Per essere una città, non un omile
Articolo pubblicato su Stato Quotidiano.
Sul suo blog Lettere Meridiane Geppe Inserra scrive una lettera aperta ai candidati a sindaco ed ai loro elettori, invitandoli alla lettura di Danilo Dolci, “uno dei più straordinari pensatori e intellettuali cui il nostro Paese abbia dato i natali”. Poiché ho dedicato allo studio di Dolci, e più in generale della nonviolenza, non pochi anni della mia vita, vorrei provare a ragionare sulla situazione attuale della città e sulle sue prospettive future dal punto di vista della filosofia-prassi della nonviolenza; farò poi quattro proposte a chi si candida a guidarla nei prossimi anni.
Come ricorda Inserra, Danilo Dolci distingueva la città dall’omile. Con quest’ultimo termine indicava la degenerazione della città che si verifica quando le persone non stanno davvero insieme, ma semplicemente si ammassano un uno stesso luogo; vivono l’uno accanto all’altro, ma ognuno pensa a sé. La città diventa omile quando perde lo spazio pubblico, la democrazia vera, la gentilezza, la civiltà, la forza dei legami interpersonali.
Sono d’accordo con Geppe Inserra quando scrive che Foggia è “sempre meno città, sempre più omile”. Si tratta di una degenerazione che colpisce non solo la nostra città, ed è anzi legata allo sviluppo del capitalismo, con la mercificazione dei rapporti umani, l’egoismo crescente, la diffusione di non-luoghi spersonalizzanti (il centro commerciale che prende il posto della piazza). Basti pensare a quello che accade a Verona, una città il cui sindaco vieta, pena una multa, di offrire cibo ai clochard. Una città in cui si vieta ad un essere umano di dare da mangiare ad un altro essere umano che ha fame non è più una città. Ha smarrito quei tratti di civiltà, di urbanità che da sempre si associano alla città. Il modo in cui si trattano coloro che sono ai margini è un segno sicuro della degenerazione di una città in omile.
La tradizione nonviolenta ha un modo piuttosto semplice per valutare l’efficacia dei programmi politici ed economici. Il criterio più diffuso per valutare la crescita di una comunità è il PIL, la ricchezza complessiva. Ma il PIL non ci dice nulla sulla distribuzione di questa ricchezza: può essere (come in effetti è) che della maggiore ricchezza si avvantaggino solo alcuni. Per Gandhi bisogna invece considerare non la ricchezza complessiva, ma la condizione di coloro che stanno peggio. L’orizzonte della nonviolenza è quello di tutti; se uno solo resta escluso, c’è ingiustizia e violenza. Nel programmare politiche economiche bisogna partire da chi sta peggio. Gandhi coniò un termine per questo obiettivo: sarvodaya, benessere di tutti.
A Foggia non è difficile individuare chi sta peggio. E’ una città in cui molti, moltissimi soffrono; molte famiglie vivono ben al di sotto della soglia di povertà, molti bambini crescono in grotte al di sotto del livello stradale, mentre altri vivono nei container. Le loro condizioni sono peggiorate negli ultimi anni, un po’ per la crisi economica che ha colpito i deboli più degli altri, un po’ per l’indifferenza della classe politica.
Vengo alle proposte ai candidati.
Prima proposta. Dare una casa alle persone che da più di dieci anni vivono nei container di Campo degli Ulivi ed alle famiglie che occupano le grotte nel Quartiere Settecentesco, requisendo le case sfitte. E’ una soluzione legalmente praticabile, come dimostra la vicenda giudiziaria di Sandro Medici, Susi Fantino e Andrea Catarci, presidenti dei municipi romani che nel 2007 hanno requisito 250 case sfitte per darle a chi non aveva casa, e che sono stati assolti con sentenza confermata in Cassazione. Si tratta di attuare la Costituzione.
Seconda proposta. In una città come Foggia, con gravissimi problemi sociali, l’assessorato-chiave è quello ai servizi sociali. Non si può dire che negli ultimi anni questo ruolo delicatissimo sia stato ricoperto da persone preparate, in possesso di competenze sul campo e capaci di visione progettuale. La seconda proposta è dunque quella di affidare l’assessorato ai servizi sociali non ad un politico, ma ad un operatore sociale che abbia lavorato negli ultimi anni a contatto con le situazioni di bisogno e di marginalità. Le persone non mancano, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Terza proposta. Dolci ha descritto e denunciato il sistema clientelare, ossia lo scambio di favori tra politico ed elettore che nella realtà siciliana (e non solo) coinvolge anche la mafia (per questo parla di sistema clientelare-mafioso). A Foggia per molti il voto è questo: uno strumento per ottenere qualcosa. Si tratta di una miseria alimentata da politicanti abilissimi nello sfruttare lo stato di bisogno, capaci di costruirsi vere e propri feudi elettorali nei quartieri più poveri. Il politico è in fondo disprezzato: è il porco che va al municipio per mangiare, ed a cui si può spillare qualche favore.
Per cambiare questa mentalità è indispensabile inaugurare una nuova prassi di trasparenza e di confronto. Occorre che il politico si presenti costantemente al giudizio dei cittadini, che gli dia conto del suo operato ed ascolti le sue richieste o proteste. La proposta è, dunque, che chi si candida si impegni, in caso di elezione, a tenere mensilmente o ogni due mesi un incontro pubblico in ogni quartiere, e segnatamente nei quartieri più poveri (Quartiere Settecentesco, Candelaro, Borgo Croci), per comunicare le cose fatte, ascoltare le esigenze, raccogliere le proteste.
Quarta proposta. Ho detto del peggioramento delle condizioni di vita dei poveri. E’ un peggioramento che porta inevitabilmente ad un certo imbarbarimento, evidente forse nel Quartiere Settecentesco più che altrove, e nei ragazzi più che negli adulti. Chi ne volesse conferma può visitare piazza tavuto, l’infelice slargo in via Crispi, a due passi da Palazzo Dogana, che qualche anni fa i ragazzi del quartiere hanno ridotto in frantumi la notte di capodanno, e che l’amministrazione Mongelli non ha voluto ricostruire.
Non conosco che due modi per reagire all’imbarbarimento. Il primo è migliorare le condizioni economiche e di vita, cosa che si potrà fare (almeno come primo passo) dando una casa a chi languisce in una grotta o in un container. Il secondo è l’educazione. La mia quarta proposta è quella di impegnarsi a combattere l’imbarbarimento e il degrado dei quartieri più poveri realizzando strutture educative e culturali: doposcuola, biblioteche di quartiere, centri per l’apprendimento e l’educazione degli adulti, centri sociali. Un assessore ai servizi sociali competente, come quello auspicato, lavorerà naturalmente in questa direzione: ma non potrà far nulla, se non vi sarà l’impegno dell’intera amministrazione a sostenerlo con le necessarie risorse economiche.
Su queste quattro proposte chiedo ai candidati di prendere pubblicamente posizione nei modi che preferiscono.
Per essere una città, non un omile
Articolo pubblicato su Stato Quotidiano.
Sul suo blog Lettere Meridiane Geppe Inserra scrive una lettera aperta ai candidati a sindaco ed ai loro elettori, invitandoli alla lettura di Danilo Dolci, "uno dei più straordinari pensatori e intellettuali cui il nostro Paese abbia dato i natali". Poiché ho dedicato allo studio di Dolci, e più in generale della nonviolenza, non pochi anni della mia vita, vorrei provare a ragionare sulla situazione attuale della città e sulle sue prospettive future dal punto di vista della filosofia-prassi della nonviolenza; farò poi quattro proposte a chi si candida a guidarla nei prossimi anni.
Come ricorda Inserra, Danilo Dolci distingueva la città dall'omile. Con quest'ultimo termine indicava la degenerazione della città che si verifica quando le persone non stanno davvero insieme, ma semplicemente si ammassano un uno stesso luogo; vivono l'uno accanto all'altro, ma ognuno pensa a sé. La città diventa omile quando perde lo spazio pubblico, la democrazia vera, la gentilezza, la civiltà, la forza dei legami interpersonali.
Sono d'accordo con Geppe Inserra quando scrive che Foggia è "sempre meno città, sempre più omile". Si tratta di una degenerazione che colpisce non solo la nostra città, ed è anzi legata allo sviluppo del capitalismo, con la mercificazione dei rapporti umani, l'egoismo crescente, la diffusione di non-luoghi spersonalizzanti (il centro commerciale che prende il posto della piazza). Basti pensare a quello che accade a Verona, una città il cui sindaco vieta, pena una multa, di offrire cibo ai clochard. Una città in cui si vieta ad un essere umano di dare da mangiare ad un altro essere umano che ha fame non è più una città. Ha smarrito quei tratti di civiltà, di urbanità che da sempre si associano alla città. Il modo in cui si trattano coloro che sono ai margini è un segno sicuro della degenerazione di una città in omile.
24 aprile, venerdì
Poco fa, mentre Happy faceva i suoi bisogni, un ragazzino sulla bici all’amico: “Io lo conosco, salsiccia”.
Quando avevo tredici o quattordici anni conoscevo un tale che chiamavano salsiccia. Aveva un po’ la faccia da fesso, e per questo lo chiamavano salsiccia. Poi crebbe, e il fatto di avere la faccia da fesso ed essere chiamato salsiccia cominciò a fargli male. Si fece crescere i capelli, ma restava la faccia da fesso. Allora divenne metallaro, con le borchie e tutto il resto. Ma continuavano disperatamente a chiamarlo salsiccia. Allora cominciò a fare a botte con chi lo chiamava salsiccia. Non so com’è andata a finire, ma secondo me lo chiamano ancora salsiccia.
Anche Giuseppe – il mio compagno di banco alle superiori – aveva la faccia un po’ così. Non proprio da fesso: da ragioniere, ecco. Un ragioniere un po’ furbo, con una nuance maliziosa nel ripiegarsi del labbro, ma pur sempre un ragioniere. Ma lui si pensava altro. Era anche lui metallaro, e pensava di essere la reincarnazione di Jimi Hendrix, poiché era nato lo stesso giorno della sua morte. Lo chiamavamo Napoleone, perché era basso, credo. Non gli faceva piacere. Lo faceva soffrire, anzi, la distanza tra quello che voleva essere e quello che era. Tra la sua Selbstdarstellung di musicista rock e la sua quotidianità di ragazzino con la faccia da ragioniere destinato ad un impiego alla Posta. Tra gli assoli di Jimi hendrix e quello che usciva dalla sua chitarra prototipo bianca.
Giuseppe ha risolto la distanza gettandosi dal balcone di casa sua. Se fosse ancora vivo, credo che lo chiamerebbero ancora Napoleone.
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe.
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe.
24 aprile, venerdì
Poco fa, mentre Happy faceva i suoi bisogni, un ragazzino sulla bici all'amico: "Io lo conosco, salsiccia".
Quando avevo tredici o quattordici anni conoscevo un tale che chiamavano salsiccia. Aveva un po' la faccia da fesso, e per questo lo chiamavano salsiccia. Poi crebbe, e il fatto di avere la faccia da fesso ed essere chiamato salsiccia cominciò a fargli male. Si fece crescere i capelli, ma restava la faccia da fesso. Allora divenne metallaro, con le borchie e tutto il resto. Ma continuavano disperatamente a chiamarlo salsiccia. Allora cominciò a fare a botte con chi lo chiamava salsiccia. Non so com'è andata a finire, ma secondo me lo chiamano ancora salsiccia.
Anche Giuseppe - il mio compagno di banco alle superiori - aveva la faccia un po' così. Non proprio da fesso: da ragioniere, ecco. Un ragioniere un po' furbo, con una nuance maliziosa nel ripiegarsi del labbro, ma pur sempre un ragioniere. Ma lui si pensava altro. Era anche lui metallaro, e pensava di essere la reincarnazione di Jimi Hendrix, poiché era nato lo stesso giorno della sua morte. Lo chiamavamo Napoleone, perché era basso, credo. Non gli faceva piacere. Lo faceva soffrire, anzi, la distanza tra quello che voleva essere e quello che era. Tra la sua Selbstdarstellung di musicista rock e la sua quotidianità di ragazzino con la faccia da ragioniere destinato ad un impiego alla Posta. Tra gli assoli di Jimi hendrix e quello che usciva dalla sua chitarra prototipo bianca.
Giuseppe ha risolto la distanza gettandosi dal balcone di casa sua. Se fosse ancora vivo, credo che lo chiamerebbero ancora Napoleone.
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe.
Happy si è addormentata dopo esserci leccata le zampe.
פֶּסַח
Dio non può morire: se muore, non è Dio. Se muore e risorge, il Dio che risorge non è lo stesso Dio che è morto – è qualcosa di radicalmente altro.
Con la croce, Dio muore, una manciata di secoli prima dell’annuncio di Nietzsche. Il Cristo che risorge è altro: è l’Uomo che si fa Dio. Il senso del cristianesimo è questo: Dio muore e l’Uomo prende il suo posto. Così comincia la storia occidentale, che è storia dell’umanesimo come ateismo.
Pasqua è una festa atea.
פֶּסַח
Dio non può morire: se muore, non è Dio. Se muore e risorge, il Dio che risorge non è lo stesso Dio che è morto - è qualcosa di radicalmente altro.
Con la croce, Dio muore, una manciata di secoli prima dell'annuncio di Nietzsche. Il Cristo che risorge è altro: è l'Uomo che si fa Dio. Il senso del cristianesimo è questo: Dio muore e l'Uomo prende il suo posto. Così comincia la storia occidentale, che è storia dell'umanesimo come ateismo.
Pasqua è una festa atea.
Student voice
In occasione della Settimana dell’educazione, che dev’essere una faccenda legata alla visita del papa alle scuole, o qualcosa del genere, nella sala docenti della mia scuola hanno piazzato una scatola con la scritta “La scuola che vorrei”. E’ il contenitore degli elaborati volontari, ed anonimi, degli studenti su quel tema. Poiché la scatola è aperta, chiunque può attingere e leggere. Ed io ho attinto e letto, tra le altre cose, questo biglietto che da solo vale, mi pare, più di tanti tomi di pedagogia:
Come appendice e completamento, valga la conclusione di quest’altro biglietto:
(Ad onor del vero i miei studenti da quando è iniziata la primavera hanno assaporato più di una volta il piacere di far lezione sull’erba.)
Student voice
In occasione della Settimana dell'educazione, che dev'essere una faccenda legata alla visita del papa alle scuole, o qualcosa del genere, nella sala docenti della mia scuola hanno piazzato una scatola con la scritta "La scuola che vorrei". E' il contenitore degli elaborati volontari, ed anonimi, degli studenti su quel tema. Poiché la scatola è aperta, chiunque può attingere e leggere. Ed io ho attinto e letto, tra le altre cose, questo biglietto che da solo vale, mi pare, più di tanti tomi di pedagogia:
Come appendice e completamento, valga la conclusione di quest'altro biglietto:
(Ad onor del vero i miei studenti da quando è iniziata la primavera hanno assaporato più di una volta il piacere di far lezione sull'erba.)
Joseph Tusiani e Pasquale Soccio
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Joseph Tusiani |
Molti anni fa (dodici? tredici?) frequentavo la casa d’un filosofo e scrittore prossimo ai novant’anni, dal profilo reso ascetico dall’età, quasi del tutto cieco. Il mio lavoro – perché di un lavoro si trattava – consisteva nel leggergli i libri e giornali, nel commentarli con lui e nello scrivere ciò che lui dettava; in particolare, nel metter mano ad un brogliaccio dal quale sarebbe venuto fuori un libro sul mito e Giambattista Vico. Sporadicamente, mi capitava di fargli da segretario.
Una mattina gli lessi una lettera di Eugenio Garin, alla quale si propose di rispondere immediatamente. Ed io avrei dovuto prestargli le mie mani. Ora, le lettere di Garin, scritte da lui o non so da chi, erano ammirevoli per il nitore, l’eleganza, la bellezza della scrittura, oltre che per il contenuto; e Garin era un autore sulle cui pagine avevo passato non poche giornate. La mia scritture invece era, ed è, penosamente contorta, sofferta, esasperata ed esasperante. Insomma, temevo un esito disastroso. E temevo bene: ché il timore mi fece per giunta sudare la mano, e mille sbavature s’aggiunsero a rendere completo il disastro.
Quel filosofo e scrittore si chiamava Pasquale Soccio. Mi è tornata in mente, quella spiacevole mattina degli anni Novanta, leggendo ora le Lettere di Joseph Tusiani a Pasquale Soccio (1974-1993), pubblicate dalle Edizioni del Rosone per celebrare i novant’anni di Tusiani.
Devo confessare che non ho mai amato molto Tusiani. Persona di straordinaria cultura, ci mancherebbe; grande poeta in latino e grande traduttore in inglese di classici italiani: ma circondato, almeno qui, da quella stessa quasi-santificazione che a molti rendeva antipatico lo stesso Soccio (dimenticato poi rapidamente dopo la morte), da quella piaggeria che in genere si mostra verso la falsa grandezza, e che spesso finisce per mortificare anche la grandezza vera.
Mi piacciono, invece, queste lettere. Mi piace lo stile, accurato senza essere artefatto, ma più ancora la sincerità dell’affetto, la sintonia intellettuale, la sensibilità comune per la terra garganica, con le sue dolcezze e le sue asprezze. La prosa di Soccio voleva essere poesia, e spesso lo era davvero. Qua e là si divertiva a disseminare i suoi scritti di endecasillabi. Tusiani, lettore attentissimo e sensibile, prontamente li ritrova e li segnala in Lucera minore (“Come in regale volontaruio esilio, / nelle sere d’0estate e nei meriggi… / gli occhietti d’oro della camomilla”) e nel libro sul convento di San Matteo. Ma le stesse lettere di Tusiani tendono alla poesia ed all’endecasillabo. Tra tutti, mi sembrano degni di nota questi versi finali d’una lettera in endecasillabi datata New York, 30 giugno 1980:
Ah, non m’è giunta risposta a due lettere
e per due brevi istanti (poi fugati
dalla certezza del tuo vivo raggio)
mi son sentito in luogo oscuro e solo;
ma finalmente, pochi giorni or sono,
di te m’ha scritto novità gioiose
il gran pittore delle mie radici.
Ei ti dirà, se presto tu lo veda,
che la frase blasfema conclusiva
mi fu dettata da malinconia –
quella nebbia sottile e insidiosa
che, grazie alla tua luce che mi salva,
or che ti scrivo più non so che sia.
E’ un endecasillabo anche la firma: Un abbraccio dal tuo Joseph Tusiani.
Joseph Tusiani e Pasquale Soccio
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Joseph Tusiani |
Molti anni fa (dodici? tredici?) frequentavo la casa d'un filosofo e scrittore prossimo ai novant'anni, dal profilo reso ascetico dall'età, quasi del tutto cieco. Il mio lavoro - perché di un lavoro si trattava - consisteva nel leggergli i libri e giornali, nel commentarli con lui e nello scrivere ciò che lui dettava; in particolare, nel metter mano ad un brogliaccio dal quale sarebbe venuto fuori un libro sul mito e Giambattista Vico. Sporadicamente, mi capitava di fargli da segretario.
Una mattina gli lessi una lettera di Eugenio Garin, alla quale si propose di rispondere immediatamente. Ed io avrei dovuto prestargli le mie mani. Ora, le lettere di Garin, scritte da lui o non so da chi, erano ammirevoli per il nitore, l'eleganza, la bellezza della scrittura, oltre che per il contenuto; e Garin era un autore sulle cui pagine avevo passato non poche giornate. La mia scritture invece era, ed è, penosamente contorta, sofferta, esasperata ed esasperante. Insomma, temevo un esito disastroso. E temevo bene: ché il timore mi fece per giunta sudare la mano, e mille sbavature s'aggiunsero a rendere completo il disastro.
Quel filosofo e scrittore si chiamava Pasquale Soccio. Mi è tornata in mente, quella spiacevole mattina degli anni Novanta, leggendo ora le Lettere di Joseph Tusiani a Pasquale Soccio (1974-1993), pubblicate dalle Edizioni del Rosone per celebrare i novant'anni di Tusiani.
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