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blog di antonio vigilante

רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה

Dio è buono, dici. Anzi, è il Bene. Ma dal Bene può venire il male? No, dici. Il male viene dal Diavolo. Ma perché allora nel primo libro di Samuele (16, 15) si legge:

הִנֵּה-נָא רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה, מְבַעִתֶּךָ

La CEI traduce, correttamente, "Ecco, un cattivo spirito di Dio ti turba", mentre in una traduzione evangelica trovo "uno spirito cattivo permesso da Dio", che vuol dire distorcere il testo. רוּחַ-אֱלֹהִים רָעָה significa proprio "uno spirito cattivo di Dio". Ma se Dio è il Bene, come può venire da Dio "uno spirito cattivo"?

24 novembre

Ieri a Foggia sono morti due poveri. Vivevano in una baracca, si scaldavano con un braciere. Li ha uccisi il monossido di carbonio. Non avevano ancora quarant'anni.
Una volta, quando pubblicavo un foglio anarchico che si chiamava Tophet, contai gli immigrati morti tragicamente a Foggia: per lo più investiti a bordo strada, qualcuno - come la romena Claudia Ioana Pop - annegato nelle vasche per l'irrigazione, qualcuno bruciato. Erano decine. Una strage silenziosa, che avveniva, che avviene nell'indifferenza più completa.
In genere quando delle persone sono ridotte a cose senza importanza, c'è un dispositivo di disumanizzazione. Nel mondo antico, afferma Roberto Esposito, era il concetto stesso di cosa, che finiva per inghiottire anche esseri umani. Nel mondo cristiano, sosterrei io da qualche parte se fossi meno pigro, è la figura del Diavolo che consente la disumanizzazione e il massacro. Quello che sconcerta, a Foggia, è che non c'è bisogno di alcun particolare dispositivo per giustificare questo lento massacro. La ferocia è strutturale, si situa ad un livello preculturale, è un veleno che è nell'aria, che si respira parlando, ridendo, andandosene in giro per i centri commerciali. Perfino pregando.

Sinagogia

Una intervista a Tutta un'altra scuola.

Professor Vigilante, lei è fautore di piccoli-grandi cambiamenti e novità nell'approccio con l'insegnamento, che sperimenta con gli studenti del liceo dove insegna. Ci vuoi spiegare su cosa si basa la costruzione delle relazione con loro e delle relazioni tra di loro e come questo permetta una modalità di insegnamento più efficace?

«Da qualche tempo amo usare la parola sinagogia al posto di pedagogia. Il termine pedagogia indica il "condurre il bambini", ed è evidentemente inadeguata oggi che sappiamo che l'educazione non riguarda solo i bambini, ma è un processo che dura tutta la vita. Ma dal mio punto di vista è inadeguata anche perché pensa l'educazione come l'azione con la quale un soggetto conduce e dirige un altro soggetto. Sinagogia vuol dire invece che l'educazione accade quando due o più soggetti si conducono insieme (syn). Non posso educare qualcuno senza educarmi al tempo stesso. Vi sono situazioni educative, nelle quali ognuno è al tempo stesso educatore ed educato. La scuola dovrebbe essere la situazione educativa per eccellenza, ma lo è di rado e quasi per accidente. Io ritengo che chi insegna debba riflettere a fondo su questa domanda: quando, come, a quali condizioni accade l'educazione? E' una riflessione che non può che partire da noi stessi. Quando e come siamo cresciuti? In quali situazioni siamo cambiati? Cosa ci ha fatto riflettere, ci ha spinti a vedere il mondo con occhi diversi, ad allargare lo sguardo? La mia risposta è che una relazione viva, autentica, è essenziale. Credo che l'educazione sia creare relazioni autentiche. E dal mio punto di vista non è possibile creare relazioni autentiche senza attaccare il verticismo, l'asimmetria, la gerarchia relazionale che caratterizzano le relazioni nella scuola italiana. In una relazione asimmetrica, quale si vuole che sia quella tra docente e studente, non si comunica in modo autentico. Spesso, anzi, non si comunica affatto».

6 novembre 2019

"L'individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per contro, riconosce l'impronta sublime e l'ordine ammirabile che si manifestano tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L'esistenza individuale gli là l'impressione di una prigione e vuol vivere nella piena conoscenza di tutto ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso profondo. Già nei primi stati dell'evoluzione della religione (per esempio in parecchi salmi di David e in qualche Profeta), si trovano i primi indizi della religione cosmica; ma gli elementi di questa religione sono più forti nel buddhismo, come abbiamo imparato in particolare dagli scritti ammirabili di Schopenhauer."*

- Direi che c'è tutto, qui.
- Tutto? Cosa?
- Il trascendimento. Quello che chiamo, anzi, attraversamento.
- E che ti sembra dell'ordine ammirabile?
- Che intendi?
- Intendo l'ophiocordyceps unilateralis.
- A suo modo è mirabile.
- A condizione di non essere una formica. A meno che tu non voglia dire che la formica attraversa il suo ego.
- Nemmeno io vedo una impronta sublime. Ma sento la necessità dell'attraversamento.
- Che sarà verso il radicale non senso delle cose, immagino.
- Fihi ma fihi.
- E la formica?

* Einstein, Come io vedo il mondo, Newton Compton.

Liberatore V.

Il vento di marzo porgeva al fiuto dei signori il profumo dei tempi nuovi e sibilava sulla schiena curva dei cafoni con una carezza gelida, presagio di sventura, di un volgere ancora più triste di quella faccenda affannosa e senza grazia che era ed è lo stare sulla terra, lo stare nella storia. Aggrappati al monte con la tenacia e l’energia degli organismi primitivi, chiusi nel carcere delle quattro vie d’un borgo che si palesava cacato dal nulla - più delle altre vie e città e volti, voglio dire -, i cafoni assistevano da sempre al naturale svolgersi degli eventi con la pazienza e l’indifferenza degli animali da cortile; epperò qualcosa quell’anno stava cambiando, e te ne accorgevi da una parola in più nel parlare essenziale delle donne, da una nota più lunga, più ansiosa quando chiamavano i bambini, da un innaturale affrettarsi all’uscita dalla chiesa. I ritmi avevano subito qualche cambiamento appena percettibile, l’usata trama del vivere mostrava qualche tema nuovo, e qua e là compariva un lieve strappo, un tratto liso, mentre i signori, chiusi nelle giamberghe, sembrano risplendere più che mai nella natura loro - che era, indefettibilmente, di due generi: austeri, impassibili e lontani alcuni come statue, grassi, rosei e gioviali come porcelli gli altri. I primi ai cafoni mettevano una paura fottuta, roba da scappar via alla fontana, da abbassare lo sguardo come vergini, da farsi muti come pesci. Gli altri stavano tra i cafoni come cani da guardia tra le pecore al pascolo, di tutto lieti, allegri come lo stare al mondo fosse una festa, fraternamente ironici coi cafoni, delle cui mogli sorelle e figlie non disdegnavano di apprezzare le cosce e le zinne. D’un genere suo, anzi privo di qualsivoglia genere, unico nel suo esser-così, era Liberatore.

La verità dell'annegato


La verità è reazionaria, l'interpretazione è rivoluzionaria. Questo, in sintesi estrema, è il messaggio che Gianni Vattimo affida a Essere e dintorni (La nave di Teseo, Milano 2018). Per chi, come chi scrive, si è formato filosoficamente tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, Vattimo è stato un maestro; attraverso di lui abbiamo letto Nietzsche e Gadamer, grazie ai suoi scritti siamo riusciti perfino ad entusiasmarci per Heidegger, prima che Franco Cassano ci richiamasse alla civiltà del mare contro l'ossessione heideggeriana per il bosco (Il pensiero meridiano, 1996: un libro che merita di essere riletto e rimeditato con attenzione). Ma, per quanto faccia piacere che giunga a pensarsi perfino come anarchico (gli anarchici non sono mai abbastanza), si fatica davvero a seguirlo.

Come eliminare la bocciatura e vivere felici

Dopo la pubblicazione del mio articolo sull’orale dell’esame di Stato qualcuno si è chiesto come sia possibile che uno studente giunga agli esami finali senza saper risolvere un limite. Provo a spiegarlo. Il nostro studente, che chiameremo Taldeitali, giunge allo scrutinio finale del primo anno di liceo con una sola insufficienza, grave, in matematica; nelle altre discipline ha sufficienza piena, e anche qualche otto. Che si fa? Promosso con giudizio sospeso: dovrà recuperare matematica. Dopo due mesi lo studente si presenta all’esame di riparazione e, come è prevedibile, non ne sa più di prima. Allora? I casi sono due: o il docente di matematica, che due mesi prima era rigoroso, ora diventa improvvisamente malleabile e si fa bastare quel poco che lo studente sa, o resta irremovibile e il consiglio di classe, valutando complessivamente i risultati dello studente, decide comunque di ammetterlo alla classe successiva. Il nostro Taldeitali affronterà dunque il secondo anno di liceo con basi traballanti in matematica, e rimedierà con ogni probabilità una seconda insufficienza, che sarà sanata allo stesso modo. E così per tutti gli anni di liceo, fino a giungere agli esami di Stato senza sapere molto della disciplina.
È evidente che c’è una falla nel sistema (una tra le tante). Respingere peraltro uno studente per una disciplina significa condannarlo a ripetere, l’anno successivo, tutte le discipline nelle quali ha raggiunto la piena sufficienza, solo per recuperarne una. Un assurdo evidente. A dire il vero non è meno assurdo che lo si faccia per tre discipline; anche in questo caso lo studente dovrà ripetere dieci discipline nelle quali ha raggiunto la sufficienza: vale a dire decine e decine di argomenti che già conosce. Uno spreco umano, intellettuale ma anche economico, perché un anno di scuola costa allo Stato intorno ai settemila euro all’anno. E se lo studente è bocciato, quei settemila euro sono soldi buttati.

Ismail Kadare e i labirinti della cultura

“Per l’albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all’infinito”, recita all’articolo 101 il Kanun, l’onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell’altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all’infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.

In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una sorta di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell’onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni  di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell’altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana.  L’incontro con la realtà dell’altopiano – interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti – farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l’incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.

L’atmosfera è kafkiana, soprattutto nelle pagine in cui il giovane Gjiorg si avvia, dopo l’omicidio,  verso la kulla di Orosh, una sorta di fortezza che vigila sull’applicazione del Kanun, e dove dovrà depositare al più presto l’imposta del sangue, la tassa dovuta dopo aver compiuto la vendetta. Questo cuore oscuro dell’altopiano, che si alimenta anche economicamente con lo sterminio di intere generazioni, è tuttavia minacciato dalla modernità: dal sud, da Tirana, spira un vento diverso, un modo nuovo di pensare e di vivere che rischia di far vacillare le antiche regole. Si uccide sempre meno, e sempre meno soldi arrivano ad Orosh con le imposte del sangue.

Il romanzo di Kadare è ambientato in un tempo imprecisato, ma prima dell’avvento del comunismo; e ad una prima lettura può sembrare una denuncia dei mali antichi di parte del paese in un momento in cui essi sono già, almeno in parte, trascesi (“In nessun’altra parte del mondo puoi incontrare per strada persone che, come alberi marcati per essere abbattuti, portano su di sé il segno della morte”, dice Besian Vorpsi alla moglie). Ma leggendo il romanzo  (che è del 1978, il periodo della rottura dei rapporti tra Albania e Cina, con il conseguente isolamento del paese) si ha anche la sensazione che il vero bersaglio di Kadare sia un altro. Lo scrittore si sofferma sui mille modi in cui le regole del Kanun imbrigliano la vita quotidiana, gettando una intera popolazione, oltre che nell’orrore degli assassinii incrociati, in una sorta di sindrome ossessivo-compulsiva collettiva: e questi furono i tratti del comunismo di Enver Hoxha, che terrorizzò il popolo paventando una improbabile invasione dei nemici e disseminando l’Albania di bunker antiatomici.

La kulla di Orosh fa pensare a quell’altro segno di potere che fu la villa di Hoxha nel Bloku, il quartiere centrale di Tirana allora riservato alle gerarchie del Partito. Ma quello di Kadare è anche un dramma che tematizza il rapporto tra cultura ed esistenza individuale. Attraverso il Kanun, Kadare mostra quanto può una cultura: una definizione capillare, precisissima, rigorosa e che non consente alcuna deviazione di tutte le azioni umane, una sorta di copione immanente al quale nulla e nessuno sfugge, un meccanismo che pesa come una maledizione da cui nessuno riesce a liberarsi. “Il Kanun era più forte di quanto sembrasse. Si trovava ovunque, strisciava per terra, ai margini dei campi, entrava nelle fondamenta delle case, nelle tombe, nelle chiese, nelle strade, nei mercati, nelle feste di matrimonio, saliva sino ai pascoli alpini, ancora più in alto, fino allo stesso cielo, per poi ridiscendere in forma di pioggia per riempire i corsi d’acqua, a causa dei quali accadeva almeno un terzo degli omicidi”. Quello di Gjorg è (anche) il dramma di chi si trova imprigionato nella sua stessa cultura. preso nella morsa di un modo di vivere che non consente scarti e che avvolge con un manto di lutto intere regioni. E’ un dramma che noi italiani conosciamo bene: e il libro di Kadare ha la stessa oscura forza e il medesimo valore di denuncia di romanzi come Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e di opere sociologiche come Fare presto (e bene) perché si muore di Danilo Dolci.

{1} Kanun i Lekë Dukagjinit, EDFA, Tiranë 2016, p. 70.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

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Ismail Kadare e i labirinti della cultura

Ismail Kadare
"Per l'albanese della montagna la catena di sangue e dei gradi di parentela si prolunga fino all'infinito", recita all'articolo 101 il Kanun, l'onnipervasivo codice giuridico-morale degli albanesi dell'altopiano del nord {1}. Questa continuità, che dà profondità storica e radicamento alla vita individuale, si converte in una infinita scia di sangue: perché il Kanun stabilisce, ancora, che in caso di omicidio, la famiglia della vittima ha il dovere di vendicare il sangue del parente ucciso, secondo rigorose norme rituali; a sua volta, la vendetta andrà vendicata, e così via: all'infinito, appunto. Ed è così che un omicidio diventa una mattanza senza fine.
In Aprile spezzato, capolavoro di Ismail Kadare che La Nave di Teseo pubblica ora in italiano con la traduzione di Liljana Cuka Maksuti, il Kanun si abbatte sulla vita di Gjorg, un giovane buono e riflessivo sul quale pesa il dovere di vendicare il fratello. Compiuta la vendetta ottiene la besa, una di tregua di trenta giorni durante i quali potrà circolare liberamente, protetto dalle leggi dell'onore; alla scadenza della besa dovrà correre a chiudersi nella kulla, la casa-torre familiare, e trascorrervi nascosto il resto della vita, pena la morte. Nei trenta giorni  di libertà il suo destino si incrocia con quello di Besian Vorpsi, un noto scrittore di Tirana che ha fatto fortuna scrivendo racconti sulla vita fiera e primitiva dei montanari dell'altopiano, esaltando la forza del Kanun, e che ora visita quelle terre a bordo di una carrozza elegante, in compagnia della bellissima e sensibile moglie Diana.  L'incontro con la realtà dell'altopiano - interi villaggi deserti, perché tutti gli uomini sono chiusi nelle case-torri dopo aver compiuto la loro vendetta, ed i campi restano incolti - farà vacillare la sua idealizzazione, mentre l'incontro con Gjorg cambierà per sempre la vita della moglie.

Oui, je suis John Dewey

A chi scrive capita di controllare l’accoglienza dei propri libri, sia presso i lettori (quante copie vendute?) che presso gli addetti ai lavori. Ci si imbatte così in citazioni, riprese, qualche elogio e qualche critica. Se sensata, la critica fa anche più piacere dell’elogio, perché vuol dire che le cose scritte non sono banali e danno da pensare. Una cosa meno frequente, per fortuna, è che qualcuno ti critichi, anche aspramente, ma prendendoti per un altro. E che altro!
Tempo fa ho cominciato a lavorare ad un manuale on-line di pedagogia, che poi è confluito nel progetto di divulgazione delle scienze umane Discorso Comune. Avevo scritto, tra l’altro, un capitolo sul grande filosofo e pedagogista americano John Dewey, completandolo con una scelta di testi. Ora, nel volume Sulle orme di Athena (Libreria universitaria, Padova 2016) Aldo Rizza cita diversi passi di quella piccola antologia deweyana, ma per una svista particolarmente curiosa li attribuisce a me. E, cosa ancor più curiosa, li critica passo dopo passo, parola per parola. Nel bel mezzo di una citazione di Dewey, ad esempio, annota: “Certo neppure il pragmatismo americano si spinge a dire tanto; si tratta di una estremizzazione superficiale di qualcosa che è certamente presente nel positivismo e nel pragmatismo, ma con più fine e accorta visione” (p. 338, nota). Dunque: Antonio Vigilante riprende e sviluppa il pensiero di Dewey, ma lo fa estremizzando in modo superficiale, con una visione più rozza. Peccato che tutti i testi che Aldo Rizza ha letto non siano miei, ma di John Dewey. Il quale, dunque, si trova ad essere più superficiale di sé stesso.

La cosa, è chiaro, fa ridere. E al tempo stesso riflettere. Qualche tempo fa Antonio Menna si è divertito a ipotizzare cosa sarebbe successo se Steve Jobs fosse nato a Napoli. L’esito, inutile dirlo, sarebbe stato catastrofico. Ora, il sottoscritto non corre alcun rischio di scrivere libri importanti quanto quelli di John Dewey. Facciamo però questa ipotesi: che nasca, in Italia, un filosofo della levatura di John Dewey. Ipotizziamo che questo filosofo non abbia voglia, per ragioni pienamente comprensibili, di sottoporsi al calvario della carriera accademica. Che non voglia, o non possa, fare per anni il portaborse, affrontare la trafila del dottorato, delle borse, degli assegni di ricerca eccetera; che abbia, poniamo, l’urgenza di lavorare, in mancanza di una famiglia che lo mantenga in attesa che l’accademia si accorga della sua grandezza. E’ una ipotesi tutt’altro che peregrina: se facessi l’elenco di tutti i giovani in gamba che hanno rinunciato alla carriera accademica perché le condizioni economiche famigliari non consentivano loro la condizione di portaborse (o perché – e forse più spesso – disgustati dalle logiche di selezione dei più capaci ) questo articolo diventerebbe troppo lungo. Ipotizziamo ancora che questo John Dewey italiano abbia però voglia, come succede, di continuare a pensare, studiare, scrivere. Quante possibilità avrebbe, in Italia, di essere letto con serietà? Temo che la risposta sia a pagina 338 del libro di Rizza.

Gli Stati Generali, 16 luglio 2019.

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Oui, je suis John Dewey

A chi scrive capita di controllare l'accoglienza dei propri libri, sia presso i lettori (quante copie vendute?) che presso gli addetti ai lavori. Ci si imbatte così in citazioni, riprese, qualche elogio e qualche critica. Se sensata, la critica fa anche più piacere dell'elogio, perché vuol dire che le cose scritte non sono banali e danno da pensare. Una cosa meno frequente, per fortuna, è che qualcuno ti critichi, anche aspramente, ma prendendoti per un altro. E che altro!
Tempo fa ho cominciato a lavorare ad un manuale on-line di pedagogia, che poi è confluito nel progetto di divulgazione delle scienze umane Discorso Comune. Avevo scritto, tra l'altro, un capitolo sul grande filosofo e pedagogista americano John Dewey, completandolo con una scelta di testi. Ora, nel volume Sulle orme di Athena (Libreria universitaria, Padova 2016) Aldo Rizza cita diversi passi di quella piccola antologia deweyana, ma per una svista particolarmente curiosa li attribuisce a me. E, cosa ancor più curiosa, li critica passo dopo passo, parola per parola. Nel bel mezzo di una citazione di Dewey, ad esempio, annota: "Certo neppure il pragmatismo americano si spinge a dire tanto; si tratta di una estremizzazione superficiale di qualcosa che è certamente presente nel positivismo e nel pragmatismo, ma con più fine e accorta visione" (p. 338, nota). Dunque: Antonio Vigilante riprende e sviluppa il pensiero di Dewey, ma lo fa estremizzando in modo superficiale, con una visione più rozza. Peccato che tutti i testi che Aldo Rizza ha letto non siano miei, ma di John Dewey. Il quale, dunque, si trova ad essere più superficiale di sé stesso.

Reciprocità

- Salve signor Antonio, mi chiamo Aurora e la chiamo da...
- Mi perdoni, non mi interessano offerte commerciali.
- Ma non è un'offerta commerciale. Si tratta di trading online. Lei conosce il trading online?
- Le confermo che non mi interessa.
- Ma come può sapere che non le interessa se non lo conosce?
- Ha ragione. Lei conosce la psicologia transpersonale?
- Eh?
- Bene, parliamo un po' di psicologia transpersonale.
- Oh Dio!
- Perché non vuole parlare di psicologia transpersonale con me?

La filosofia e il negativo: il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali.

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Esami di Stato, ovvero come ti ridicolizzo lo studente

Si siede davanti alla commissione. Ha lo sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata. A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata. Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente. Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché mi fate questo?

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Elogio della competenza: una replica

Perdonami, lettore: questo è uno di quegli articoli lunghi e un po’ noiosi che però non è possibile non scrivere. E’ una risposta a questo articolo polemico di Giovanni Carosotti, che a sua volta replica a questa mia recensione di un libro di Galli della Loggia. I toni di Carosotti sono antipaticissimi, ma farò finta di niente, per non farti perdere altro tempo. Per la stessa ragione sorvolerò anche su alcuni punti dell’articolo, non proprio sintetico, di Carosotti.

Una premessa. Ritengo che la scuola abbia bisogno di qualcosa di più radicale di una riforma burocratica. Sono convinto che essa sia una istituzione che ha un difetto di origine piuttosto serio: la violenza. Per secoli le aule scolastiche sono state luoghi in cui si è perpetrata una violenza anche fisica; oggi la scuola continua a portare il peso di questa tradizione. Ed è necessaria una cesura, netta. Cesura che per me passa principalmente attraverso un ripensamento della relazione tra insegnante e studente, che si configura ancora come relazione di potere (o meglio: di dominio).
Questa premessa è necessaria per spiegare ciò che a dire il vero dovrebbe essere di per sé evidente: perché considero il discorso di Ernesto Galli della Loggia reazionario. Ecco: io considero qualsiasi discorso sulla scuola che non ne metta radicalmente in discussione l’impianto autoritario, l’asimmetria, la comunicazione unidirezionale, il setting burocratico come un discorso reazionario e conservatore.

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La controeducazione sessuale

“Ha forma ovoide con l’asse maggiore dall’avanti all’indietro, ed è delimitata in basso dal perineo, lateralmente dalle cosce, in alto dall’addome. Comprende in alto, davanti alla sinfisi pubica, una sporgenza di tessuto cellulare e di grasso, detta monte di Venere”. E’ l’incipit poco rassicurante – il seguito è anche peggio – della voce “vulva” in una vecchia edizione dell’Enciclopedia Curcio. Voce scritta in piccolo, quasi sussurrata, e naturalmente non accompagnata da nessuna immagine. Chi trovandosi ad essere adolescente negli anni Ottanta avesse voluto farsi un’idea di come funziona il corpo femminile, dopo aver fatto questo inutile tentativo con la divulgazione scientifica non aveva che una alternativa: la pornografia. Una alternativa però terribilmente imbarazzante, ché si trattava di andare all’edicola con qualche amico e sussurrare: “Vorrei quello…” E l’edicolante si divertiva a rispondere a voce altissima: “Quale, quello porno?”

Oggi la pornografia è accessibile agli adolescenti fin da subito, la prima esposizione avviene spesso già a dieci anni. Difficile dire però se si tratti di un cambiamento in meglio o in peggio. Quello che resta quasi costante è l’atteggiamento della scuola. Se negli anni Ottanta il sesso a scuola era rigorosamente tabù oggi qualche scuola tenta progetti di educazione sessuale, nei quali però si avverte il più delle volte il peso si una concezione medicalizzata, centrata sulle precauzioni necessarie per evitare malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate. Che è un passo avanti rispetto alla tradizionale sessuofobia, ma trasmette comunque una visione negativa della sessualità; ciò che prima era peccato ora diventa un pericolo da cui guardarsi. E il piacere? La cosa cioè per la quale si fa l’amore? Ha poco a che fare con la scuola, da sempre. Luogo in cui si perpetravano violenze continue, anche fisiche – non bisogna mai dimenticare che la scuola è stata questo, per secoli, e che ogni volta che un docente entra in classe ha alle spalle questa tradizione violenta – oggi la scuola è il luogo del dovere, e dunque della noia. In una società nella quale la ricerca del piacere è ovunque, vero principio regolatore dell’economia e della società, la scuola crede, in buona fede o per semplice abitudine, di dover educare al dovere, al sacrificio, all’impegno. Le sfuggono un po’ di cose. Le sfugge che la pornografia sta intanto educando i ragazzi a una certa concezione della sessualità, centrata sulla performance, mentre i mass media e Instagram presentano ossessivamente corpi levigati, scolpiti, privi della minima imperfezione. Gli adolescenti cercano di costruirsi un percorso tra il silenzio imbarazzato degli adulti e il chiasso del mercato del sesso, ma spesso è difficile.
Making of Love è il progetto coraggioso di quattro ragazze e quattro ragazzi che stanno lavorando ad un film da portare nelle scuole per fare educazione sessuale in modo diverso. “Creeremo un immaginario per i ragazzi diverso da quello del porno, perché è lì che oggi si impara a fare l’amore”, si legge nel Manifesto. Qualcuno obietterà che sì, è sbagliato imparare a fare l’amore su Internet, guardando film porno, ma l’alternativa non può essere la scuola: a fare l’amore si impara dalla vita. Può essere. Ma a scuola è importante che si imparino diverse cose che la vita, qualunque cosa si intenda con questo termine, può non insegnare. Ad esempio, ad accettare il proprio corpo con le sue imperfezioni reali o immaginarie (e chi insegna sa quanto è urgente un lavoro simile), a riconoscere che esistono forme diverse di sessualità, compresa la masturbazione, e liberarsi dall’idea che esistano cose sporche. Se davvero le scuole riuscissero a fare un lavoro in questa direzione, in futuro forse sarebbe meno grande, meno doloroso, lo scarto tra la sessualità che pratichiamo e la sessualità che raccontiamo.
Dietro il progetto, che è indipendente e si finanzia grazie ad una campagna di crowdfunding, c’è la riflessione di Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione all’università di Milano Bicocca, il cui Piccolo manuale di controeducazione è uno dei testi più vivi della pedagogia italiana contemporanea. Nel pensiero di Mottana, nella sua proposta di una controeducazione e di una educazione diffusa, si concentra il meglio della pedagogia e filosofia libertaria, da Fourier a Illich. In questi ragazzi a prevalere è piuttosto l’urgenza di diventare protagonisti di un momento importante nella formazione della loro generazione, sottraendo l’educazione sessuale tanto alla freddezza scientifica quanto al moralismo aperto o dissimulato degli insegnanti. Una urgenza che ad un’istituzione chiusa e autoreferenziale, quale è ancora la scuola, non può apparire che come una provocazione e una sfida. E probabilmente lo è: ma è una provocazione necessaria.

Gli Stati Generali, 23 giugno 2019.

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Il nuovo esame di Stato e i sogni del signor Miur

Il pianista sorride al pubblico, si accomoda davanti alla tastiera, si raccoglie un attimo e poi attacca con notturno di Chopin. Va avanti per qualche minuto, la sala è già quasi presa dall’intensità di quella musica, quando all’improvviso smette di suonare e sembra porsi in ascolto, con l’espressione sicura di chi sa cosa sta facendo. Il pubblico è perplesso. Qualcuno più scaltro, o meglio informato, avverte: sta suonando 4′ 33” di John Cage. Il pubblico annuisce, è ora ammirato da una così ardita evoluzione. Dopo quattro minuti e trentatré secondi il pianista posa nuovamente le mani sulla tastiera ed attacca un blues, per proseguire con la sigla dei Puffi e concludere, con l’aria trionfale, con Tanti auguri a te. Il pubblico è in delirio.
Ecco, fino allo scorso anno l’orale dell’esame di Stato funzionava più o meno così. Lo studente preparava il percorso o la tesina, una rete surreale di link tenuti insieme da un tema centrale, che nelle varie ramificazioni si smarriva miseramente, ma funzionava ottimamente come pretesto per scegliersi una parte significativa delle domande dell’esame. Ed era divertente assistere alle evoluzioni che portavano dal male di vivere (il tema più gettonato in assoluto) al sistema muscolare, da Schopenhauer alle derivate.

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Davide Marasco: fu accanimento terapeutico

Il 28 aprile 2008 è nato mio nipote Davide. Fu subito chiaro cose non erano andate granché bene. Con il passare delle ore i problemi presero forma in tre parole: sindrome di Potter. Non ne avevamo mai sentito parlare. Facemmo una ricerca in rete, e la tragedia si mostrò in tutta la sua crudezza. La sindrome di Potter, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è incompatibile con la vita. “Prognosi costantemente infausta”: vuol dire che i bambini con sindrome di Potter muoiono. Sempre.
Davide non muore subito, però. Viene intubato ed i medici dell’ospedale di Foggia pensano di trasferirlo in altro ospedale per sottoporlo a dialisi in attesa di un improbabile (no: impossibile) trapianto di reni. Ma è necessario il consenso dei genitori, che comprensibilmente non arriva. Il dottor Magaldi si rivolge allora al Tribunale per i minorenni e chiede ed ottiene la sospensione della potestà genitoriale dei genitori di Davide, viene nominato tutor del bambino e ne dispone il trasferimento all’ospedale di Bari, dove viene sottoposto a dialisi. La vicenda diventa un caso che divide. Per alcuni si tratta di un provvedimento gravissimo, che priva due genitori dei loro diritti naturali per consentire a dei medici di mettere in pratica forme dolorose di accanimento terapeutico; per altri, è una legittima e doverosa difesa della vita. Il 30 maggio il Tribunale per i minorenni di Bari restituisce ai genitori la potestà genitoriale, con un provvedimento che suona come una beffa: i genitori saranno tenuti ad aderire a “tutte le indicazioni loro impartite, con l’avvertenza che in caso di inottemperanza potranno essere adottati nuovamente nei loro confronti provvedimenti limitativi della potestà genitoriale” (1). “Questa potestà genitoriale, nella decisione non c’è, è solo formalmente restituita ma sostanzialmente non c’è nessuno dei contenuti che caratterizzano la potestà genitoriale”, commentava il compianto Stefano Rodotà (2).

Dopo più di dieci anni la sentenza del Tribunale di Bari: quello su Davide Marasco fu accanimento terapeutico. I medici a processo – il dottor De Palo dell’ospedale di Bari oltre al citato Magaldi – si sono difesi sostenendo che la dialisi cui Davide è stato sottoposto era l’unica terapia salvavita possibile. Ma, obiettano i giudici, “alcuna terapia salvavita era concretamente prospettabile, visto che non si conoscono in letteratura casi di guarigione da una siffatta gravissima patologia mediante l’effettuazione del trapianto renale, sopravvenendo invece il decesso dei neonati affetti da tale patologia dopo pochi giorni dalla nascita. Né i convenuti sono stati in grado di confutare tale affermazione, ma si sono limitati ad invocare genericamente protocolli nazionali ed internazionali, senza meglio supportare l’affermazione con riferimenti a specifica letteratura scientifica”. Nei suoi quasi tre mesi di vita – morì il 18 luglio – Davide fu sottoposto ad intubazione, drenaggio pleurico, impianto di catetere venoso centrale, nuova intubazione orotracheale, predisposizione di accesso vascolare per dialisi, intervento chirurgico di cateterizzazione peritoneale, oltre a continui esami diagnostici. Subì perfino un assurdo intervento per risolvere una ritenzione dei testicoli. L’ho visto staccato dalle macchine, tra le braccia della madre, una sola volta: poco prima di morire.
La vicenda di mio nipote ha rappresentato per me uno spiraglio drammatico sullo stato dell’opinione pubblica nel nostro Paese. Ho un perfezionamento universitario in bioetica, come filosofo so quanto siano diversi i punti di vista su temi come il fine vita e l’eutanasia, ma quella che nelle aule universitarie è diversità di opinioni nelle televisioni, sui giornali, nei social network diventa uno scontro feroce, disumano, terribile. Persone che stanno vivendo una tragedia difficile da comprendere dal di fuori diventano nemici pubblici da attaccare senza nessuna pietà, senza risparmiare nessuna arma, comprese la diffamazione, l’irrisione, l’insulto. Eccelle in questa pratica disgustosa l’allora parlamentare cattolico Luca Volontè (attualmente a processo per corruzione). Evidentemente Volontè non ha la minima idea di cosa sia la sindrome di Potter, scrive che “sino all’età di dieci anni Davide dovrà sottoporsi a dialisi e poi sarà trapiantato e starà benone”, mentre gli sarebbe bastato perdere cinque minuti in rete per sapere che non esiste al mondo un solo bambino di dieci anni con sindrome di Potter, perché muoiono tutti poco dopo la nascita. In preda ad un autentico delirio, Volontè accusa fin dal titolo i genitori di Davide di “incredibile cinismo”, di voler “accoppare” il figlio perché non è perfetto, evoca l’eugenetica nazista, i sacrifici umani al demone Balaal, e conclude. “Davide vivrà, lo ha deciso il tribunale e il medico se ne prenderà cura, sempreché i genitori non montino una campagna per il funerale del proprio figlio” (3). Ora un tribunale ha stabilito che le cose non sono andate propriamente così.
Su un caso delicato, difficile, complesso come quello di Davide è legittimo avere posizioni diverse. Gli sviluppi della scienza e della tecnica ci pongono di fronte di continuo a nuove domande, che mettono a dura prova le nostre convinzioni. Quello che non è, che non può essere legittimo è fare le guerre ideologiche sulla pelle di chi sta soffrendo. Affermare la (presunta) purezza dei propri principi rivendicandoli sul corpo martoriato di un neonato. Incitare al disprezzo ed all’odio verso chi vive tragedie personali. I medici sono stati condannati per accanimento terapeutico. Nessun tribunale condannerà invece questo disgustoso accanimento ideologico, questo penoso sciacallaggio fondamentalista che rappresenta un cancro della nostra vita civile e morale.

(1) Il provvedimento si trova ora in Storia di Davide. Consenso informato e accanimento terapeutico, I quaderni di Eleonora, Napoli 2009, pp. 47-48.
(2) Intervista a Micromega on-line, 7 giugno 2008; ora la trascrizione è disponibile in Storia di Davide, cit., pp. 51-52.
(3) L. Volontè, L’incredibile cinismo di quei genitori di Foggia, in Liberal, 30 maggio 2008; ora in Storia di Davide, cit., pp. 45-46. Alle pp. 49-50 la mia risposta di allora: L’incredibile cinismo dell’onorevole Luca Volontè.

Gli Stati Generali, 19 giugno 2019.

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Quale discorso di sinistra sulla scuola?

Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n’esca con l’affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E’ invece l’editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: “Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo”. Pensate un po’ che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l’idraulica, non l’entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell’educazione!

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La filosofia e il negativo: il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali.

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Esami di Stato, ovvero come ti ridicolizzo lo studente

Si siede davanti alla commissione. Ha lo sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata. A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata. Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente. Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché mi fate questo?

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Elogio della competenza: una replica

Perdonami, lettore: questo è uno di quegli articoli lunghi e un po' noiosi che però non è possibile non scrivere. E' una risposta a questo articolo polemico di Giovanni Carosotti, che a sua volta replica a questa mia recensione di un libro di Galli della Loggia. I toni di Carosotti sono antipaticissimi, ma farò finta di niente, per non farti perdere altro tempo. Per la stessa ragione sorvolerò anche su alcuni punti dell'articolo, non proprio sintetico, di Carosotti.

Una premessa. Ritengo che la scuola abbia bisogno di qualcosa di più radicale di una riforma burocratica. Sono convinto che essa sia una istituzione che ha un difetto di origine piuttosto serio: la violenza. Per secoli le aule scolastiche sono state luoghi in cui si è perpetrata una violenza anche fisica; oggi la scuola continua a portare il peso di questa tradizione. Ed è necessaria una cesura, netta. Cesura che per me passa principalmente attraverso un ripensamento della relazione tra insegnante e studente, che si configura ancora come relazione di potere (o meglio: di dominio).
Questa premessa è necessaria per spiegare ciò che a dire il vero dovrebbe essere di per sé evidente: perché considero il discorso di Ernesto Galli della Loggia reazionario. Ecco: io considero qualsiasi discorso sulla scuola che non ne metta radicalmente in discussione l'impianto autoritario, l'asimmetria, la comunicazione unidirezionale, il setting burocratico come un discorso reazionario e conservatore.

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La controeducazione sessuale

"Ha forma ovoide con l'asse maggiore dall'avanti all'indietro, ed è delimitata in basso dal perineo, lateralmente dalle cosce, in alto dall'addome. Comprende in alto, davanti alla sinfisi pubica, una sporgenza di tessuto cellulare e di grasso, detta monte di Venere". E' l'incipit poco rassicurante - il seguito è anche peggio - della voce "vulva" in una vecchia edizione dell'Enciclopedia Curcio. Voce scritta in piccolo, quasi sussurrata, e naturalmente non accompagnata da nessuna immagine. Chi trovandosi ad essere adolescente negli anni Ottanta avesse voluto farsi un'idea di come funziona il corpo femminile, dopo aver fatto questo inutile tentativo con la divulgazione scientifica non aveva che una alternativa: la pornografia. Una alternativa però terribilmente imbarazzante, ché si trattava di andare all'edicola con qualche amico e sussurrare: "Vorrei quello..." E l'edicolante si divertiva a rispondere a voce altissima: "Quale, quello porno?"

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Il nuovo esame di Stato e i sogni del signor Miur

Il pianista sorride al pubblico, si accomoda davanti alla tastiera, si raccoglie un attimo e poi attacca con notturno di Chopin. Va avanti per qualche minuto, la sala è già quasi presa dall’intensità di quella musica, quando all’improvviso smette di suonare e sembra porsi in ascolto, con l’espressione sicura di chi sa cosa sta facendo. Il pubblico è perplesso. Qualcuno più scaltro, o meglio informato, avverte: sta suonando 4′ 33” di John Cage. Il pubblico annuisce, è ora ammirato da una così ardita evoluzione. Dopo quattro minuti e trentatré secondi il pianista posa nuovamente le mani sulla tastiera ed attacca un blues, per proseguire con la sigla dei Puffi e concludere, con l’aria trionfale, con Tanti auguri a te. Il pubblico è in delirio.
Ecco, fino allo scorso anno l’orale dell’esame di Stato funzionava più o meno così. Lo studente preparava il percorso o la tesina, una rete surreale di link tenuti insieme da un tema centrale, che nelle varie ramificazioni si smarriva miseramente, ma funzionava ottimamente come pretesto per scegliersi una parte significativa delle domande dell’esame. Ed era divertente assistere alle evoluzioni che portavano dal male di vivere (il tema più gettonato in assoluto) al sistema muscolare, da Schopenhauer alle derivate.

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Davide Marasco: fu accanimento terapeutico

Il 28 aprile 2008 è nato mio nipote Davide. Fu subito chiaro cose non erano andate granché bene. Con il passare delle ore i problemi presero forma in tre parole: sindrome di Potter. Non ne avevamo mai sentito parlare. Facemmo una ricerca in rete, e la tragedia si mostrò in tutta la sua crudezza. La sindrome di Potter, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è incompatibile con la vita. “Prognosi costantemente infausta”: vuol dire che i bambini con sindrome di Potter muoiono. Sempre.
Davide non muore subito, però. Viene intubato ed i medici dell’ospedale di Foggia pensano di trasferirlo in altro ospedale per sottoporlo a dialisi in attesa di un improbabile (no: impossibile) trapianto di reni. Ma è necessario il consenso dei genitori, che comprensibilmente non arriva. Il dottor Magaldi si rivolge allora al Tribunale per i minorenni e chiede ed ottiene la sospensione della potestà genitoriale dei genitori di Davide, viene nominato tutor del bambino e ne dispone il trasferimento all’ospedale di Bari, dove viene sottoposto a dialisi. La vicenda diventa un caso che divide. Per alcuni si tratta di un provvedimento gravissimo, che priva due genitori dei loro diritti naturali per consentire a dei medici di mettere in pratica forme dolorose di accanimento terapeutico; per altri, è una legittima e doverosa difesa della vita. Il 30 maggio il Tribunale per i minorenni di Bari restituisce ai genitori la potestà genitoriale, con un provvedimento che suona come una beffa: i genitori saranno tenuti ad aderire a “tutte le indicazioni loro impartite, con l’avvertenza che in caso di inottemperanza potranno essere adottati nuovamente nei loro confronti provvedimenti limitativi della potestà genitoriale” (1). “Questa potestà genitoriale, nella decisione non c’è, è solo formalmente restituita ma sostanzialmente non c’è nessuno dei contenuti che caratterizzano la potestà genitoriale”, commentava il compianto Stefano Rodotà (2).

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Quale discorso di sinistra sulla scuola?

Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n'esca con l'affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E' invece l'editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L'aula vuota. Come l'Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: "Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo". Pensate un po' che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l'idraulica, non l'entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell'educazione!

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La "logica" del leghista foggiano

Il signor Joseph Splendido lamenta la presunta omissione della nazionalità degli autori di reati sulla stampa locale e nazionale. “Perché nasconderlo quando si tratta di uno straniero a delinquere?” La risposta non è difficile, ed è sulla sua stessa pagina Facebook. Solo due giorni fa il leghista foggiano ha pubblicato la notizia di una rapina compiuta da una banca da una persona di etnia Rom. I suoi amici hanno prontamente commentato che “gli zingari sono la feccia della società” e che “la razza piu [sic] inaffidabile e [sic] quella dei rom: zingari si vendono anche le madri ma di che cosa stiamo parlando non ce [sic] gente piu [sic] bastarda”. Quando, nel novembre dello scorso anno, un incendio ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, sulla pagina del signor Splendido ho letto, con le lacrime agli occhi e vergognandomi profondamente per loro, questi commenti dei suoi amici: “Speriamo che bruciano anche loro”; “Io vi bruciavo vivi”; “Finalmente“; “Fate la pipì sopra così sapete dove andarla a fare”. Il signor Splendido non ha censurato nessuna di queste bestialità, che peraltro configurano il reato di istigazione all’odio razziale.
In sostanza il signor Splendido lamenta la mancanza di frattaglie sanguinanti da dare in pasto al suo branco di cani. Una lamentela ipocrita, perché Splendido sa bene che nell’Italia salviniana non si perde occasione, anche sui giornali, per dare addosso agli stranieri. Da leghista foggiano – chissà cosa si prova ad essere un ossimoro vivente – dovrebbe però riflettere su una cosa. Io vivo da cinque anni in un paesino sui colli della Montagnola senese. Poco più di duemila e cinquecento anime. Il tasso di stranieri è dell’11,50% circa, quasi tre volte quello di Foggia (4%). Ai quali bisogna aggiungere i numerosissimi immigrati meridionali, soprattutto siciliani, impegnati nel settore edilizio. Nel paese non si hanno notizie di reati compiuti da immigrati. Li trovo al mattino nel bus delle 7.25 che ci porta al lavoro a Siena. Da quando viviamo qui io e la mia compagna abbiamo una percezione di sicurezza tale da lasciare senza problemi le buste della spesa incustodite. E tuttavia nemmeno qui è il paradiso. Undici anni fa, nel 2008, c’è stata una rapina a mano armata in una gioielleria del paese, che finì con l’uccisione di uno dei rapinatori. Era una banda di napoletani. Due anni fa un’altra rapina, questa volta in banca. Il rapinatore, arrestato, era un pugliese residente a Grosseto, che durante le rapine fingeva di essere marocchino. Pugliese era anche l’autore di diverse rapine tra Siena e San Gimignano, compiute tra il 2015 e il 2016; un cerignolano nel 2016 ha fatto una rapina a Colle Val d’Elsa con pistole e kalashnikov, mentre era foggiano l’autore di una rapina del 2015 a Stacciano Scalo. Potrei continuare a lungo.
Una parte significativa degli atti di delinquenza nella zona in cui vivo sono compiuti da persone meridionali, molte delle quali pugliesi. Seguendo la logica del signor Splendido, i giornali dovrebbero enfatizzare la provenienza dei delinquenti. Quindi io al mattino, andando a scuola, ai Banchi di sopra dovrei imbattermi nello strillo della “Nazione”: “Foggiano assalta banca con kalashnikov”. E poi, una volta entrato in classe, affrontare gli sguardi sospettosi degli studenti.
Ecco: quando si chiede che venga sbattuta in prima pagina la provenienza di chi compie un reato, bisognerebbe ricordarsi che i foggiani continuano ad essere emigranti. E che alcuni di loro compiono reati esattamente come gli extracomunitari. E che la logica razzista per la quale se uno sbaglia sbagliano tutti – che nel caso degli extracomunitari giunge a picchi di follia pura: un etiope in quanto extracomunitario è corresponsabile di quello che ha fatto un ghanese, anche se Etiopia e Ghana sono due paesi lontanissimi – è una logica che, se applicata a noi stessi, ci porterebbe ad essere additati in molti luoghi come delinquenti della peggior specie, pur essendo persone perbene.
Ma forse sto pensando male del signor Splendido. E forse i suoi amici sono raffinati analisti sociali, che si nascondono dietro espressioni colorite perché di questi tempi fare gli intellettuali non va di moda. Forse il signor Splendido vuole che i giornalisti diano la possibilità ai lettori di ragionare sui rapporti tra reati e provenienza. In questo caso, insegnando sociologia, mi permetto di anticipare le conclusioni. Non esistono etnie peggiori di altre. Non esistono persone predisposte al crimine per il colore della pelle o per la provenienza. Non esistono dna criminali, nemmeno in senso culturale. Esistono le classi sociali e le dinamiche di classe. Esistono quelli in giacca e cravatta (benché spesso travestiti con le felpe) che ha i loro reati: ad esempio rubare allo Stato, ossia a tutti noi, quarantanove milioni di euro. Esistono poi i proletari ed i sottoproletari, che hanno reati diversi: più visibili, anche se spesso meno gravi. Ed esistono poi i sotto-sottoproletari. Sono gli equivalenti italiani dei paria indiani: persone letteralmente intoccabili come i rom o gli schiavi neri delle campagne foggiane, gente che subisce quotidianamente una impressionante disumanizzazione, persone spinte ai margini dell’umano, destinatari di una considerazione e di una cura di gran lunga inferiore a quella che ottengono i cani. Anche loro compiono reati. Non sono più gravi di quelli compiuti dalla gente in giacca e cravatta, né di quelli dei proletari. Sono reati dettati dalla disperazione, dall’esclusione sociale, dall’essere non più esseri umani, ma extracomunitari, clandestini, esseri sospesi tra l’umano e l’inumano, tra la vita e la morte. La responsabilità di questi reati, quali essi siano, è tutta sulle spalle di chi, piuttosto di lavorare per restituire a tutti dignità, riconoscimento e possibilità di vita, capitalizza l’odio sociale e razziale per il proprio vergognoso tornaconto elettorale.

L’Attacco, 26 giugno 2019.

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La "logica" del leghista foggiano

Il signor Joseph Splendido lamenta la presunta omissione della nazionalità degli autori di reati sulla stampa locale e nazionale. "Perché nasconderlo quando si tratta di uno straniero a delinquere?" La risposta non è difficile, ed è sulla sua stessa pagina Facebook. Solo due giorni fa il leghista foggiano ha pubblicato la notizia di una rapina compiuta da una banca da una persona di etnia Rom. I suoi amici hanno prontamente commentato che "gli zingari sono la feccia della società" e che "la razza piu [sic] inaffidabile e [sic] quella dei rom: zingari si vendono anche le madri ma di che cosa stiamo parlando non ce [sic] gente piu [sic] bastarda". Quando, nel novembre dello scorso anno, un incendio ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, sulla pagina del signor Splendido ho letto, con le lacrime agli occhi e vergognandomi profondamente per loro, questi commenti dei suoi amici: “Speriamo che bruciano anche loro”; “Io vi bruciavo vivi”; “Finalmente“; “Fate la pipì sopra così sapete dove andarla a fare”. Il signor Splendido non ha censurato nessuna di queste bestialità, che peraltro configurano il reato di istigazione all'odio razziale.

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8.12.2011

Sono immerso costantemente nello sguardo dell’altro, lo respiro come l’aria: ne ho bisogno. E questo bisogno è miseria, povertà, mancanza. Lo avverto quando, chiuse tre porte, mi ritrovo nudo con me stesso. E nemmeno allora sono al sicuro dallo sguardo dall’altro. Anche allora vorrei offrire la mia stessa nudità, a volte: e cercare una solenne approvazione. Ma altre volte il mio corpo diventa trasparente, il desiderio del desiderio dell’altro svanisce, e con esso svanisce parte di me: quella polvere d’umanità che mi dà un nome e un volto e una parte. E’ allora che il bisogno, il desiderio di desiderio, lasciano il posto al desiderio semplice, puro.

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8.12.2011

Sono immerso costantemente nello sguardo dell’altro, lo respiro come l’aria: ne ho bisogno. E questo bisogno è miseria, povertà, mancanza. Lo avverto quando, chiuse tre porte, mi ritrovo nudo con me stesso. E nemmeno allora sono al sicuro dallo sguardo dall’altro. Anche allora vorrei offrire la mia stessa nudità, a volte: e cercare una solenne approvazione. Ma altre volte il mio corpo diventa trasparente, il desiderio del desiderio dell’altro svanisce, e con esso svanisce parte di me: quella polvere d’umanità che mi dà un nome e un volto e una parte. E’ allora che il bisogno, il desiderio di desiderio, lasciano il posto al desiderio semplice, puro.

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La Siena spenta e un po' cafona del sindaco De Mossi

Cacio e Pere è uno dei pochissimi locali in cui a Siena si faccia musica dal vivo di qualità. O meglio: in cui si faceva. Al termine di una vicenda che ha dell’incredibile, il locale ha dovuto chiudere a causa di un vero e proprio bullismo istituzionale da parte del Comune di Siena.
Prima di analizzare la vicenda occorre qualche nota di contesto. Siena è una città con un basso tasso di natalità e un crescente invecchiamento dei residenti. Di contro, è una città universitaria, con molti studenti fuori sede. Il terzo aspetto da considerare, fondamentale quando si parla di Siena, sono le contrade, che per chi di Siena non è possono essere un mondo difficile da comprendere; luoghi di una socialità intensa, che va ben oltre i giorni del palio. Ed ecco dunque il quadro: i ragazzi di Siena si divertono nelle contrade, che spesso e volentieri fanno musica da discoteca ad altissimo volume fino a notte fonda; gli universitari provano a divertirsi nei locali fuori dalle contrade, soprattutto in via Pantaneto, la via della movida della città; i residenti sopportano, volentieri (se sono contradaioli) o per forza di cose le intemperanze delle contrade, ma sono sul piede di guerra ogni volta che un locale non contradaiolo crea il minimo disagio.

Cacio & Pere ha subito più volte provvedimenti di chiusura temporanea da parte della vecchia amministrazione Valentini, per violazione delle norme comunali sulla musica dal vivo. Fino alla chiusura, nello scorso febbraio. Ad aprile il locale ha riaperto in una nuova sede, in via della Stufa Secca, già sede di uno storico pub. Prima ancora dell’apertura, un comitato di residenti si è rivolto al Comune per esprimere preoccupazione per l’apertura del locale. Il clima di campagna elettorale ha fatto il resto. Quanti voti porta un comitato di residenti? Non solo. Il sindaco De Mossi ha vinto le elezioni perché è riuscito a presentarsi come alternativa a un sistema di potere che appare compromesso con la crisi di Montepaschi, ma anche come il difensore indefesso (in senso tecnico: è stato l’avvocato dei contradaioli processati per la rissa dopo il palio del 2015) delle contrade, e quindi della senesità più autentica. E in questo caso difendere le contrade significa anche interpretare quel certo astio, nemmeno troppo sottile, verso luoghi e forme di divertimento al di fuori delle contrade.
Il locale è stato oggetto di un vero e proprio accanimento da parte dei vigili urbani, che non hanno tuttavia rilevato nessuna infrazione. Le norme comunali sulla musica dal vivo sono state rigorosamente rispettate; gli spettacoli sono terminati addirittura prima dell’orario prescritto. Ma, come nella favola del lupo e dell’agnello, ciò non è bastato: il Comune ha disposto il 23 maggio la sospensione a tempo indeterminato delle attività del locale. Motivazione: il rumore. Si chiede una relazione sulle attività svolte, che viene presentata il giorno dopo. E poi il nulla. Un nulla burocratico, fatto di risposte che non arrivano, assessori assenti, uffici che non sanno nulla e rimandano ad altri uffici, porte chiuse a qualsiasi forma di dialogo. E intanto i giorni passano, e per un locale ogni giorno di lavoro perso è un passo verso il fallimento. Oggi il comunicato: il locale chiude, per gli otto dipendenti partono le lettere di licenziamento. Una impresa giovane, che faceva cultura nel rispetto del regolamento comunale, distrutta scientemente da un’amministrazione comunale. Difficile trovare altri casi simili in Italia.
Il sindaco di una città come Siena ha un compito delicato: da un lato deve saper difendere e valorizzare la sua straordinaria tradizione culturale, dall’altro deve evitare il rischio della città-museo, ammirevole per la sua perfezione architettonica ma priva di vita. De Mossi non ha dimostrato fino ad ora di riuscire a fare né la prima né la seconda cosa. Non è un caso che non abbia mai nominato un assessore alla cultura. L’idea di cultura della sua giunta è espressa bene dal trenino disneyano che durante il periodo natalizio ha condotto i turisti in giro per la città. Il termine chiave è location. La città diventa la cornice, lo sfondo per eventi dal gusto discutibile, buon ultimo il raduno delle Ferrari in piazza del campo della prossima domenica 9 giugno. Lo stesso museo Santa Maria della Scala, che era stato rilanciato dal direttore Daniele Pitteri (prontamente liquidato), rischia di diventare un contenitore – una location, appunto – di eventi enogastronomici, mentre la meravigliosa Sala del Mappamondo del Palazzo pubblico potrà essere adoperata per i matrimoni, per promuovere il turismo matrimoniale. Una città che si svende al miglior offerente, pronta a qualunque cafonaggine pur di incassare, e intanto costringe al silenzio chi, nel rispetto delle rigorose norme comunali, cerca di fare musica di qualità. Siena merita di meglio.

Gli Stati Generali, 4 giugno 2019.

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La cannabis light e i deliri della politica

Qualche mese fa ho provato la cannabis light. L’ho comprata  in una parafarmacia del centro di Siena, che la vendeva in diverse versioni aromatiche. Poi ho dovuto procurarmi le cartine: con qualche imbarazzo, quando il tabaccaio mi ha chiesto di quale tipo. Ho preso quelle più comuni, immaginando che andassero bene per rollare una canna, sia pure light. Ecco, rollare una canna: non avendo a portata di canna qualche studente, ho dovuto far ricorso a un video su Youtube. Esaustivo, comunque. Dopo due o tre tentativi mi sono trovato tra le mani una canna (sia pure light) rispettabilissima. Per essere sicuro di farne esperienza in modo autentico, non ho lesinato sulla quantità.
Seduto sul divano, mi sono dunque acceso la mia canna, sia pure light. Una parte di me sperava che benché fosse light, qualche interessante esperienza psichedelica l’avrei fatta. Ho fatto un tiro, poi un altro, e un altro ancora. Niente. L’ho finita. Niente. Mi son detto: dalle tempo, queste cose arrivano con calma. Ma niente niente. Ogni cosa restava testardamente sé stessa, me compreso. Dopo mezz’ora m’è venuto sonno, ma non saprei dire se per la canna (sia pure light) o per la stanchezza. Nella migliore delle ipotesi, in base alla mia esperienza posso riconoscere alla cannabis light una efficacia paragonabile a quella della tisana al tiglio.

Leggo ora che la Cassazione considera illegale la vendita di cannabis light. E il ministro Salvini si è affrettato a commentare:  “Siamo contro qualsiasi tipo di droga, senza se e senza ma, e a favore del divertimento sano”. Apprendo dunque di essermi drogato, quella sera. A dire il vero a me più che una esperienza Sesso, Droga & Rock’n’Roll è sembrata una cosa Brodino, Pigiamino & Nanna, ma se lo dice Salvini mi fido. Diciamo che mi hanno venduto dell’erba truccata, diversa da quella che ha provato Salvini (perché Salvini l’avrà provata, no, prima di esprimersi? mica sarà uno che parla a vanvera?). Cerchiamo ora di essere consequenziali. La tesi è che la cannabis, sia pure light, dev’essere vietata perché è una droga, e “qualsiasi tipo di droga” va vietata. Ma cos’è una droga? Ricorriamo, per imparzialità, alla Treccani: “Nel linguaggio corrente viene chiamata droga qualsiasi sostanza capace di modificare temporaneamente lo stato di coscienza o comunque lo stato psichico dell’individuo”. Bene: allora è droga anche il vino. E’ droga l’alcol, in qualsiasi forma. In base alla mia esperienza, è una droga infinitamente più potente di una cannabis light. Ed è una droga che fa in Italia quarantamila morti all’anno (dati di www.alcol.info). Un numero che include le persone morte per cirrosi epatiche, per malattie cardiovascolari, per infarto, ma anche le vittime causate dalla guida in stato di ebbrezza. Perché quando qualcuno beve, nessuno è al sicuro. Nemmeno il bambino che attraversa la strada.
Cosa dice Salvini, che è contro qualsiasi tipo di droga, di questa droga pericolosissima, che tante tragedie e tanti lutti provoca? Ecco: “La politica cerca il vino per quattro motivi: primo perché fa bene, secondo perché è un business, terzo perché è tutela del territorio, quarto perché rappresenta l’Italia nel mondo”. Queste le parole al Vinitaly dello scorso 7 aprile. Nelle sue parole, la droga che fa più morti in assoluto diventa un alimento che “fa bene”.
Quella della cannabis light è una faccenda in fondo marginale – i consumatori abituali di cannabis non sanno che farsene, e gli altri la provano per curiosità, e presto lasciano perdere – ma che dà la misura esatta della situazione nella quale siamo finiti. Una situazione di delirio continuo, nella quale il mondo è capovolto, problemi enormi scompaiono dall’agenda pubblica (chi parla del livello scandaloso dell’evasione fiscale?) ed altri inesistenti diventano ossessioni collettive. Un paese sotto effetto costante del delirio alimentato da “una politica che cerca il vino”. E ne abusa anche parecchio.

Gli Stati Generali, 1 giugno 2019.

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Noi docenti non ci lasciamo intimidire

A Palermo una docente viene sospesa dall’insegnamento perché in un video i suoi studenti hanno accostato il decreto sicurezza alle leggi razziali.
Ragioniamo un attimo. L’accostamento tra il decreto sicurezza e le leggi razziali è stato fatto in modo plateale dal settimanale l’Espresso, che ha aperto il numero del 30 settembre 2018 con in copertina La difesa della razza e il titolo: “1938-2018. Un decreto che discrimina. Ottant’anni dopo le leggi razziali”. Dal suo profilo Twitter – che è l’ufficio virtuale dal quale svolge per lo più il suo lavoro di ministro (in quello reale s’è fatto vedere pochissimo) – Matteo Salvini ha commentato: “Questi non sono normali!!!”. Non gli è stato possibile andare oltre i tre punti esclamativi: perché l’Italia è un paese democratico, e la libertà della stampa è uno dei fondamenti di una democrazia. Non è una libertà assoluta, ovviamente: esiste un Ordine dei giornalisti che interviene in caso di palesi violazioni. Ma non è stato, non poteva essere questo il caso, perché l’accostamento tra i due dati storici può essere discutibile, ma non è né arbitrario né viola alcuna legge.
Ora, per una democrazia la libertà dell’insegnamento (e dell’apprendimento) è un principio non meno importante della libertà della stampa. Se non sono censurabili i giornalisti per aver paragonato il decreto sicurezza alle leggi razziali, non lo sono nemmeno gli studenti e la loro docente. La libertà di riflessione e di analisi degli studenti, la libertà di insegnamento dei docenti, la libertà di informazione, di critica, di denuncia sociale dei giornalisti sono tre aspetti di una stessa libertà: la libertà democratica. Quella libertà che è stata conquistata con il sangue dei partigiani.

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La Siena spenta e un po' cafona del sindaco De Mossi

Cacio e Pere è uno dei pochissimi locali in cui a Siena si faccia musica dal vivo di qualità. O meglio: in cui si faceva. Al termine di una vicenda che ha dell'incredibile, il locale ha dovuto chiudere a causa di un vero e proprio bullismo istituzionale da parte del Comune di Siena.
Prima di analizzare la vicenda occorre qualche nota di contesto. Siena è una città con un basso tasso di natalità e un crescente invecchiamento dei residenti. Di contro, è una città universitaria, con molti studenti fuori sede. Il terzo aspetto da considerare, fondamentale quando si parla di Siena, sono le contrade, che per chi di Siena non è possono essere un mondo difficile da comprendere; luoghi di una socialità intensa, che va ben oltre i giorni del palio. Ed ecco dunque il quadro: i ragazzi di Siena si divertono nelle contrade, che spesso e volentieri fanno musica da discoteca ad altissimo volume fino a notte fonda; gli universitari provano a divertirsi nei locali fuori dalle contrade, soprattutto in via Pantaneto, la via della movida della città; i residenti sopportano, volentieri (se sono contradaioli) o per forza di cose le intemperanze delle contrade, ma sono sul piede di guerra ogni volta che un locale non contradaiolo crea il minimo disagio.

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La cannabis light e i deliri della politica

Qualche mese fa ho provato la cannabis light. L'ho comprata  in una parafarmacia del centro di Siena, che la vendeva in diverse versioni aromatiche. Poi ho dovuto procurarmi le cartine: con qualche imbarazzo, quando il tabaccaio mi ha chiesto di quale tipo. Ho preso quelle più comuni, immaginando che andassero bene per rollare una canna, sia pure light. Ecco, rollare una canna: non avendo a portata di canna qualche studente, ho dovuto far ricorso a un video su Youtube. Esaustivo, comunque. Dopo due o tre tentativi mi sono trovato tra le mani una canna (sia pure light) rispettabilissima. Per essere sicuro di farne esperienza in modo autentico, non ho lesinato sulla quantità.
Seduto sul divano, mi sono dunque acceso la mia canna, sia pure light. Una parte di me sperava che benché fosse light, qualche interessante esperienza psichedelica l'avrei fatta. Ho fatto un tiro, poi un altro, e un altro ancora. Niente. L'ho finita. Niente. Mi son detto: dalle tempo, queste cose arrivano con calma. Ma niente niente. Ogni cosa restava testardamente sé stessa, me compreso. Dopo mezz'ora m'è venuto sonno, ma non saprei dire se per la canna (sia pure light) o per la stanchezza. Nella migliore delle ipotesi, in base alla mia esperienza posso riconoscere alla cannabis light una efficacia paragonabile a quella della tisana al tiglio.

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Noi docenti non ci lasciamo intimidire

A Palermo una docente viene sospesa dall'insegnamento perché in un video i suoi studenti hanno accostato il decreto sicurezza alle leggi razziali.
Ragioniamo un attimo. L'accostamento tra il decreto sicurezza e le leggi razziali è stato fatto in modo plateale dal settimanale l'Espresso, che ha aperto il numero del 30 settembre 2018 con in copertina La difesa della razza e il titolo: "1938-2018. Un decreto che discrimina. Ottant'anni dopo le leggi razziali". Dal suo profilo Twitter - che è l'ufficio virtuale dal quale svolge per lo più il suo lavoro di ministro (in quello reale s'è fatto vedere pochissimo) - Matteo Salvini ha commentato: "Questi non sono normali!!!". Non gli è stato possibile andare oltre i tre punti esclamativi: perché l'Italia è un paese democratico, e la libertà della stampa è uno dei fondamenti di una democrazia. Non è una libertà assoluta, ovviamente: esiste un Ordine dei giornalisti che interviene in caso di palesi violazioni. Ma non è stato, non poteva essere questo il caso, perché l'accostamento tra i due dati storici può essere discutibile, ma non è né arbitrario né viola alcuna legge.
Ora, per una democrazia la libertà dell'insegnamento (e dell'apprendimento) è un principio non meno importante della libertà della stampa. Se non sono censurabili i giornalisti per aver paragonato il decreto sicurezza alle leggi razziali, non lo sono nemmeno gli studenti e la loro docente. La libertà di riflessione e di analisi degli studenti, la libertà di insegnamento dei docenti, la libertà di informazione, di critica, di denuncia sociale dei giornalisti sono tre aspetti di una stessa libertà: la libertà democratica. Quella libertà che è stata conquistata con il sangue dei partigiani.

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Elogio della dismorfofobia

“Timore ossessivo d’essere o di diventare brutti, asimmetrici, deformi. Colpisce quasi esclusivamente giovinette di fattezze belle e regolarissime”, dice l’Enciclopedia Treccani. La parola viene dal greco: paura del brutto. Dismorfofobia. A dire il vero, più che di bruttezza in senso stretto si tratta di una difficoltà di venire a patti con la propria immagine. Non riconoscersi, e per questo, sì, trovarsi brutti. Non so quanto sia vera l’affermazione che il problema colpisce quasi esclusivamente belle ragazze. Non vedo per quale ragione dovrebbe soffrirne una ragazza bella più di una poco bella. E soprattutto perché dovrebbe soffrirne una donna più di un uomo. In ogni caso, chi scrive è dismorfofobico.
Ora, la cosa ha indubbiamente i suoi lati imbarazzanti, difficili o dolorosi. Il rinnovo periodico della carta d’identità, per dire, è un passaggio talmente impegnativo che dopo averlo superato si comincia a pensare con ansia al prossimo rinnovo, tra dieci anni. Ed ogni esibizione di un documento è una fitta al cuore. “Per ottenere il rimborso la preghiamo di compilare il modulo allegato e di rimandarcelo con copia del documento di identità.” Ma perché? Tenetevi pure il rimborso, grazie. Ma può essere perfino un problema guardarsi allo specchio al mattino. Soprattutto quando non si tratta del tuo specchio, che ti è diventato in qualche modo familiare, amico nella sua ostilità. Gli specchi degli alberghi – freddi, ostili, pronti a cogliere ogni particolare della tua estraneità a te stesso, capaci di restituirti le prove della tua alienazione con asettica ferocia – diventano prove iniziatiche. Come i finestrini del treno quando scende la notte.

La tua immagine, che cerchi di dimenticare, di lasciare da parte come un peso ingombrante, un bagaglio imbarazzante che vorresti dimenticare in una stazione, ti incalza, si riaffaccia approfittando di ogni spiraglio, di ogni frammento riflettente, quasi il mondo ci tenesse a ricordarti chi sei.
Ma dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, diceva Hoelderlin. In questo caso il pericolo stesso è, per me, ciò che salva.
Sono fermamente convinto che voltare le spalle alla nostra società sia una pratica igienica, salutare, perfino salvifica. Il confronto con gli antichi, ma anche con quelli che respiravano solo un secolo fa, mi ha convinto che siamo con ogni probabilità nella società più stupida che abbia mai calcato il pianeta terra (per quanto vi siano poche notizie dei cosiddetti preistorici, che in realtà sono i protagonisti dei nove decimi della vita umana sulla terra). La stupidità è superficialità. E se la superficialità è un tratto umano costante, mi pare innegabile che oggi abbia raggiunto una perfezione prima inimmaginabile. Più che vivere, galleggiamo. scivoliamo sulle cose. E su noi stessi. Ed ecco: la cura della propria immagine, la sua riproduzione più o meno infinita, la sua arrogante imposizione all’altro mi sembra che occupino l’occhio del ciclone di banalità dal quale siamo agitati.
“Lathe biosas”, diceva il mio Epicuro. Vivi nascosto. Se c’è una massima filosofica assolutamente inattuale, è questa. Vivere nascosto? Perché mai? Nell’epoca del selfie, non c’è nulla di più insensato. E per chi l’epoca del selfie la rifiuta, per chi ne prova disgusto, non c’è prassi più rivoluzionaria. Attenzione: non si tratta di rifiutare la bellezza. Non si tratta di dire: ecco, non voglio essere bello, curato, attraente come voi. Un dismorfofobico ha un problema diverso dal sentirsi brutto. Non si riconosce. Non sente di essere lui l’immagine che vede, e questo gli provoca una sensazione dolorosa, qualcosa di non troppo diverso dal traumatico risveglio di Gregor Samsa. Ed è per questo che la dismorfofobia ha un che di rivoluzionario. La nostra civiltà si fonda sulla pretesa che le immagini, con il loro libero fluttuare, dicano la realtà. Che la rispecchino fedelmente. O meglio: che siano la realtà, tout court. La mia dismorfobia mi sottrae e a questa pretesa. Mi porta altrove. E mi consegna il diritto di essere, di sentirmi sempre al di là della rappresentazione che altri hanno di me: che vuol dire, più o meno, essere liberi.

L’Attacco, 23 maggio 2019.

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Elogio della dismorfofobia

"Timore ossessivo d'essere o di diventare brutti, asimmetrici, deformi. Colpisce quasi esclusivamente giovinette di fattezze belle e regolarissime", dice l'Enciclopedia Treccani. La parola viene dal greco: paura del brutto. Dismorfofobia. A dire il vero, più che di bruttezza in senso stretto si tratta di una difficoltà di venire a patti con la propria immagine. Non riconoscersi, e per questo, sì, trovarsi brutti. Non so quanto sia vera l'affermazione che il problema colpisce quasi esclusivamente belle ragazze. Non vedo per quale ragione dovrebbe soffrirne una ragazza bella più di una poco bella. E soprattutto perché dovrebbe soffrirne una donna più di un uomo. In ogni caso, chi scrive è dismorfofobico.
Ora, la cosa ha indubbiamente i suoi lati imbarazzanti, difficili o dolorosi. Il rinnovo periodico della carta d'identità, per dire, è un passaggio talmente impegnativo che dopo averlo superato si comincia a pensare con ansia al prossimo rinnovo, tra dieci anni. Ed ogni esibizione di un documento è una fitta al cuore. "Per ottenere il rimborso la preghiamo di compilare il modulo allegato e di rimandarcelo con copia del documento di identità." Ma perché? Tenetevi pure il rimborso, grazie. Ma può essere perfino un problema guardarsi allo specchio al mattino. Soprattutto quando non si tratta del tuo specchio, che ti è diventato in qualche modo familiare, amico nella sua ostilità. Gli specchi degli alberghi - freddi, ostili, pronti a cogliere ogni particolare della tua estraneità a te stesso, capaci di restituirti le prove della tua alienazione con asettica ferocia - diventano prove iniziatiche. Come i finestrini del treno quando scende la notte.

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La Chiesa omertosa

E’ stato condannato dalla corte d’Appello di Bari a vent’anni di carcere Gianni Trotta. Da sacerdote, ha violentato nove bambini, approfittando della sua condizione di sacerdote e di allenatore di una squadra di calcio in due paesini del Foggiano. Non si limitava alle violenze, don Gianni: gli atti venivano filmati e divulgati in Internet; a casa sua gli investigatori hanno trovato un vero centro di produzione di materiale pedopornografico. “La cosa più orribile che mi era mai capitata di vedere”, dice un investigatore.
Don Gianni, il delinquente, il pedofilo don Gianni, non è in realtà più don. La Chiesa lo ha ridotto allo stato laicale nel 2012, un provvedimento grave dal punto di vista religioso, che tuttavia ha lasciato libero un pedofilo. Perché l’uomo non è stato denunciato. La Chiesa locale sapeva che Trotta era un pedofilo, sapeva che avrebbe continuato a fare cose gravissime, sapeva che avrebbe distrutto la vita di bambini innocenti: ed ha taciuto. E l’uomo ha continuato a violentare altri bambini. La Chiesa avrebbe potuto salvarli; ha preferito salvare sé stessa. L’ex sacerdote passerà in carcere gran parte di quel che resta della sua vita. Gli altri, quelli che sapevano ed hanno preferito tacere, continueranno invece a pontificare sul bene e sul male, a considerarsi guide e pastori di anime, a riempirsi la bocca di Dio e Gesù Cristo e di Vangelo. Tanto le gente dimentica presto. Il sacerdote pedofilo – l’ennesimo – non fa notizia, non finisce sulle prime pagine dei giornali, e nonostante l’evidenza di un fenomeno sociale pericoloso e pervasivo, non crea allarme.

Nel suo libro “Sodoma” (Feltrinelli), nel quale documenta la diffusione dell’omosessualità nella Chiesa cattolica, comprese le più alte gerarchie, quelle più vicine al papa, il giornalista francese Frédéric Martel si chiede come si spieghi una così alta concentrazione di persone omosessuali in una istituzione pur apertamente omofoba. La risposta di Martel è che in passato, quando essere omosessuali significava subire un forte stigma sociale, entrare nella Chiesa offriva una via d’uscita a molti giovani: avrebbero potuto praticare l’omosessualità in un contesto riservato, nel quale ciò che conta è che si agisca con discrezione, senza fare scandalo. “Il sacerdozio – scrive Martel – è stato a lungo la via di fuga ideale per i giovani omosessuali. L’omosessualità è una delle chiavi della loro vocazione.” E questa, per Martel, è anche una delle ragioni della crisi delle vocazioni in una società in cui, nonostante l’omofobia della Chiesa, lo stigma sociale verso gli omosessuali si è di gran lunga attenuato.
Non c’è alcun problema se un sacerdote è omosessuale. E’ un problema solo per la Chiesa stessa: fino a quando continuerà nella sua lotta insensata e suicida contro l’omosessualità, anzi contro la sessualità stessa, costringerà migliaia di sacerdoti, di vescovi, di cardinali ad una penosa doppiezza. Considerando casi come quello di Trotta, tuttavia, non si può fare a meno di chiedersi se questo contesto rassicurante, questa discrezione spinta fino alla protezione di un criminale, costi quel che costi, non sia una soluzione appetibile anche per chi voglia praticare un crimine come la pedofilia con il minimo dei rischi. La Chiesa offre la possibilità di accedere all’infanzia e all’adolescenza, attraverso il catechismo, l’oratorio, le squadre di calcio, e al tempo stesso un ambiente omertoso, nel quale il massimo che si rischia è la riduzione allo stato laicale. Se le cose stanno così, la Chiesa non potrà liberarsi dalla pedofilia fino a quando non farà i conti apertamente, coraggiosamente, radicalmente con la sua sessuofobia e con la sua omofobia.

L’Attacco, 14 maggio 2019

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La Chiesa omertosa

E' stato condannato dalla corte d'Appello di Bari a vent'anni di carcere Gianni Trotta. Da sacerdote, ha violentato nove bambini, approfittando della sua condizione di sacerdote e di allenatore di una squadra di calcio in due paesini del Foggiano. Non si limitava alle violenze, don Gianni: gli atti venivano filmati e divulgati in Internet; a casa sua gli investigatori hanno trovato un vero centro di produzione di materiale pedopornografico. "La cosa più orribile che mi era mai capitata di vedere", dice un investigatore.
Don Gianni, il delinquente, il pedofilo don Gianni, non è in realtà più don. La Chiesa lo ha ridotto allo stato laicale nel 2012, un provvedimento grave dal punto di vista religioso, che tuttavia ha lasciato libero un pedofilo. Perché l'uomo non è stato denunciato. La Chiesa locale sapeva che Trotta era un pedofilo, sapeva che avrebbe continuato a fare cose gravissime, sapeva che avrebbe distrutto la vita di bambini innocenti: ed ha taciuto. E l'uomo ha continuato a violentare altri bambini. La Chiesa avrebbe potuto salvarli; ha preferito salvare sé stessa. L'ex sacerdote passerà in carcere gran parte di quel che resta della sua vita. Gli altri, quelli che sapevano ed hanno preferito tacere, continueranno invece a pontificare sul bene e sul male, a considerarsi guide e pastori di anime, a riempirsi la bocca di Dio e Gesù Cristo e di Vangelo. Tanto le gente dimentica presto. Il sacerdote pedofilo - l'ennesimo - non fa notizia, non finisce sulle prime pagine dei giornali, e nonostante l'evidenza di un fenomeno sociale pericoloso e pervasivo, non crea allarme.

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I migranti e il silenzio della politica

Fa sorridere (amaramente) l’ingenuità mostrata dai lavoratori migranti che il 6 maggio manifestavano a Foggia per la dignità e i diritti: in uno dei loro cartelli si rivolgevano al sindaco Landella per chiedergli giustizia per il giovane gambiano morto nell’incendio della sua baracca di legno e lamiera. Avranno pensato che il sindaco è, come tale, il capo di una comunità, ed il capo di una comunità non può disinteressarsi delle violazioni dei diritti elementari che accadono nella sua città. Da Landella, naturalmente, solo silenzio. Ma null’altro che silenzio giunge anche dal principale sfidante di Landella, Pippo Cavaliere. Guardo e riguardo la sua pagina Facebook, che in campagna elettorale è per ogni candidato ormai il principale strumento di propaganda, ma nulla. Non una sola parola, non un link. Per il candidato di sinistra alle elezioni la manifestazione di centinaia di migranti semplicemente non è mai avvenuta. Né mi pare che altri si siano espressi.
Posso comprenderli. L’Italia è ormai un paese in cui il razzismo ha messo solide radici, e Foggia è anche più razzista della media italiana, benché abbia un numero di migranti decisamente inferiore alle città del centro-nord. Sotto elezioni è meglio non compromettersi con questa gente, si rischia di perdere voti. Ma a non compromettersi si rischia qualcosa di peggio: di vincere, ma di non differenziarsi affatto dall’avversario. Di essere diventati di destra, nel tentativo di sconfiggere la destra.

Uno degli argomenti di destra contro i migranti – uno dei pochi che usano quando provano ad argomentare, cosa che non va più molto di moda – è che i migranti sono manodopera a basso costo, che vengono qui solo per essere sfruttati, che l’immigrazione non è altro che racket di esseri umani. Che sia così, almeno a Foggia (o a Rosarno) è difficile negarlo. Ma la conclusione logica di questa premessa non è la negazione dell’immigrazione (che sarebbe, peraltro, la negazione di un fenomeno antico quanto la specie umana: e senza la quale, peraltro, la specie umana nemmeno esisterebbe, almeno non come è adesso), ma la lotta per i diritti dei lavoratori migranti. Se fosse un vero argomento, e non un pretesto, quelli di destra dovrebbero essere al fianco dei lavoratori africani che scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, a cominciare da paga, contratto, alloggio decente e documenti. Solo in questo modo è possibile riportare legalità nelle campagne: e legalità è una delle parole di cui si riempiono la bocca i salviniani (salvo poi difendere a spada tratta il sottosegretario, già pregiudicato per bancarotta fraudolenta, accusato di corruzione).
Dietro il silenzio dei “politici” foggiani di fronte a quella manifestazione – un silenzio riempito dalle scomposte eruttazioni dei tanti frustrati da social network, degli infelici che vivono d’odio – c’è un duplice fallimento. Il fallimento, la miseria morale di una destra che si riempie la bocca dei valori cristiani tradizionali, ma non riesce a vedere nel nero che crepa in una baracca un essere umano; ed è un fallimento che prescinde dal successo elettorale. Chi costruisce il suo successo personale sull’odio e sul razzismo è un fallito come essere umano ed è un fallito come politico. Ed è il fallimento di una sinistra che per calcolo elettorale dimentica i fondamenti stessi di qualsiasi politica di sinistra: l’uguaglianza, la liberazione di tutti cercata, rivendicata, costruita faticosamente a partire da chi sta peggio.
Dietro il silenzio dei “politici” c’è il fallimento di una intera città, che tira a campare tra una partita di calcio e un panino in piazza (“un bilancio entusiasmante” per Libando, annuncia il sindaco Landella), senza davvero sapere dove sta andando – dove vuole andare.

L’Attacco, 9 maggio 2019

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I migranti e il silenzio della politica

Fa sorridere (amaramente) l'ingenuità mostrata dai lavoratori migranti che il 6 maggio manifestavano a Foggia per la dignità e i diritti: in uno dei loro cartelli si rivolgevano al sindaco Landella per chiedergli giustizia per il giovane gambiano morto nell'incendio della sua baracca di legno e lamiera. Avranno pensato che il sindaco è, come tale, il capo di una comunità, ed il capo di una comunità non può disinteressarsi delle violazioni dei diritti elementari che accadono nella sua città. Da Landella, naturalmente, solo silenzio. Ma null'altro che silenzio giunge anche dal principale sfidante di Landella, Pippo Cavaliere. Guardo e riguardo la sua pagina Facebook, che in campagna elettorale è per ogni candidato ormai il principale strumento di propaganda, ma nulla. Non una sola parola, non un link. Per il candidato di sinistra alle elezioni la manifestazione di centinaia di migranti semplicemente non è mai avvenuta. Né mi pare che altri si siano espressi.
Posso comprenderli. L'Italia è ormai un paese in cui il razzismo ha messo solide radici, e Foggia è anche più razzista della media italiana, benché abbia un numero di migranti decisamente inferiore alle città del centro-nord. Sotto elezioni è meglio non compromettersi con questa gente, si rischia di perdere voti. Ma a non compromettersi si rischia qualcosa di peggio: di vincere, ma di non differenziarsi affatto dall'avversario. Di essere diventati di destra, nel tentativo di sconfiggere la destra.

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Il fenomeno Soccio

Conobbi Pasquale Soccio a metà degli anni Novanta. Mi portò da lui Franco Marasca, con la sua guida che aveva per me qualcosa di misterioso: l’utilitaria faticava, sbandava, a momenti urtava qualcosa, ma riusciva sempre in qualche modo a giungere a destinazione senza danni. Premise: “E’ un burbero benefico”. Mi parve piuttosto un San Girolamo, quest’uomo scavato dagli anni, cieco, ascetico, seduto ieraticamente nel suo studio dominato da un enorme tavolo ingombro di libri. Ad una parete un quadro di Giuseppe Ar che lo ritraeva da giovane. Mi sottopose a un fuoco di fila di domande; solo dopo compresi che si trattava di un esame, e che l’avevo passato. Soccio aveva bisogno di qualcuno che gli leggesse libri e giornali, che parlasse un po’ con lui e lo aiutasse a scrivere un libro di filosofia cui pareva tenere molto. Io ero alla ricerca d’un lavoro. E la paga non era granché, ma quando sei disoccupato – e io lo ero – guadagnare qualcosa è meglio che non guadagnare nulla.
Per un po’, dunque, ho fatto questo di lavoro – fino a quando la vecchiaia ha avuto la meglio, e l’ha ricacciato nella natia San Marco in Lamis, affidato alle premure della famiglia ed al calore di quello che fu il grembo materno. L’ho visto letteralmente rimpicciolirsi, farsi quasi bimbo nella sua culla, prima della liberazione.

Fragile di costituzione, ma anche per le origini sociali, Soccio aveva imparato come corazzarsi. Con la forza della cultura, con la fermezza (durezza, anche) del carattere, con gli opportuni legami sociali. Ed ora, vicino ai novant’anni, poteva permettersi di alzare la voce con persone di potere, le quali reagivano con la mansuetudine dello scolaretto che sa che la correzione è per il suo bene.
Dal punto della sociologia della cultura, il fenomeno Soccio è interessantissimo. Omero garganico, grande scrittore, grande filosofo. O no? Come filosofo i suoi meriti sono modesti. Penso, dunque invento, il libro cui stava lavorando quando l’ho conosciuto, parte da una idea interessante (la ragione produce miti), ma procede in modo raffazzonato e confuso. E c’è poco altro. Gli studi vichiani, tanto celebrati, si riducono sostanzialmente ad una antologia scolastica. Una buona antologia, ma non apre nuove vie agli studi vichiani. Unità e brigantaggio, scritto con Tommaso Nardella, è un libro interessante, ma non più di tanti altri; e quando ho studiato il brigantaggio per me sono stati ben più importanti i saggi di Tommaso Pedio. Il maestro studioso, ripubblicato in stampa anastatica con il contributo del Rotary e della Banca del Monte di Foggia in occasione dei novant’anni di Soccio, è un bignamino per la preparazione al concorso magistrale, privo oggi di qualsiasi interesse. Restano Gargano segreto e Lucera minore. Due libri di valore – il secondo più del primo – scritti in una prosa che qua e là attinge la poesia. La cultura di Soccio, tanto celebrata, era vasta, ma aveva confini ben precisi. Nulla aveva compreso, per dire, dei cambiamenti avvenuti nella filosofia a partire dagli anni Cinquanta; e poco e male conosceva la cultura in lingua inglese. Come accade a molti, apparire straordinariamente colto finché si muoveva nel suo campo (e costringeva l’altro a farlo); quando ci si avvicinava pericolosamente al perimetro della sua sfera del sapere, il discorso si troncava. Si giocava alle sue regole, o non si giocava affatto.
Come si spiega dunque il successo di Soccio? Bisogna riprendere un libro mediocrissimo come Omaggio a Foggia, anch’esso ripubblicato per il novantesimo di Soccio, questa volta dalla Provincia di Foggia. Soccio fa poesia dell’oggi e del passato di Foggia, con ostinato lirismo cerca poesia nei vicoli e nei secoli. “Io dormo sul tuo cuore antico, o Foggia, e sogno oro di grano, oro di lana”: così comincia. Due endecasillabi. Non dice che il “cuore antico”, ossia quel piano delle fosse che per Ungaretti meritava di diventare monumento nazionale, era stato devastato, distrutto per costruire proprio quel palazzo nel quale lui dormiva e sognava grano e lana. Un palazzo sul quale si legge una sorta di inno al progresso.
E’ un libro mediocrissimo, ho detto: perché è falso, e i libri devono più di ogni cosa essere veri. Essere magari sbagliati, scritti male, pensati peggio: ma portare la passione per la verità. Quel libro dà però al lettore quello che cerca. E quello che cerca è una narrazione rassicurante. Perfino poetica. Quella narrazione che sempre riporta il foggiano a Federico II, che fu l’unico a riconoscere il destino imperiale della città. Una narrazione che sarebbe innocua, se non distogliesse lo sguardo dalla realtà. Se non chiudesse in un bozzolo di indifferenza, in una idiozia poetica o erudita, che abbandona a sé stessi i terrazzani, i cafoni, i proletari che tra l’oro del grano e l’oro della lana gettano sangue e veleno.
Se dovessi scrivere un libro su Foggia, probabilmente si intitolerebbe Oltraggio a Foggia. Perché ritengo che compito di chi ha il privilegio di scrivere sia quello di dire la verità. Sempre, costi quel che costi. Sanguini quel che deve sanguinare. Se poi chi scrive ha le sue radici in una città che sta già sanguinando, dire la verità significa indicare le piaghe, toccarle, aprirle perfino perché siano ben evidenti. E si possa cominciare a curarle.

L’Attacco, 1 maggio 2019.

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