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blog di antonio vigilante

Le liturgie di Marina Abramovic

Qualche nota sparsa sulla mostra di Marina Abramovic “The Cleaner” (Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 20 gennaio 2019).

Due sono gli elementi centrali della sua arte: il gesto e la partecipazione del pubblico. L’insieme delle due cose è, etimologicamente, liturgia: che è appunto l’azione, il gesto, l’opera per il popolo. Non è un caso, mi pare, che Abramovic sia discendente di un santo della Chiesa ortodossa. Ciò verso cui tende è il gesto sacro, archetipico ed evocativo al tempo stesso; il gesto che richiama il passato, il sempre stato, ed apre il futuro, il non ancora. Con il rischio di scadere nel moralistico, come osservava una donna straniera che seduta accanto a me seguita il video di presentazione prima della mostra.

Come l’arte iconica, così l’arte liturgica di Abramovic attraversa le fasi del barocco, del realismo, dell’espressionismo, dell’arte di denuncia. Definirei barocche performances come “Imponderabilia” o “Luminosity”, nelle quali Abramovic cerca soprattutto il non comune, quell’insolito che, in una società nella quale la nudità dà ancora brividi, ha inevitabilmente la sfumatura dello scandaloso; espressionistica – psicanaliticamente espressionista – “The Freeing Series”; realismo (postmoderno) è quello di “The House with the Ocean View”, in cui l’artista vive per dodici giorni in una struttura sospesa, sotto gli occhi dei visitatori; arte di denuncia è quella di “Cleaning the Mirror” e di “Balkan Baroque”: due performances che hanno a che fare con la guerra, e con le ossa. Usciti dalla mostra, sono queste le immagini che restano dentro. L’immagine di un essere umano che cerca di lavare via lo sporco da uno scheletro, che è al tempo stesso protesta contro la guerra ed evocazione di un tempo in cui la morte e la vita non erano separati da una barriera invalicabile.
Abramovic ha studiato meditazione vipassana. Lo si nota in “Counting the Rice”, che mette i visitatori a dividere e contare chicchi di riso e lenticchie, vale a dire a compiere gesti minuti, attenti, apparentemente improduttivi. Liturgici.
Uscendo capita di pensare che sì, Abramovic ha compreso qualcosa di importante: che, morto Dio, morta la religione, abbiamo ancora bisogno di una liturgia, di gesti essenziali, esatti, che ci mettano in contatto con la vita e con la morte. E che la ricerca di questi gesti appartiene all’arte. A patto che non diventi anch’essa religione – sia pure la religione del mercato.

Nella foto: “Cleaning the Mirror”. Foto mia.

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Lettera aperta a un leghista foggiano

Gentile Joseph Splendido,

fino a qualche giorno fa ignoravo la sua esistenza; ieri l’altro mi sono imbattuto per caso nel suo profilo Facebook. C’era un video dell’incendio che qualche giorno fa ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, uno dei luoghi in cui una concezione feudale dei rapporti di lavoro – Fabrizio Gatti parlava semplicemente di schiavitù – costringe a vivere i lavoratori africani delle campagne della Capitanata. Baracche di lamiera e legno che spesso vanno a fuoco, come è successo lo scorso anno al Gran Ghetto di Rignano, dove sono morti tra le fiamme due braccianti del Mali, mentre ad agosto dodici braccianti hanno perso la vita mentre tornavano dal lavoro in uno dei tanti furgoni privi dei requisiti minimi di sicurezza con i quali il caporalato gestisce gli spostamenti dei lavoratori-schiavi. L’incendio dell’altro giorno ha fatto diversi feriti, alcuni gravi. Sul suo profilo lei ha commentato così: “La nostra Puglia continua a subire l’onta dell’illegalità e dell’immigrazione clandestina”. Ha ragione. E’ motivo di vergogna che esistano clandestini, e che siano costretti a vivere in baracche che vanno a fuoco. Ho qualche dubbio però sul fatto che si tratti di qualcosa che la Puglia subisce. Ma vorrei parlarle di un’altra cosa.

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Le liturgie di Marina Abramovic


Qualche nota sparsa sulla mostra di Marina Abramovic "The Cleaner" (Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 20 gennaio 2019).
Due sono gli elementi centrali della sua arte: il gesto e la partecipazione del pubblico. L'insieme delle due cose è, etimologicamente, liturgia: che è appunto l'azione, il gesto, l'opera per il popolo. Non è un caso, mi pare, che Abramovic sia discendente di un santo della Chiesa ortodossa. Ciò verso cui tende è il gesto sacro, archetipico ed evocativo al tempo stesso; il gesto che richiama il passato, il sempre stato, ed apre il futuro, il non ancora. Con il rischio di scadere nel moralistico, come osservava una donna straniera che seduta accanto a me seguita il video di presentazione prima della mostra.
Come l'arte iconica, così l'arte liturgica di Abramovic attraversa le fasi del barocco, del realismo, dell'espressionismo, dell'arte di denuncia. Definirei barocche performances come "Imponderabilia" o "Luminosity", nelle quali Abramovic cerca soprattutto il non comune, quell'insolito che, in una società nella quale la nudità dà ancora brividi, ha inevitabilmente la sfumatura dello scandaloso; espressionistica - psicanaliticamente espressionista - "The Freeing Series"; realismo (postmoderno) è quello di "The House with the Ocean View", in cui l'artista vive per dodici giorni in una struttura sospesa, sotto gli occhi dei visitatori; arte di denuncia è quella di "Cleaning the Mirror" e di "Balkan Baroque": due performances che hanno a che fare con la guerra, e con le ossa. Usciti dalla mostra, sono queste le immagini che restano dentro. L'immagine di un essere umano che cerca di lavare via lo sporco da uno scheletro, che è al tempo stesso protesta contro la guerra ed evocazione di un tempo in cui la morte e la vita non erano separati da una barriera invalicabile.

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Lettera aperta a un leghista foggiano

Gentile Joseph Splendido,
fino a qualche giorno fa ignoravo la sua esistenza; ieri l'altro mi sono imbattuto per caso nel suo profilo Facebook. C'era un video dell'incendio che qualche giorno fa ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, uno dei luoghi in cui una concezione feudale dei rapporti di lavoro - Fabrizio Gatti parlava semplicemente di schiavitù - costringe a vivere i lavoratori africani delle campagne della Capitanata. Baracche di lamiera e legno che spesso vanno a fuoco, come è successo lo scorso anno al Gran Ghetto di Rignano, dove sono morti tra le fiamme due braccianti del Mali, mentre ad agosto dodici braccianti hanno perso la vita mentre tornavano dal lavoro in uno dei tanti furgoni privi dei requisiti minimi di sicurezza con i quali il caporalato gestisce gli spostamenti dei lavoratori-schiavi. L'incendio dell'altro giorno ha fatto diversi feriti, alcuni gravi. Sul suo profilo lei ha commentato così: "La nostra Puglia continua a subire l'onta dell'illegalità e dell'immigrazione clandestina". Ha ragione. E' motivo di vergogna che esistano clandestini, e che siano costretti a vivere in baracche che vanno a fuoco. Ho qualche dubbio però sul fatto che si tratti di qualcosa che la Puglia subisce. Ma vorrei parlarle di un'altra cosa.

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L'ENI, l'Africa e noi

African Metropolis è la grande mostra che il MAXXI  di Roma dedica alla nuova arte africana. Un evento in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e con la partnership dell’Eni, che all’interno della mostra ha creato un suo spazio espositivo, DATAFRICA, con installazioni che presentano semplici dati sul continente, senza alcuna immagine. Un percorso interattivo tra cifre, mappe, diagrammi, che è accompagnato da una narrazione tranquillizzante. Nella pagina del sito dell’Eni dedicata all’evento è messa in bella mostra una citazione tratta dal Corriere della Sera: “Da parecchi anni noi investiamo in 14 Paesi africani, dall’Angola alla Nigeria passando per Congo e Mozambico, con l’obiettivo di affiancare all’attività estrattiva programmi di sostegno delle economie e delle comunità locali: centrali elettriche, impianti eolici, solare fotovoltaico per dare energia alle famiglie e alle imprese di vari Paesi. Ma anche investimenti in agricoltura e in riforestazione.”  A parlare è l’amministratore delegato Claudio Descalzi. Una narrazione che l’ENI ha, naturalmente, i mezzi economici per diffondere sulla stampa, compreso l’acquisto di un vistoso spazio pubblicitario sulla presente testata. Ma è una narrazione vera?

Consideriamo alcuni dati che con ogni probabilità mancano nel percorso del MAXXI.

161 su 180. E’ il posto che, secondo Trasparency International, il Congo francese occupa a livello mondiale nella classifica dei paesi con maggiore corruzione percepita.

15 milioni di euro. E’ la cifra irrisoria che, secondo un’inchiesta dell’Espresso, l’Eni avrebbe speso per acquistare, nel corrottissimo Congo francese, il Marine XI, un enorme giacimento petrolifero sottomarino. L’operazione sarebbe avvenuta attraverso un complesso sistema di società offshore.

1,3 miliardi di dollari. A tanto ammonterebbe, secondo la procura di Milano, la tangente pagata da Claudio Descalzi per l’acquisizione di una concessione petrolifera in Nigeria.

40 anni. E’ l’aspettativa di vita del Delta del Niger, dove si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi dell’Eni, mentre nel resto della Nigeria è di 53-55 anni.

2 milioni di euro. E’ il risarcimento che cinquemila abitanti di una tribù del Delta del Niger chiedono come risarcimento per un disastro ambientale avvenuto nel 2010.

11.000. E’ il numero di bambini che secondo uno studio dell’Università di St. Gallen, in Svizzera, sono morti entro il primo anno di età a causa delle perdite di petrolio nel Delta del Niger.  Secondo l’Eni e le altre compagnie petrolifere, lo sversamento di petrolio è dovuto alle azioni di vandalismo delle popolazioni, che cercano di spillare il petrolio dalle condutture per rivenderlo, ma non è da escludere che molte perdite siano dovute allo fatiscenza delle condutture. “Qualunque sia la causa – osserva Amnesty International -, secondo la legge nigeriana le compagnie petrolifere sono responsabile di contenere e ripulire le perdite e riportare le aree contaminate al loro stato originario. Tuttavia, ciò accade di rado. Di conseguenza, la gente nel Delta del Niger vive con l’impatto cumulativo di decenni di inquinamento”.

Corruzione, inquinamento, morte. Non compaiono nel giallo rassicurante dell’advertising di Eni, né nella retorica neo-coloniale che accompagna l’iniziativa, nella quale si parla perfino di “un futuro inclusivo”.

“Sono le bugie che sono state martellate / nelle tue orecchie per una generazione / […] E’ questo / caro amico, che trasforma il nostro mondo / in una tetra prigione”, scriveva il poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa. Lo scriveva nel 1991, quattro anni prima di essere condannato a morte per aver reclamato i diritti della gente del Delta del Niger contro le multinazionali del petrolio.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 23 ottobre 2018.

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Palio: il dialogo necessario


Siena ama i cavalli. E’ l’argomento ricorrente, in questi giorni in cui la città è tornata al centro delle polemiche per la morte di un cavallo durante il palio straordinario. Siena ama i cavalli: e dunque li protegge; e se qualcuno muore, è stata una fatalità. E’ lecito avere qualche dubbio, nel caso dell’ultimo palio, riascoltando quanto detto dal sindaco De Mossi in una intervista subito dopo la fine della gara. “Non fa mai piacere vedere un cavallo che cade però direi che il fatto che il lotto fosse di sette cavalli nuovi e quindi un po’ meno esperti della pista un pochino ha creato un po’ questa specie di palio all’antica, cioè con tanti cavalli scossi che era tantissimo che non vedevamo. E’ un po’ la cifra del palio, è una pista che necessita di un adattamento”, diceva De Mossi. Ma se sai che la pista necessita di adattamento, e mandi in pista dei cavalli che invece non hanno avuto il tempo di adattarsi, puoi aspettarti che qualche cavallo si faccia male, che qualche cavallo magari muoia.
Dopo la morte del cavallo della Giraffa (morte inattesa, perché il comunicato del Comune della sera del palio non lasciava affatto presagire un esito simile) il sindaco sul suo profilo Facebook ha risposto come segue alle polemiche: “Il dispiacere è di tutta la città che ama i cavalli e li rispetta, e non accetta provocazioni da chiunque abbia solo l’interesse a farsi pubblicità, non conoscendo la nostra cultura, tradizione, rispetto e cura dei cavalli.”

“Non fa piacere”, “il dispiacere”. La città è dispiaciuta, perché ama i cavalli. Non si fatica a crederlo. Ma il dispiacere è la mancanza di piacere – e certo sarebbe ben grave se una città intera si rallegrasse e provasse piacere per la morte di un cavallo -, non dolore. Non sono sicuro che De Mossi sappia interpretare i sentimenti della città. In molti la vista di un cavallo che si lancia a fortissima velocità contro una curva e si spezza una gamba suscita qualcosa di diverso dal semplice dispiacere. Suscita ribrezzo, scandalo, dolore. E no, non si tratta di “presunti” animalisti. Si tratta di animalisti veri, ma anche di molta gente senza etichette, cui la violenza sugli animali fa orrore (e per fortuna di gente così ce n’è ancora molta). E molti di questi sono senesi. Contradaioli nei quali la morte di Raol ha suscitato non meno dolore che negli animalisti. Con l’aggiunta di una ancora più dolorosa dissonanza cognitiva, perché quel fatto terribile è in contrasto con molte cose cui attribuiscono il massimo valore: la tradizione, l’identità, la festa collettiva. Un dramma psicologico-culturale che la rozza difesa del sindaco non riesce e cogliere. Nelle sue parole sembra esserci un altro processo psicologico: la proiezione. Perché ritenere che chi critica il palio sia mosso da bassi interessi non è solo una forma particolarmente puerile di processo alle intenzioni; è una uscita surreale, dopo un palio straordinario che, nella lettura di molti, è stato anche, se non principalmente, una audace mossa politica.
C’è poi, nelle sue parole, quella che potremmo chiamare la mistica della senesità. Chi critica il palio non conosce la storia e le tradizioni di Siena, è uno che semplicemente non può capire. C’è del vero in questa affermazione, come c’è molta verità nell’affermazione che Siena ama i cavalli. Siena ha una struttura sociale diversa da qualsiasi altra città italiana, ha nelle contrade una ricchezza straordinaria, che difende con le unghie e con i denti. Ma la vita delle contrade gira intorno al palio. Se si abolisse il palio, come qualcuno auspica, Siena non esisterebbe più, semplicemente. Quando si vive in un sistema sociale e culturale diverso dagli altri, tuttavia, si rischia di non essere compresi dagli altri, ma anche di non comprendere gli altri. Siena è una città unica, ma è anche una città italiana, per la quale valgono le leggi comuni. Compreso l’articolo 544-quater del Codice Penale: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 3.000 a. 15.000 euro”. O come l’articolo 588, che stabilisce che la rissa è reato, senza fare sottili distinzioni antropologiche tra la rissa vera e propria e i fronteggiamenti tra contradaioli.
Che fare? Ieri il Consorzio di Tutela del Palio ha diramato il seguente comunicato: “Il Consorzio di Tutela del Palio, riguardo alle polemiche seguite all’incidente che ha coinvolto il cavallo Raol raccomanda a tutti i contradaioli di non rispondere a titolo personale a comunicati o post sui social. Comune e Consorzio sono all’opera per gestire l’esplosione mediatica sull’accaduto. Nelle prossime ore è plausibile un ulteriore massiccia intensificazione di commenti. Si invita a segnalare al Consorzio ogni nuovo servizio, articolo o post. La mail per segnalare: info@ctps.it. Aggiungere nella mail il nome di chi lo ha pubblicato e in quale social è stato trovato. Il Consorzio garantisce la tutela al cittadino che segnala.”
Ora, è evidente che gli scambi di insulti sui social non portano nulla di buono, ma questa chiusura dai toni non troppo vagamente minacciosi non è una grande alternativa. L’alternativa è il dialogo. Un dialogo che è possibile solo se c’è un riconoscimento reciproco. Non ci sono da un lato persone sanguinare che si divertono a torturare e uccidere cavalli e dall’altra pseudo-animalisti che attaccano il palio solo per visibilità. Il principio del valore della vita animale, che è per gli animalisti ed antispecisti una ragione di vita, è valido anche per i senesi, segnatamente per quanto riguarda i cavalli. Per questo il dialogo è possibile, oltre che necessario.

Nella foto: i cavalli prima del palio del 20 ottobre. Foto di Antonio Vigilante.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 23 ottobre 2018.

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L'ENI, l'Africa e noi

African Metropolis è la grande mostra che il MAXXI  di Roma dedica alla nuova arte africana. Un evento in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e con la partnership dell'Eni, che all'interno della mostra ha creato un suo spazio espositivo, DATAFRICA, con installazioni che presentano semplici dati sul continente, senza alcuna immagine. Un percorso interattivo tra cifre, mappe, diagrammi, che è accompagnato da una narrazione tranquillizzante. Nella pagina del sito dell'Eni dedicata all'evento è messa in bella mostra una citazione tratta dal Corriere della Sera: "Da parecchi anni noi investiamo in 14 Paesi africani, dall’Angola alla Nigeria passando per Congo e Mozambico, con l’obiettivo di affiancare all’attività estrattiva programmi di sostegno delle economie e delle comunità locali: centrali elettriche, impianti eolici, solare fotovoltaico per dare energia alle famiglie e alle imprese di vari Paesi. Ma anche investimenti in agricoltura e in riforestazione."  A parlare è l'amministratore delegato Claudio Descalzi. Una narrazione che l'ENI ha, naturalmente, i mezzi economici per diffondere sulla stampa, compreso l'acquisto di un vistoso spazio pubblicitario sulla presente testata. Ma è una narrazione vera?

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Palio: il dialogo necessario


Siena ama i cavalli. E' l'argomento ricorrente, in questi giorni in cui la città è tornata al centro delle polemiche per la morte di un cavallo durante il palio straordinario. Siena ama i cavalli: e dunque li protegge; e se qualcuno muore, è stata una fatalità. E' lecito avere qualche dubbio, nel caso dell'ultimo palio, riascoltando quanto detto dal sindaco De Mossi in una intervista subito dopo la fine della gara. "Non fa mai piacere vedere un cavallo che cade però direi che il fatto che il lotto fosse di sette cavalli nuovi e quindi un po' meno esperti della pista un pochino ha creato un po' questa specie di palio all'antica, cioè con tanti cavalli scossi che era tantissimo che non vedevamo. E' un po' la cifra del palio, è una pista che necessita di un adattamento", diceva De Mossi. Ma se sai che la pista necessita di adattamento, e mandi in pista dei cavalli che invece non hanno avuto il tempo di adattarsi, puoi aspettarti che qualche cavallo si faccia male, che qualche cavallo magari muoia.
Dopo la morte del cavallo della Giraffa (morte inattesa, perché il comunicato del Comune della sera del palio non lasciava affatto presagire un esito simile) il sindaco sul suo profilo Facebook ha risposto come segue alle polemiche: "Il dispiacere è di tutta la città che ama i cavalli e li rispetta, e non accetta provocazioni da chiunque abbia solo l’interesse a farsi pubblicità, non conoscendo la nostra cultura, tradizione, rispetto e cura dei cavalli."

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