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blog di antonio vigilante

Venerdì, 31 gennaio

Ieri una collega mi ha chiesto come mai sono stato in malattia. Le ho detto del mal di schiena. “Alla nostra età succede”, ha detto. Alla nostra età. La sua, la mia. C’è un’età che ora è anche la mia nella quale succede di star male per il mal di schiena. E succedono tante altre cose.
Ma queste cose – ed è questo l’essenziale – succedono al di fuori. Nel corpo, ma al di fuori. Nel corpo, ma al margine di qualcosa che resta identico, immutato: che si rifiuta di appartenere alla nuova età, semplicemente perché non ha a che fare con altro che con questo-presente-qui, che non è più giovane o più vecchio di alcun altro presente.
“Ogni istante del tempo può essere denominato ‘monade di eternità'”, dice Nishitani.

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Venerdì, 31 gennaio

Ieri una collega mi ha chiesto come mai sono stato in malattia. Le ho detto del mal di schiena. "Alla nostra età succede", ha detto. Alla nostra età. La sua, la mia. C'è un'età che ora è anche la mia nella quale succede di star male per il mal di schiena. E succedono tante altre cose.
Ma queste cose - ed è questo l'essenziale - succedono al di fuori. Nel corpo, ma al di fuori. Nel corpo, ma al margine di qualcosa che resta identico, immutato: che si rifiuta di appartenere alla nuova età, semplicemente perché non ha a che fare con altro che con questo-presente-qui, che non è più giovane o più vecchio di alcun altro presente.
"Ogni istante del tempo può essere denominato 'monade di eternità'", dice Nishitani.

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Tutti cercano la vita, tutti hanno paura della morte

Alcuni anonimi hanno creato un gruppo in difesa della sperimentazione animale scegliendosi come nome nientemeno che Resistenza Razionale. Nel loro blog trovo un articolo sul “cortocircuito logico dell’antispecismo” cui proverò a rispondere, non prima però di aver fatto qualche osservazione preliminare. Gli autori del blog, che preferiscono restare anonimi per via, dicono, delle minacce degli animalisti, scrivono: “Noi siamo assolutamente persuasi di avere dalla nostra i fatti scientifici, e con strumenti del genere nelle mani si vince sempre”. Una convinzione piuttosto ingenua, sia perché si può discutere a lungo di cosa siano i fatti scientifici, sia soprattutto perché le questioni morali non sono riconducibili ai fatti scientifici, qualunque cosa siano.
Secondo l’autore o gli autori dell’articolo, l’affermazione da cui partono gli antispecisti è la seguente: “Chi vi da diritto di disporre della vita degli animali? Sono uguali a noi.” Ora, l’obiezione è semplice. Come sono gli animali? Come si comportano? Quali sono le leggi di natura? Semplice:

Ebbene sì: qualsiasi essere vivente, animale o vegetale, in natura è profondamente egoista, crudele, cinica, razzista e specista. Qualsiasi essere vivente, compreso l’uomo. In natura. Cioè prima della civiltà. 

Per cui la conclusione è semplice: se l’uomo è come gli animali, allora dovrebbe comportarsi come loro, e dunque distruggere le altre vite senza porsi alcun problema etico; se si pone problemi etici, è perché invece si distingue nettamente da loro: “solo ammettendo che l’uomo sia diverso abbiamo il diritto di essere noi a decidere cosa è giusto, e solo con la presunzione di essere superiori possiamo pensare che questa decisione sia giusta”.
C’è qui il rovesciamento – o meglio: il tentato rovesciamento – di un argomento frequente di coloro che sono contrari alla sperimentazione animale. E cioè: si ricorre alla sperimentazione animale perché si ritiene che gli animali siano simili agli esseri umani (altrimenti le conclusioni degli esperimenti condotti su di loro non sarebbero estensibili agli esseri umani); ora, se gli animali sono simili agli esseri umani, allora hanno anche lo stesso diritto al rispetto dell’integrità corporea: e dunque la sperimentazione è sbagliata.
Consideriamo ora l’affermazione di partenza. In che senso i sostenitori dei diritti degli animali – antispecisti o animalisti – affermano che “gli animali sono uguali a noi”? La questione è posta fin dalle prime pagine di Liberazione animale di Peter Singer, uno dei testi fondamentali del movimento per i diritti degli animali. Alla fine del Settecento comparve in Inghilterra un libro intitolato A Vindication of the Rights of Brutes. Ne era autore il filosofo Thomas Taylor e voleva essere una satira della Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft. Il ragionamento era semplice: se le donne rivendicano dei diritti, perché non dovrebbero farlo le bestie? Su quali basi si sostiene l’uguaglianza di uomini e donne? E’ evidente, osserva Singer, che non si tratta della loro uguaglianza reale. Uomini e donne sono fisiologicamente diversi. Cosa vuol dire allora che sono uguali? La domanda riguarda ogni altro genere di uguaglianza riguardante gli esseri umani. Quando affermiamo che gli esseri umani sono uguali “senza distinzioni di razza, sesso o religione”, stiamo sostenendo che tutti gli esseri umani sono effettivamente identici? No, evidentemente, se parliamo appunto di distinzioni. Ed in cosa consiste allora l’uguaglianza? Come scrive efficacemente Singer, essa è “un’idea morale, non un’asserzione di fatto”:

Il principio dell’uguaglianza degli esseri umani non è una descrizione di una pretesa uguaglianza reale: è una prescrizione sul modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere trattati. [1]

Affinché due esseri abbiano gli stessi diritti non occorre dunque che siano identici. Occorre tuttavia che abbiano comunque qualcosa in comune. Sembra piuttosto arduo sostenere l’uguaglianza tra esseri umani e pietre, ad esempio. Se si afferma che gli animali hanno diritti come gli esseri umani (e non, evidentemente, tutti gli stessi diritti), è perché c’è qualcosa che i primi ed i secondi hanno in comune. Di cosa si tratta? Una prima risposta è: la capacità di soffrire. Un cane o una scimmia soffrono come un essere umano. O meglio: è difficile sapere se la sofferenza è esattamente la stessa, perché nella percezione della sofferenza nel caso dell’essere umano intervengono elementi che possono non essere presenti nell’animale. Che un animale soffra, tuttavia, è innegabile. E sappiamo per esperienza che la sofferenza è un male. Ma la soppressione della vita animale diventa accettabile, se fatta con metodi non dolorosi? E: gli esseri viventi non dotati di sistema nervoso non hanno alcun diritto alla vita? Un criterio diverso è quello che si trova in testi scritti molti secoli prima che si cominciasse a parlare di animalismo ed antispecismo: i sutra buddhisti. Nel Dhammapada si legge (verso 129):

Sabbe tasanti dandassa
sabbe bhayanti maccuno
attanam upamam katva
na haneyya na ghataye.

Tutti hanno paura del bastone
tutti temono la morte.
Facendo un confronto con se stessi
non si colpirebbe e non si ucciderebbe. [2]

La cosa che accomuna tutti gli esseri viventi – che si tratti di un essere animale, di un cane o di una pianta – è il fatto di evitare la morte e di cercare la vita. Come dice un verso successivo (131), tutti gli esseri sono “in cerca di felicità”. In termini nietzscheani, potremmo dire che ogni essere vivente esprime un sì alla vita. E’ facile osservare in natura questa ricerca della vita: si pensi al modo in cui le piante si sporgono verso la luce o si adattano per sopravvivere anche in condizioni difficili. Di fronte a questo sì alla vita, che è lo stesso che muove l’essere umano, è doveroso il rispetto. Che vuol dire, in concreto, considerare vandalismo la distruzione gratuita ed evitabile di qualsiasi essere vivente.
Si dirà – ed è quello che dice l’autore dell’articolo – che in natura ogni vita, affermando sé stessa, lo fa a scapito delle altre vite. In natura nessun essere vivente esprime rispetto per il sì alla vita di altri esseri viventi. E’ una convinzione che si può discutere. Non mancano, da Kropotkin a Danilo Dolci, coloro che hanno considerato il mondo naturale ed animale come un campo di grandi insegnamenti morali. Una cosa è certa: in natura la violenza su altre vite è normalmente finalizzata alla sopravvivenza. Il leone sbrana la gazzella se ha fame. Un leone sazio è pacifico, come sanno quelli che lavorano nei circhi (di cui auspico la rapida scomparsa, nella loro forma attuale). La distruzione della vita, dunque, non è gratuita ed evitabile. Ed è esattamente questo che i difensori dei diritti degli animali chiedono. Non di evitare la distruzione di qualsiasi vita animale, ma di evitare ogni distruzione di vita animale gratuita ed evitabile. Per alimentarsi occorre uccidere: non si sfugge. Ma, si dirà, non è dunque giusto allevare, uccidere e mangiare animali per soddisfare il bisogno primario della sussistenza? Qui entra in gioco l’altro criterio, quello della sofferenza. Tutti gli esseri viventi cercano la vita, tutti cercano di sfuggire alla morte. Alcuni, però, a differenza di altri hanno la capacità di soffrire. Potendo scegliere quale vita distruggere per soddisfare il bisogno primario si alimentarsi, è doveroso scegliere la vita che non è capace di sofferenza. Si può obiettare che qui è all’opera un criterio ancora antropocentrico: si salva l’animale perché ha qualcosa che lo accomuna all’essere umano, mentre si condanna la pianta che è più lontana dall’essere umano. E’ una obiezione seria, anche se al senso comune può sembrare provocatoria, perché siamo abituati a percepire le piante come quasi-cose. In mancanza di altri criteri per distinguere la vita sacrificabile da quella non sacrificabile, mi pare però che questo sia un criterio ragionevole.
Un’ultima osservazione. Nelle specie animali è molto raro che gli scontri tra i singoli individui siano mortali. La violenza interspecifica è in genere frenata da meccanismi di pacificazione. Quando nello scontro diventa evidente chi è il più forte, ad esempio, l’altro si sottomette, e lo scontro finisce. Nella specie umana questi meccanismi non funzionano. Se dicessi che la specie umana nel corso della sua vita sulla terra si è massacrata da sola, direi il falso, perché per la gran parte della sua vita sulla terra la specie umana si è espressa in società di caccia e raccolta che erano sostanzialmente pacifiche, e certo non conoscevano lo sterminio. Gli esseri umani si massacrano da qualche secolo. Da quando, diciamo, hanno introdotto l’agricoltura, la proprietà, lo Stato. Forse anche la religione.
Perché gli esseri umani si massacrano? Una risposta plausibile è la seguente. Il nemico, che viene massacrato, in virtù della sua differenza (di etnia, di religione, di ideologia ecc.) non è più percepito come un appartenente alla stessa specie. E’ come se non fosse più un essere umano, ma un animale. In questo senso la violenza interspecifica diventa violenza intraspecifica.
Se le cose stanno così, abbiamo una ragione in più per considerare urgente la questione della violenza sulle specie animali. Non è escluso che qui sia la chiave per risolvere anche il problema della violenza sull’essere umano.

[1] P. Singer, Liberazione animale, tr. it., il Saggiatore, Milano 2010, p. 21. Corsivo nel testo.
[2] Traduzione di Luigi Martinelli: Dhammapada, Mondadori, Milano 1990.

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Tutti cercano la vita, tutti hanno paura della morte

Alcuni anonimi hanno creato un gruppo in difesa della sperimentazione animale scegliendosi come nome nientemeno che Resistenza Razionale. Nel loro blog trovo un articolo sul "cortocircuito logico dell'antispecismo" cui proverò a rispondere, non prima però di aver fatto qualche osservazione preliminare. Gli autori del blog, che preferiscono restare anonimi per via, dicono, delle minacce degli animalisti, scrivono: "Noi siamo assolutamente persuasi di avere dalla nostra i fatti scientifici, e con strumenti del genere nelle mani si vince sempre". Una convinzione piuttosto ingenua, sia perché si può discutere a lungo di cosa siano i fatti scientifici, sia soprattutto perché le questioni morali non sono riconducibili ai fatti scientifici, qualunque cosa siano.
Secondo l'autore o gli autori dell'articolo, l'affermazione da cui partono gli antispecisti è la seguente: "Chi vi da diritto di disporre della vita degli animali? Sono uguali a noi." Ora, l'obiezione è semplice. Come sono gli animali? Come si comportano? Quali sono le leggi di natura? Semplice:
Ebbene sì: qualsiasi essere vivente, animale o vegetale, in natura è profondamente egoista, crudele, cinica, razzista e specista. Qualsiasi essere vivente, compreso l’uomo. In natura. Cioè prima della civiltà. 
Per cui la conclusione è semplice: se l'uomo è come gli animali, allora dovrebbe comportarsi come loro, e dunque distruggere le altre vite senza porsi alcun problema etico; se si pone problemi etici, è perché invece si distingue nettamente da loro: "solo ammettendo che l’uomo sia diverso abbiamo il diritto di essere noi a decidere cosa è giusto, e solo con la presunzione di essere superiori possiamo pensare che questa decisione sia giusta".

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Appunti di ateologia #2

Una cosa che accomuna le cosiddette religioni orientali e la mistica speculativa cristiana è il fatto di considerare la Realtà ultima come qualcosa di radicalmente altro rispetto all’essere umano. Ed è in questo che l’esperienza religiosa incontra la scienza. Il conflitto tra scienza e religione esiste soltanto per la religione alienata ed alienante, quella che mette l’essere umano al centro di un cosmo fittizio, e la cui funzione consiste nel creare una “dimora metafisica” (Buber) per un soggetto insicuro, il cui io viene puntellato da quel Grande Io che è Dio.
La Radice delle cose non è umana. Non c’è un Dio Persona che crea il mondo e lo governa. Questa è una percezione superficiale, oltre la quale c’è il Radicalmente Altro. La fisica, inoltrandosi nella natura dell’universo, scopre l’inadeguatezza delle nostre concezioni correnti di tempo e di spazio e dell’idea stessa di “cosa”. Ma lo sapeva già l’autore del Daodejing (I): “Il Dao che può essere nominato non è il Dao eterno”. E così il Sutra del cuore: “Iha śāriputra: rūpaṃ śūnyatā śūnyataiva rūpaṃ” (Shariputra, la forma è vuoto, il vuoto è forma).

Il Vuoto. Il Senza Nome. L’Indicibile. Alla radice delle cose c’è la non-cosa, ciò che la nostra lingua non può nominare, ciò che la nostra mente non può cogliere fino a quando non si libera delle sue categorie correnti. Il mondo con le sue identità, con le cose e i nomi e le forme, non è la realtà ultima. 
Questa consapevolezza provoca angoscia, ed è esattamente questa angoscia che avvia l’esperienza religiosa. La falsa religione che i più professano serve a placare l’angoscia esistenziale; rassicura il soggetto, dicendogli che non morirà davvero, che dopo la morte avrà una vita nuova migliore di quella attuale. La religione autentica, al contrario, parte dall’angoscia e la usa come strumento di conoscenza. Non dice al soggetto che la morte non c’è; gli dice che lui, qui ed ora, è già morto. Che lui non c’è. Che il suo io non è che una interpretazione. 
C’è esperienza religiosa quando un soggetto si mette in cammino contro sé stesso. L’altro radicale – il Vuoto, il Senza Nome – è qualcosa che tu devi essere. Fino a quando resta altro, siamo ancora nell’alienazione religiosa. Essere questo altro, lasciando cadere il corpo e la mente, il nome e la forma, è esperienza religiosa. Essere il Senza Nome vuol dire rinunciare alla parola: stare nel silenzio. Farsi silenzio.

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Appunti di ateologia #2

Una cosa che accomuna le cosiddette religioni orientali e la mistica speculativa cristiana è il fatto di considerare la Realtà ultima come qualcosa di radicalmente altro rispetto all'essere umano. Ed è in questo che l'esperienza religiosa incontra la scienza. Il conflitto tra scienza e religione esiste soltanto per la religione alienata ed alienante, quella che mette l'essere umano al centro di un cosmo fittizio, e la cui funzione consiste nel creare una "dimora metafisica" (Buber) per un soggetto insicuro, il cui io viene puntellato da quel Grande Io che è Dio.
La Radice delle cose non è umana. Non c'è un Dio Persona che crea il mondo e lo governa. Questa è una percezione superficiale, oltre la quale c'è il Radicalmente Altro. La fisica, inoltrandosi nella natura dell'universo, scopre l'inadeguatezza delle nostre concezioni correnti di tempo e di spazio e dell'idea stessa di "cosa". Ma lo sapeva già l'autore del Daodejing (I): "Il Dao che può essere nominato non è il Dao eterno". E così il Sutra del cuore: "Iha śāriputra: rūpaṃ śūnyatā śūnyataiva rūpaṃ" (Shariputra, la forma è vuoto, il vuoto è forma).

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Rinunciare al karma

C’è una contraddizione, nel buddhismo, tra l’affermazione che tutto è pieno di sofferenza (sabbe dukkha) e la dottrina del karma. Un mondo pieno di sofferenza è un mondo privo di senso; un mondo nel quale la sofferenza, che accade, non ha alcuna giustificazione, si colloca al di là della nostra capacità di comprensione. La sofferenza è veramente tale solo quando è incomprensibile. Se riusciamo a collocarla in una visione delle cose piena di senso, essa non è più vera sofferenza: sarà facile sopportarla.
Ora, il mondo regolato dalla legge del karma è, appunto, un mondo dotato di senso, nel quale le cose non accadono a caso, ma secondo un ferreo criterio retributivo. Se soffro, so che la mia sofferenza ha un senso. Se una malattia mi colpisce, è perché ho fatto del male. E se qualcuno mi fa del male, so che prima o poi i frutti della sua azione giungeranno a maturazione, e toccherà a lui soffrire.
Perché dovremmo liberarci da un mondo del genere? Esiste l’impermanenza, esistono la malattia e la morte, ma sono cose che acquistano senso alla luce del karma.
Nel suo nucleo originale, il buddhismo è una concezione – più terapia che religione – che procede per passaggi logici, senza alcun elemento fantastico, o mitico, o irrazionale. Fanno eccezione la legge del karma e l’idea della rinascita. Non si tratta dell’ovvia constatazione che se si fanno certe azioni toccherà subirne le conseguenze (anche se non sempre accade, come è facile constatare: ed era già l’interrogativo di Giobbe e del Qohelet), ma di un meccanismo metafisico, di un legame che va di vita in vita, operando in modo misterioso. Un buddhismo occidentale, pienamente logico, dovrà fare a meno della legge del karma e della rinascita. E prendere atto che la liberazione è necessaria proprio perché viviamo in una realtà che sfugge a qualsiasi presa di senso.

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Rinunciare al karma

C'è una contraddizione, nel buddhismo, tra l'affermazione che tutto è pieno di sofferenza (sabbe dukkha) e la dottrina del karma. Un mondo pieno di sofferenza è un mondo privo di senso; un mondo nel quale la sofferenza, che accade, non ha alcuna giustificazione, si colloca al di là della nostra capacità di comprensione. La sofferenza è veramente tale solo quando è incomprensibile. Se riusciamo a collocarla in una visione delle cose piena di senso, essa non è più vera sofferenza: sarà facile sopportarla.
Ora, il mondo regolato dalla legge del karma è, appunto, un mondo dotato di senso, nel quale le cose non accadono a caso, ma secondo un ferreo criterio retributivo. Se soffro, so che la mia sofferenza ha un senso. Se una malattia mi colpisce, è perché ho fatto del male. E se qualcuno mi fa del male, so che prima o poi i frutti della sua azione giungeranno a maturazione, e toccherà a lui soffrire.

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Versetti pericolosi?

Versetti pericolosi del frate servita Alberto Maggi (Fazi, Roma 2011) presenta una lettura dei vangeli talmente semplificata da apparire naïf. Gesù era buono: radicalmente buono. E’ venuto ad annunciare il vangelo dell’amore. Ma era, il suo, un messaggio nuovo, perché il Dio degli ebrei, il Dio dell’Antico Testamento, non era un Dio d’amore. Era il Dio della legge, il Dio che giudica e condanna, che separa il puro dall’impuro e che incute paura. I suoi rappresentanti, al tempo di Gesù, sono gli scribi ed i farisei, religiosi zelanti attenti più a rispettare la legge che a rispettare l’uomo.
Durante tutta la sua vita, Gesù non ha fatto che attraversare liberamente la linea di confine tra il puro e l’impuro, collocandosi dalla parte degli impuri ed operando in questo modo una trasmutazione dei valori. L’episodio più clamoroso, sul quale Maggi si sofferma ed a cui fa riferimento il titolo del suo libro, è quello della lapidazione dell’adultera. Che, spiega l’autore, doveva essere in realtà una bambina sui dodici anni, poiché non era una donna sposata, ma in attesa di nozze (l’adultera sposata secondo la legge invece andava strangolata). Erano talmente scandalosi, i versetti che raccontano l’assoluzione dell’adultera, che

Per almeno un secolo nessuna comunità cristiana accettò questo brano, che veniva ogni volta rispedito al mittente, e ci vollero ben tre secoli prima che questi versetti trovassero ospitalità in un vangelo, che non era quello originario, e venissero inseriti da Girolamo nel Nuovo Testamento.

Questo passo è scandaloso perché più di altri mostra il cambiamento avvenuto, che Maggi così sintetizza:

In ogni religione, compresa quella giudaica, si insegnava che Dio premiava i (pochi) buoni ma castigava inesorabilmente i (tanti) cattivi. Gesù annuncia e dimostra che il Signore “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). Ma se Dio non premia più i buoni e non castiga più i malvagi, allora… non c’è più religione! Con Gesù è finita la religione e inizia la fede.

Le conseguenze di questa affermazione, sul piano dottrinale, sono piuttosto profonde. Per Maggi c’è una discontinuità assoluta tra prima e dopo, tra Antico e Nuovo Testamento, tra legge mosaica e vangelo. Il che vuol dire, con ogni evidenza, che i cristiani dovrebbero smetterla di considerate sacro l’Antico Testamento e ritenere che il Dio che parla attraverso le sue pagine sia un Dio falso e violento, ricongiungendosi con il marcionismo ed allontanandosi, ahimè, dall’ebraismo.

Ma le cose stanno proprio così? Quella di Maggi è una lettura dei vangeli molto selettiva. Non mancano, certo, i passi che indicano la logica dell’amore, che è ciò che più colpisce e seduce del vangelo. E tuttavia, se la storia della Chiesa è una storia violenta, se il cristianesimo storico ricorda più la legge mosaica che la logica dell’amore, è perché nel vangelo c’è anche altro.

Per Maggi con Gesù finisce la religione e comincia la fede. E’ vero. Ma non è detto che sia una cosa positiva. Credo di non sbagliare se affermo che prima di Gesù la figura del non credente era sostanzialmente sconosciuta in Israele. Esisteva la figura dell’empio, o di colui che, come Giobbe, mette Dio in stato di accusa. Ma si trattava di domandarsi come e chi è Dio, non se c’è Dio o meno. Con Gesù le cose cambiano. In primo piano viene ora la questione della fede. Gesù afferma di essere il Figlio di Dio. E’ vero? E’ falso? Per alcuni è vero, per altri è falso. I primi sono i credenti, i secondi i non credenti. Ora, questa distinzione del tutto nuova porta con sé una nuova violenza. I primi, quelli che credono, saranno i salvati, i secondi saranno i dannati. In altri termini, si ripropone ora la scissione del mondo ebraico. Prima il mondo umano era diviso in puri ed impuri, secondo la legge. Gesù supera questa scissione collocandosi dalla parte degli impuri. Ma propone ora una seconda scissione: quella tra credenti e non credenti. E nei confronti dei secondi si ripresenta tutto l’armamentario violento dell’ebraismo. “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde” (Luca 11, 23).

Che Gesù sia venuto a salvare tutti è semplicemente falso. Il vangelo di Giovanni è chiarissimo: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero peccato” (Giovanni 15, 22). La venuta del Cristo rappresenta la salvezza per alcuni, la condanna per altri. Dopo la venuta del Cristo e grazie ad essa, chi doveva essere salvato è stato salvato, chi doveva essere condannato è stato condannato.

Ancora una volta un mondo scisso, spaccato: infelice. Quel mondo infelice che è stato ed è l’occidente

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Versetti pericolosi?

La copertina del libro
Versetti pericolosi del frate servita Alberto Maggi (Fazi, Roma 2011) presenta una lettura dei vangeli talmente semplificata da apparire naïf. Gesù era buono: radicalmente buono. E' venuto ad annunciare il vangelo dell'amore. Ma era, il suo, un messaggio nuovo, perché il Dio degli ebrei, il Dio dell'Antico Testamento, non era un Dio d'amore. Era il Dio della legge, il Dio che giudica e condanna, che separa il puro dall'impuro e che incute paura. I suoi rappresentanti, al tempo di Gesù, sono gli scribi ed i farisei, religiosi zelanti attenti più a rispettare la legge che a rispettare l'uomo.
Durante tutta la sua vita, Gesù non ha fatto che attraversare liberamente la linea di confine tra il puro e l'impuro, collocandosi dalla parte degli impuri ed operando in questo modo una trasmutazione dei valori. L'episodio più clamoroso, sul quale Maggi si sofferma ed a cui fa riferimento il titolo del suo libro, è quello della lapidazione dell'adultera. Che, spiega l'autore, doveva essere in realtà una bambina sui dodici anni, poiché non era una donna sposata, ma in attesa di nozze (l'adultera sposata secondo la legge invece andava strangolata). Erano talmente scandalosi, i versetti che raccontano l'assoluzione dell'adultera, che

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Appunti di ateologia

La cosiddetta fede in Dio consiste di tre cose: etnolatria, antropolatria, egolatria.
L’etnolatria è propria dell’ebraismo. Attraverso Dio, si rende culto in realtà al popolo ebraico; Dio è colui che conduce l’esercito verso lo sterminio dei nemici.
L’antropolatria è propria del cristianesimo. Dio si sacrifica per l’uomo, muore in croce per lui. Ma ciò per cui ci si sacrifica, è ciò che più conta. Con il cristianesimo Dio muore e l’Uomo prende il suo posto. Il cristianesimo è ateismo ed umanesimo.
L’egolatria rappresenta la degenerazione del cristianesimo nella società dei consumi. Al centro ora non è più l’Uomo, ma questo-uomo-qui. Dio è il sostegno metafisico delle sue insicurezze. Il messaggio è: “Dio ti ama, dunque non soffrire”. La fede e Dio sono dei beni di consumo. Di Dio, come di qualunque altro prodotto, si magnificano le virtù ed i benefici.

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Appunti di ateologia

La cosiddetta fede in Dio consiste di tre cose: etnolatria, antropolatria, egolatria.
L'etnolatria è propria dell'ebraismo. Attraverso Dio, si rende culto in realtà al popolo ebraico; Dio è colui che conduce l'esercito verso lo sterminio dei nemici.
L'antropolatria è propria del cristianesimo. Dio si sacrifica per l'uomo, muore in croce per lui. Ma ciò per cui ci si sacrifica, è ciò che più conta. Con il cristianesimo Dio muore e l'Uomo prende il suo posto. Il cristianesimo è ateismo ed umanesimo.
L'egolatria rappresenta la degenerazione del cristianesimo nella società dei consumi. Al centro ora non è più l'Uomo, ma questo-uomo-qui. Dio è il sostegno metafisico delle sue insicurezze. Il messaggio è: "Dio ti ama, dunque non soffrire". La fede e Dio sono dei beni di consumo. Di Dio, come di qualunque altro prodotto, si magnificano le virtù ed i benefici.

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Se il sindaco non risponde (e cancella chi lo critica)

Gianni Mongelli, sindaco di Foggia
Il sindaco di Foggia, Gianni Mongelli, mi ha cancellato dai suoi contatti Facebook. Ha fatto esattamente quello che avrei fatto io se qualcuno dei miei contatti avesse scritto sulla mia pagina le cose che ho scritto io sulla pagina del sindaco. L’ultima delle quali è stata che Mongelli non risponde sulla sua pagina Facebook perché non è in grado di mettere insieme dieci parole senza fare errori ortografici. Constatazione difficilmente contestabile – basta rileggere qualcuna delle rare testimonianze autografe mongelliane -, ma sicuramente antipatica. E tuttavia io non sono il sindaco di Foggia. Questa cosa – il non essere sindaco di Foggia – qualche vantaggio l’ha. Essendo un privato cittadino, posso permettermi qualche libertà che un cittadino pubblico non può permettersi. Tra queste, quella di cancellare da Facebook chi non mi piace.
Devo confessare che non ho mai compreso per quale ragione Mongelli abbia voluto aprire una pagina Facebook. Nell’era dei social network, la politica si fa anche su Facebook e su Twitter. I social network sono il luogo virtuale in cui i politici incontrano i cittadini, con le loro richieste reali, e si sforzano di dare risposte. Mongelli no. Apre la sua pagina Facebook e la abbandona a sé stessa. Interviene solo, di tanto in tanto, per augurare buongiorno o buon Natale. Se qualcuno gli dice ciao, risponde ciao. Se qualcuno gli fa una domanda politica, tace. Se qualcuno gli fa una critica, tace. Se qualcuno gli fa una richiesta, tace. Se qualcuno gli fa una segnalazione, tace. Chiunque acceda alla pagina Facebook di Mongelli, si fa di lui questa idea: il sindaco che tace. E’, più o meno, l’impressione che chiunque può farsi dell’amministrazione passeggiando per la città. Una città in cui la politica tace.

Diamo uno sguardo agli ultimi interventi sulla pagina del sindaco. Qualcuno pubblica la foto del pronao della villa comunale, imbrattato dalle scritte, e chiede di dare dignità a uno dei simboli della città. Il sindaco non risponde. Altri fanno notare che nonostante l’ordinanza che vietava la vendita dei botti, la città in questi giorni è stata piena di baracche abusive di venditori di botti. Mongelli non ha nulla da dire. Un’altra cittadina chiede che si permetta di pagare la Tares fino alla fine di gennaio. Mongelli tace. Un cittadino protesta perché gli abitanti dei palazzi di nuova costruzione passeranno le vacanze natalizie senza gas e riscaldamenti. Mongelli non ha nulla da dire.
Sia chiaro: non tutti quelli che intervengono sulla pagina del sindaco lo fanno con educazione e rispetto, né tutte le richieste sono sensate, né tutte le responsabilità sono del sindaco. Ma se la risposta è, invariabilmente, il silenzio, tutto diventa indifferente. La bacheca, che doveva essere il luogo del confronto, diviene un muro delle lamentazioni sul quale lo sfogo volgare e scomposto e la critica ragionata, l’insulto e la segnalazione di un disagio reale hanno lo stesso peso specifico. L’impressione – mi si passi l’immagine un po’ forte – è quella delle chiacchiere nella stanza del morto. Con la differenza che i parenti raccolti intorno alla salma in genere parlano bene del defunto. In questo caso, invece, per lo più ne parlano male.
Devo confessare che quando ho scoperto che Mongelli mi ha cancellato dei suoi contatti ho sorriso. Ed ho pensato: oh, dunque esiste. Mongelli respira, è vivo. C’è. E tuttavia penso che non vada bene se un sindaco cancella un cittadino dai suoi contatti. Immaginiamo la scena al di fuori di un social network. Il sindaco sta al Comune. La gente va al Comune, con le sue domande. “Sindaco, la Tares”. “Sindaco, ci manca il riscaldamento”. “Sindaco, non ho la casa”. Il sindaco tace. La gente continua a protestare, ed il sindaco continua a tacere. Finché, a un certo punto, ha uno scatto di orgoglio. Decide di fare qualcosa. Rispondere? No, troppo difficile. Chiama i vigili urbani e fa allontanare uno a caso. Diciamo il più antipatico, anche se non il più violento.
Ammetto che si tratta di un paragone un po’ forzato. Per fortuna, la pagina Facebook del sindaco non è il Comune, ed essere cancellati dai contatti non è la stessa cosa che essere allontanati con la forza dai vigili. Ma la sostanza non cambia molto. C’è un sindaco che non vuole sentire chi lo critica. Che chiude la comunicazione.
Anche chi è meno duro nei confronti di Mongelli riconosce che non ha grandi capacità comunicative. E considera questa come una pecca trascurabile, un peccato veniale.
Bisogna intendersi su cosa vuol dire comunicare. Per molti la comunicazione che ha a che fare con la politica è la stessa comunicazione della pubblicità: consiste nel saper vendere un prodotto. Il politico comunicatore è uno che sa vendersi. Sa come atteggiarsi, come parlare, come vestirsi. Sa dire le parole giuste, sa risultare gradevole e positivo.
Mongelli non è un grande comunicatore in questo senso. Non sa scegliere le parole; di più: non è in grado nemmeno di pronunciare la nostra lingua in modo corretto. E devo ammettere che, per quanto mi infastidisca che un sindaco non sappia esprimersi correttamente in italiano, la cosa me lo rende quasi simpatico. Non amo i comunicatori-imbonitori.
Ma la comunicazione ha a che fare con la politica anche in un altro senso, più vero e più profondo. Comunicare è ascoltare e parlare; c’è vera comunicazione solo se ci sono queste due cose insieme. Per questo il politico comunicatore, così come è comunemente inteso, non è in realtà un comunicatore ma, appunto, un imbonitore. Il politico autentico ascolta le domande e poi cerca di dare delle risposte serie. Non solo: riesce anche a far comunicare gli altri. La vera politica si riconosce da questo: elimina i blocchi comunicativi, fa circolare le idee e le domande, apre uno spazio pubblico per il confronto. E’ in questo secondo senso, più vero, che Mongelli non è un buon comunicatore. E non solo perché non sa usare un social network e cancella chi gli dà fastidio.
Come altre città meridionali, Foggia ha vissuto e vive la miseria di una politica da pitocchi, del voto di scambio e del clientelismo, che sempre porta all’abbandono ed al degrado. Una fotografia scattata in uno dei tanti quartieri degradati della nostra città potrebbe essere intitolata “Effetti del cattivo governo in città”, come l’affresco di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. Per i foggiani dei Quartieri Settecenteschi o di Candelaro il politico è il santo in paradiso al quale scroccare la cena elettorale o la promessa di lavoro. Il rapporto con il politico è di reciproco sfruttamento: ed è un rapporto privato, fatto di incontri al chiuso, di cose sussurrate tra quattro pareti. Un sindaco di rottura in questa città dovrebbe combattere soprattutto questa logica. Passare dalla comunicazione privata alla comunicazione pubblica. Andare nei quartieri, una volta al mese o anche meno spesso, ed incontrare la gente. Ascoltare le lamentele, raccogliere le richieste, rispondere alle critiche. Avviare la stagione del confronto. Educare alla cittadinanza reale persone che sono state ridotte da decenni di miserabile politicanteria a vendersi il voto per un pacco di pasta. Andare nei posti del degrado – che a Foggia sono tanti – e cercare insieme una via d’uscita.
Mongelli non è stato e non è nulla di tutto questo.

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Se il sindaco non risponde (e cancella chi lo critica)

Gianni Mongelli, sindaco di Foggia
Il sindaco di Foggia, Gianni Mongelli, mi ha cancellato dai suoi contatti Facebook. Ha fatto esattamente quello che avrei fatto io se qualcuno dei miei contatti avesse scritto sulla mia pagina le cose che ho scritto io sulla pagina del sindaco. L'ultima delle quali è stata che Mongelli non risponde sulla sua pagina Facebook perché non è in grado di mettere insieme dieci parole senza fare errori ortografici. Constatazione difficilmente contestabile - basta rileggere qualcuna delle rare testimonianze autografe mongelliane -, ma sicuramente antipatica. E tuttavia io non sono il sindaco di Foggia. Questa cosa - il non essere sindaco di Foggia - qualche vantaggio l'ha. Essendo un privato cittadino, posso permettermi qualche libertà che un cittadino pubblico non può permettersi. Tra queste, quella di cancellare da Facebook chi non mi piace.
Devo confessare che non ho mai compreso per quale ragione Mongelli abbia voluto aprire una pagina Facebook. Nell'era dei social network, la politica si fa anche su Facebook e su Twitter. I social network sono il luogo virtuale in cui i politici incontrano i cittadini, con le loro richieste reali, e si sforzano di dare risposte. Mongelli no. Apre la sua pagina Facebook e la abbandona a sé stessa. Interviene solo, di tanto in tanto, per augurare buongiorno o buon Natale. Se qualcuno gli dice ciao, risponde ciao. Se qualcuno gli fa una domanda politica, tace. Se qualcuno gli fa una critica, tace. Se qualcuno gli fa una richiesta, tace. Se qualcuno gli fa una segnalazione, tace. Chiunque acceda alla pagina Facebook di Mongelli, si fa di lui questa idea: il sindaco che tace. E', più o meno, l'impressione che chiunque può farsi dell'amministrazione passeggiando per la città. Una città in cui la politica tace.

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