzione sulla questione dei compiti a casa, ad esempio. Un bambino seguito a casa da un genitore analfabeta è un bambino che in un momento essenziale della sua formazione, quello dell’applicazione delle conoscenze, è lasciato solo. Mentre altri bambini vengono seguiti, lui, che non ha che sé stesso, resta inevitabilmente indietro. Se è la famiglia a dover completare il lavoro della scuola, anche sul piano strettamente didattico, allora la differenza tra una famiglia colta e una famiglia di analfabeti diventa decisiva. Fatale. E’ uno dei meccanismi che fanno della scuola italiana una delle meno efficaci nel contrasto della disuguaglianza sociale. Un altro è la lezione frontale, che resta la base solida e indiscussa della scuola italiana, che può funzionare bene, forse, in condizioni di normalità, ma che in contesti difficili non può che lasciare il campo a metodologie più attive e coinvolgenti.
Più che di soldi, insomma, bisognerebbe discutere di che tipo di scuola vogliamo, di quale tipo di didattica e di educazione, e ovviamente (perché sempre di questo si tratta, quando parliamo di scuola) di quale società vogliamo. Ed è qui che appare evidente il vuoto di Bussetti. Il governo Renzi aveva provato a dare una direzione alla scuola. Una scuola centrata sulle tecnologie informatiche (con l’introduzione dell’animatore digitale, una figura di sistema, ma non pagata), sull’alternanza scuola lavoro, sul protagonismo dei dirigenti, sulla valorizzazione dei docenti più bravi o presunti tali. Una visione fortemente discutibile, ma pur sempre una visione. Il governo attuale non ha alcuna idea di scuola e di educazione, a meno che non si vogliano elevare al rango di idea le penose volgarità di Salvini sugli schiaffi educativi.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 10 febbraio 2019.
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La scuola e il vuoto
Sentire l'universo
“Sentire l’universo attraverso ogni sensazione. Che importa allora che ciò sia piacere o dolore? Se si ha la mano stretta da un essere amato, rivisto dopo lungo tempo, che importa se stringe forte e fa male?”
Simone Weil, Quaderni, vol. I, Adelphi, p. 229.
Una città che non sa sognare i propri figli
Sentire l'universo
Simone Weil, Quaderni, vol. I, Adelphi, p. 229.
Una città che non sa sognare i propri figli
Dopo Dio, dopo Auschwitz
Sull’Attacco di venerdì Michele Illiceto ha ricordato le inquietudini della teologia e della filosofia dopo Auschwitz. Il dilemma, per chi crede, è: o Dio avrebbe potuto salvare gli ebrei, ma non ha voluto farlo, o avrebbe voluto farlo, ma non ha potuto. Dio, dunque, è buono ma impotente oppure potente ma non buono. Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il melangolo) non ha dubbi: un credente non può assolutamente rinunciare a pensare che Dio sia buono. E se non ha aiutato, dunque, è perché non poteva: perché era debole. “Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza”, scrive Jonas, che sa bene di allontanarsi da una tradizione ben consolidata che enfatizza la forza e l’efficacia dell’intervento divino. L’alternativa è, per lui, rifugiarsi nell’incomprensibilità e nel mistero.
Mi sembra interessante provare a percorrere l’altro sentiero, che Jonas scarta subito: che Dio sia potente, ma non buono. Se si legge il libro di Giobbe, quello che emerge è proprio il profilo di un Dio che, più che non buono, è al di là sia del bene che del male, un Dio la cui potenza non è limitata da nessuna concezione etica, da alcun obbligo morale. Proviamo a pensare che Dio non sia buono né cattivo. Il che significa che è indifferente alla vicenda umana, poiché definiamo buono o cattivo solo ciò che è in relazione con noi. Pensiamo, come faceva Epicuro, che Dio, se pure c’è, sia indifferente all’essere umano.
Non è difficile intuire che questo sentiero conduce oltre il cristianesimo, poiché essere cristiano significa credere che Dio ha sacrificato sé stesso per la salvezza dell’uomo. Ma non è un sentiero che conduce oltre la religione. Non tutte le religioni ritengono che Dio sia buono o che sia un essere personale (per dirla tutta, non tutte le religioni credono in Dio). Il Taoismo, ad esempio, caratterizza il Tao in un modo che non ha nulla a che fare con un Dio personale e buono, così come non ha nulla di personale o di etico il Brahman dello hinduismo. Se Dio è qualcosa di trascendente, possiamo considerare Dio l’universo, con la sua inconcepibile vastità, con i suoi infiniti misteri, con le sue leggi che sfidano la logica e il senso comune. Ma un tale universo è freddo e distante. Che farci?
Nel Seicento Spinoza si pose, e pose all’Europa, una domanda che è ancora attualissima: in che modo possiamo essere felici indipendentemente da quello che ci accade? Esiste un bene che possa darci una felicità che nulla può attaccare? Per rispondere a questa domanda partì da lontano. Parlò della Natura come una realtà impersonale, indifferente a noi e alle nostre umanissime esigenze; disse che quella Natura era Dio, ma fu subito chiaro a tutti che quel Dio nulla aveva a che fare con il Dio dell’ebraismo e del cristianesimo. La sua conclusione fu che la felicità costante, inattaccabile, consiste nel vivere non in un’ottica limitata, egoistica, ma sentendosi costantemente parte di quell’Essere infinito, della Natura che ci trascende e ci unisce tutti. E, nel suo pensiero, questo essere legati all’eterno ci consente anche di vincere l’odio con l’amore, le passioni tristi con la gioia.
C’è in lui un Dio che è potente, ma non è buono nel senso della bontà del Dio ebraico-cristiano (che è un prendersi cura dell’uomo); e c’è, anche, un vivere divinamente, per così dire, stando in questo Dio che nulla concede al nostro bisogno di rassicurazione. Queste due cose – disumanizzare Dio e cercare al contempo la gioia – sono attualissime, costituiscono le direzioni di una autentica ricerca spirituale nell’epoca postmoderna.
Non illudiamoci: Dio è morto. Vorrei poter dire che è morto e sepolto, ma non è così. E’ un morto insepolto, un cadavere ingombrante che qualcuno cerca di rianimare, con tentativi sostanzialmente patetici. Il Dio debole di Jonas e di Bonhoeffer cerca di salvare almeno uno degli aspetti centrali della visione del mondo cristiana: il narcisismo. L’uomo al centro del mondo, che ha messo Dio stesso al suo servizio. Dio non potrà salvarlo, aiutarlo, soccorrerlo, ma è con lui nella sofferenza. La centralità è salvata: il dolore umano trova risonanza cosmica nel dolore di Dio. Basta fare un piccolo passo, ancora, per cominciare a pensare in modo nuovo: Dio non è (solo) diventato debole; Dio è morto, semplicemente. E’ morto, si potrebbe aggiungere, dopo aver vissuto una breve vita criminale, dopo aver messo un popolo contro l’altro, comandato stermini, seminato odio mascherato da amore, costruito una civiltà della paura e della speranza, due passioni ugualmente infelici. Il Dio-Persona, dagli evidenti tratti maschili, è un fugace affioramento nella storia della specie, che ci stiamo lasciando definitivamente alle spalle. E poi?
Tra le vittime di Auschwitz c’è Etty Hillesum. Non era una filosofa né una teologa. Lavorava come dattilografa e teneva un diario. Ma quel diario testimonia una spiritualità che è tra le più profonde del Novecento. Un libro in cui si legge: “Se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura, e per puro interesse nei confronti dell’umanità: Mio Dio, ragazzo, che cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni?” Anche Hillesum parla di Dio. Se il Dio-Natura di Spinoza è fuori di noi, è la Natura che ci trascende, il Dio di Hillesum è in noi, è il fondo di noi stessi, una sorta di sorgente pura non toccata dal male. Anche questa una concezione di Dio che ha poco a che fare con il Dio della tradizione ebraico-cristiana, benché i cattolici tendano a considerarla una santa con qualche imbarazzante propensione per il sesso.
La domanda, ora, non è più: Dio c’è, se c’è Auschwitz?; e quale Dio? La domanda è un’altra: è possibile, qualunque cosa avvenga – anche Auschwitz – mantenere dentro di noi la capacità di amare anche il nostro aguzzino? Se questa possibilità c’è, allora c’è ancora una via per la spiritualità nel tempo della morte di Dio. Una spiritualità che non chiede nulla a un Dio-Tappabuchi, per usare un termine di Bonhoeffer, un Dio rassicurante che ci salvi dal male e dai nemici, ma è l’atto al tempo stesso umano e più che umano con il quale si accende una luce nel buio e la si custodisce, costi quel che costi.
Articolo pubblicato su L’Attacco, 6 febbraio 2019.
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