La sparizione della ciabatta
Nel 1925 compare un libro che appare quasi un corpo estraneo nel contesto filosofico del tempo: Realismo, di Giuseppe Rensi. Dopo una giovinezza di impegno politico socialista, l’autore si era dato agli studi filosofici aderendo al neoidealismo, pur nella direzione di un idealismo trascendente ispirato alla filosofia di Royce. La prima guerra mondiale aveva però mandato in crisi le sue certezze filosofiche, spingendolo verso lo scetticismo: del 1919 sono i Lineamenti di una filosofia scettica. Il realismo è il passo ulteriore nel suo rovesciamento delle posizioni idealistiche. Vi sono, sosteneva, un vecchio ed un nuovo spirito della filosofia, che attraversano tutta la sua storia. Lo spirito vecchio è quello che non sa distinguere i fatti dalla fantasia, la realtà dalla coscienza; lo spirito nuovo è quello che sa che un conto è la realtà, un altro le rappresentazioni psichiche. Nel mondo greco – ed è una lettura interessante – è vecchio lo spirito socratico-platonico, mentre nuovo è il relativismo della Sofistica. E vecchio è, naturalmente, il neoidealismo crociano e gentiliano. Di più: esso rappresenta l’Italia peggiore, l’Italia servile e smidollata che è il risultato di secoli di dominazioni. L’alternativa tra realismo ed idealismo era dunque alternativa tra Italia vecchia e nuova:
fra una perdurante Italia dell’epoca ispano-austriaca, dei cortigiani e delle schiene curve, e un’Italia libera, anche nello spirito, dall’oppressione, un’Italia d’uomini che sappiano (e, come dovrebbero, lo possano, senza che ci sia bisogno d’essere eroi e pericolo di subire menomazioni o conculcazioni di varia indole) pensare come credono; l’Italia delle schiene dritte. (1)
A distanza di quasi un secolo l’istanza realista torna a presentarsi nella filosofia italiana con il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris, esito di un dibattito che ha coinvolto i maggiori filosofi italiani, e che è ancora aperto. Come Rensi, Ferraris proviene dalle posizioni che attacca: allievo di Vattimo e di Gadamer, è stato negli anni Ottanta uno dei più importanti rappresentanti italiani dell’ermeneutica. E come in Rensi, la sua polemica ha uno sfondo politico: Ferraris attacca la filosofia postmoderna accusandola di essere sostanzialmente di destra, collocandosi tra in cinismo di Bush ed il populismo berlusconiano, espressione della degenerazione della “rivoluzione desiderante” degli anni Sessanta e Settanta. Il postmoderno è nato come filosofia emancipativa ed è diventano una filosofia che giustifica il dominio, o nella migliore delle ipotesi non ha strumenti per opporvisi; denunciando i rapporti tra verità e potere, ha finito per “delegittimare la tradizione, che culmina con l’Illuminismo, per cui il sapere e la verità sono veicoli di emancipazione, strumenti di contropotere e di virtù”(2).
E qui c’è una distorsione che mi sembra tipica dei filosofi e degli intellettuali in generale. Ferraris parla come se le vicende della filosofia fossero determinanti per la società, per lo stato, per la civiltà; come se il futuro della gente dipendesse dall’esito di qualche dibattito filosofico; come se dal prevalere del realismo o del postmoderno dipendesse il nostro futuro. Disgraziatamente o per fortuna, le cose non stanno così. La filosofia è faccenda che riguarda soltanto un certo numero di persone, per lo più chiusi nelle università. I cambiamenti storici derivano da altro. Uno strumento come Facebook, inventato da un ragazzo di poco più di vent’anni tutt’altro che incline alla speculazione filosofica, ha cambiato il mondo in cui siamo molto più di centinaia di libri di filosofia.
Quando Ferraris scrive che se non esiste il mondo esterno “allora lo stato d’animo predominante diviene la malinconia, o meglio quella che potremmo definire come una sindrome bipolare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità del tutto” (3), non si può fare a meno di sorridere. Predominante presso chi? La sindrome bipolare colpirà qualche professore universitario o, al più, qualche studentello di filosofia: poco male. Detto altrimenti: il pensiero non precede la società, non la costruisce, non la orienta più da gran tempo. Nella migliore delle ipotesi, insegue la realtà sociale e politica cercando di comprenderla, ma afferrandone solo brandelli. Ritenere che basti risolvere qualche questione teorica, come quella della realtà del mondo esterno e della oggettività della verità, per riprendere il cammino interrotto dell’emancipazione, è un’illusione: attribuisce al pensiero un potere che il pensiero ha perso da tempo. Il problema reale è un altro. Non: esiste il mondo esterno?, ma: come possiamo cambiare questo mondo, segnato dal male, dall’ingiustizia, dalla disuguaglianza, dallo sfruttamento? Cercare la via della prassi è l’unico modo per ridare alla filosofia un peso politico che non ha più. Dichiarare solennemente che il mondo esiste non ci aiuta a rendere migliore il mondo che esiste; al contrario, pone dei limiti alla prassi, poiché il mondo che esiste ci si pare di fronte con le sue strutture oggettive, immutabili, impenetrabili. La prassi si conforma all’essere, parte dall’accertamento dell’oggettività, ed in ciò trova il suo limite – mentre una prassi assoluta antepone l’istanza etica di giustizia, di verità e di bellezza, ed alla luce di quella istanza aggredisce il reale, pronta anche a negarne l’evidenza in nome di una realtà più alta, che è quella che si presenta alla nostra coscienza etica. E’ quella che altrove ho chiamato forzatura della verità (4).
Ma esiste, poi, la realtà? Esiste il mondo? C’è qualcosa qui fuori di me? Ferraris lo dimostra con l’esperimento della ciabatta. Immaginiamo, dice, che un uomo guardi un tappeto con sopra una ciabatta. Chiede ad un altro di passargliele, e l’altro lo fa senza difficoltà. “Banale fenomeno di interazione, che però mostra come, se davvero il mondo esterno dipendesse anche solo un poco, non dico dalle interpretazioni e dagli schemi concettuali, ma dai neuroni, la circostanza che i due non possiedano gli stessi neuroni dovrebbe vanificare la condivisione della ciabatta” (5).
Consideriamo la faccenda della ciabatta. Vorrei farlo dal punto di vista di una tradizione di pensiero che da qualche millennio si confronta con i temi della realtà e dell’apparenza, e che Ferraris, da bravo filosofo occidentale (o continentale) non prende in considerazione: quella buddhista.
Cos’è una ciabatta? E’ un oggetto con un suo nome ed una sua forma: nama e rupa. Appartiene indubbiamente al mondo delle cose reali. Noi sappiamo, però, che le cosiddette cose reali non sono la realtà ultima, ma sono a loro volta scomponibili in elementi più piccoli. La ciabatta è fatta di un tessuto che ha una sua trama, sotto la quale ci sono le molecole, e poi gli atomi, fino all’infinitamente piccolo. Tutte queste cose – le molecole, gli atomi eccetera – esistono, sono reali non meno della ciabatta. Se non vediamo questa realtà di atomi, ma la ciabatta, è soltanto perché i nostri occhi sono molto imperfetti. Se avessimo degli occhi perfetti come un microscopio a scansione, non vedremmo più la ciabatta. In altri termini, la ciabatta esiste soltanto a causa della nostra ignoranza (avidya), vale a dire per l’imperfezione dei nostri sensi. Affinché l’esperimento della ciabatta riesca, non occorre soltanto che io abbia degli occhi imperfetti, che mi consentano di vedere la ciabatta, e non la struttura sottostante, ma anche che io abbia il concetto ed il nome di ciabatta, e che sappia associarlo a quella immagine; e lo stesso vale per il mio interlocutore. E questa, con ogni evidenza, è una cosa che si svolge interamente nella nostra testa.
Il fatto che si svolga in due teste contemporaneamente non dimostra che non sia una operazione intellettuale che costruisce il mondo esteriore nel suo aspetto di nome e forma. Il concetto di vacuità è presente nel buddhismo fin dalle origini, ma è nella tradizione Mahayana che ha trovato la sua espressione filosoficamente più matura. Vacuità (ś**ūnyatā) non vuol dire che nulla esiste, ma che nessun ente esiste al di fuori di una fitta rete di relazioni, che lo costituiscono; pensare un ente come se fosse una realtà sostanziale, individuata, vuol dire illudersi. Questa consapevolezza del vuoto è nel buddhismo per eccellenza ciò che emancipa. E’ attraverso la considerazione della vacuità di ogni fenomeno, e della vacuità dello stesso soggetto, che si giunge alla liberazione, al nibbana. Ma non solo. Come afferma Candrakīrti, uno dei più rilevanti pensatori della scuola Mādhyamika (continuatore e commentatore del pensiero del più noto Nāgārjuna)
La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come un serpente male afferrato o una formula magica male applicata. (6)
Ciò che emancipa è anche ciò che manda in rovina; rovesciando il detto di Hölderlin che tanto piaceva ad Heidegger, potremmo dire che dove cresce ciò che salva, aumenta anche il pericolo. Se tutto è vuoto, perché non dovrei uccidere questa persona, che è anch’essa vuota? Dove sarà il male? Se tutto è vuoto, il male non esiste. Ma la realtà assoluta non cancella la realtà relativa, nella quale questa persona esiste e soffre, ed ucciderla è male; posizionarsi nella realtà assoluta e negare così ogni morale vuol dire afferrare male il serpente della vacuità. Le critiche di Ferraris alla negazione postmoderna della oggettività del mondo esterno riguardano, mi sembra, questa possibilità di afferrare male il serpente. E nondimeno è necessario afferrare il serpente.
(1) G. Rensi, Realismo, Unitas, Milano 1925, pp. 6-7.
(2) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 109.
(3) Ivi, p. 25.
(4) Cfr. A. Vigilante, Il pensiero nonviolento, Edizioni del Rosone, Foggia 2004.
(5) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, cit., p. 40.
(6) Candrakīrti, Prasannapadā, 24, 11, trad. it. in La saggezza del Buddha, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2004, p. 675.
La sparizione della ciabatta
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Giuseppe Rensi in un ritratto giovanile |
Vegetarianesimo e demitarianism
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La copertina del rapporto Our Nutrient World |
Chi diventa vegetariano (o vegano) lo fa per une delle tre seguenti ragioni: perché ritiene che la vita non umana abbia valore, e che sfruttare, torturare e distruggere miliardi di vite animali sia un crimine; perché considera la dieta carnea dannosa per la salute; perché pensa che la dieta ricca di proteine animali dei paesi ricchi sia una delle cause della fame diffusa nei paesi poveri. La prima ragione è etica, la seconda salutistica, la terza politica. Nel primo caso si tratta di fare qualcosa per gli animali, nel secondo di fare qualcosa per se stessi, nel terzo di fare qualcosa per l’umanità. Naturalmente, una ragione non esclude l’altra, e si può essere vegetariani al tempo stesso per ragioni etiche, salutistiche e politiche.
People can lower the consumption of animal protein by eating less frequent meat and dairy. In some coun-tries people are being mobilized to have a “meat-free” day.
Another important route is the reduce portion size. A third way is to shift to poultry meat, as this is usually as-sociated with less pollution than pork and beef.
Finally, approaches have been encouraged that foster a middle path between typical meat consumption in the developed world and vegetarian diets. In the “demitar-ian” approach the aim is to consume half the normal local amount of animal products. (1)
a. For many developed countries, individuals eat more animal products than is necessary for a healthy balanced diet, so that, for many people, reducing per capita meat consumption has the potential to give significant health benefits;b. In many developing countries, increased nutrient availability is needed to improve diets, while in other developing countries, per capitaconsumption of animal products is fast increasing to levels which are less healthy and environmentally unsustainable;c. For the reasons outlined above, reducing per capita consumption of animal products in the developed world has the potential to improve nutrient use efficiency, reduce overall production costs and reduce environmental pollution;d. While vegetarianism represents an option for some, this remains an unwanted ambition for many people;e. There is a need to encourage options of medium ambition, making it easier for those who choose to reduce the consumption of animal products. (2)
(1) Global Partnership on Nutrient Management (GPNM), Our nutrient world. The challenge to produce more food and energy with less pollution, Centre for Ecology and Hydrology (CEH), Edinburgh UK 2013, p. 70.
(2) NinE, The Barsac Declaration: Environmental Sustainability and the Demitarian Diet.
Vegetarianesimo e demitarianism
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La copertina del rapporto Our Nutrient World |
Sul buon uso del cellulare in classe
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Socrative |
Sul buon uso del cellulare in classe
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Sfuggire a Dio
E questo è importante anche nella nostra preghiera: dobbiamo imparare ad affidarci di più alla Provvidenza divina, chiedere a Dio la forza di uscire da noi stessi per rinnovargli il nostro “sì”, per ripetergli “sia fatta la tua volontà”, per conformare la nostra volontà alla sua. (1)
(1) Udienza generale del 1 febbraio 2012 (qui).
Sfuggire a Dio
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Benedetto XVI |
Marcello Bernardi e la pornocrazia
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Marcello Bernardi |
Ne La maleducazione sessuale di Marcello Bernardi si trova una analisi esemplare per limpidezza dei rapporti tra sesso e potere. Il sesso, sostiene l’anarchico Bernardi, è ciò che manda in crisi il potere, poiché è per essenza l’esatto contrario di ogni forma di sopraffazione, si sottomissione, di odio, di discriminazione. Da sempre il potere si esercita operando la rimozione del sesso, attraverso il senso di colpa e l’educazione repressiva. Il buon cittadino borghese investe le energie sessuali rimosse nel lavoro e il particolare nel denaro, il vero surrogato del sesso. Nella società borghese l’individuo è chiamato a sublimare le pulsioni sessuali e ad investirli in campi compatibili con l’economia capitalistica e il suo bisogno di produzione continua di beni.
Naturalmente, Berlusconi è solo la più avanzata antropomorfizzazione di una generale tendenza al godimento distruttivo. Oggigiorno il capitale/Super-ego ci dà un ordine preciso: “Godi!”. Non sto dicendo nulla di nuovo, è una situazione ben nota (1).
(1) Wu Ming 1, Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il padre.
(2) M. Bernardi, La maleducazione sessuale, Emme Edizioni, Milan 1977, p. 142.
(3) Ivi, p. 143.
(4) Ivi, p. 145.
(5) La distinzione tra potere e dominio si trova in Danilo Dolci. Potere è l’esercizio delle proprie possibilità vitali, che non contrasta ma si concilia con l’esercizio delle possibilità di altri. Il dominio al contrario è un esercizio delle proprio possibilità che si alimenta della impossibilità di altri: al dominatore è possibile ciò che agli altri non è possibile. Il potere è simmetrico ed orizzontale, il dominio asimmetrico e gerarchico. Per un approfondimento rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012.
Marcello Bernardi e la pornocrazia
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Marcello Bernardi |
Naturalmente, Berlusconi è solo la più avanzata antropomorfizzazione di una generale tendenza al godimento distruttivo. Oggigiorno il capitale/Super-ego ci dà un ordine preciso: "Godi!". Non sto dicendo nulla di nuovo, è una situazione ben nota (1).
Genuflessioni
Il non credente ed erede della cultura protestante piegò senza alcuna difficoltà interiore il ginocchio davanti a Pio XII e baciò l’anello del Pescatore, poiché non era a un uomo e politico che io mi genuflettevo, bensì a un idolo candido, il quale, circondato dal più austero cerimoniale sacro e aulico, impersonava con mitezza un poco sofferente due millenni di storia occidentale.
A questo proposito cito spesso una frase di Oscar Wilde, scrittore inglese nato a Dublino, dal profilo morale un po’ discutibile…
Genuflessioni
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Gianfranco Ravasi |
Fenomenologia dell'intellettuale di destra
Lo scorso dicembre lo Stato italiano ha raggiunto con l’Unione Buddhista Italiana e l’Unione Induista Italiana una intesa che comporta la piena libertà di culto e, tra l’altro, la possibilità di riscuotere l’otto per mille. Si tratta, con ogni evidenza, di un provvedimento per il quale bisognerebbe rallegrarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose o irreligiose, poiché dà sostanza a quel principio di libertà religiosa affermato dall’articolo 19 della nostra Costituzione, senza il quale non può darsi autentica democrazia.
Ma non tutti la pensano così. Commentando la notizia in un articolo sul Giornale intitolato La mutua passa pure Buddha e Visnù, Marcello Veneziani scrive:
Mille cose urgenti e importanti il Parlamento non è riuscito ad approvare. In compenso è riuscito a varare in extremis, e oggi entra in vigore, il riconoscimento di Stato del buddismo e dell’induismo.
Sarà riconosciuto il loro culto, sorgerà una pagoda a Roma, saranno ammesse le loro festività e soprattutto potranno ottenere l’otto per mille.
Ha vinto la laicità dello Stato, esultano; cattolici, fate la fila come gli altri. Però due tradizioni così antiche e maestose che predicano il distacco dal mondo e reputano la realtà un’illusione, che se ne fanno del nullaosta del piccolo e storto Stato italiano? Volete Buddha col sussidio statale e il certificato di Visnù rilasciato dal Comune?
Capisco le religioni più legate alla storia e fiorite in Occidente, come il cristianesimo e l’ebraismo; ma il buddismo e l’induismo sono vie metafisiche, c’entrano con l’eterno, non con l’erario. Dopo la Dc avremo Democrazia Buddista e Rifondazione Bramina?
Buddisti e induisti sono poche migliaia in Italia; tanti lo sono da diporto, ovvero per esotismo o terapia antistress, perché praticano lo yoga, amano i ristoranti cinesi e i buddha bar, fanno massaggi ayurvedici, agopuntura e bevono tisana. Lo Stato firma con loro un’intesa e non invece con gli islamici che in Italia sono tanti, forse troppi, e sono davvero praticanti, anche troppo, e non vaghi appassionati di narghilè e kebab.
Libertà di culto, certo, ma non supermarket delle fedi e religioni passate dalla mutua. Non rovinate Buddha con le buddanate.
Proviamo a rispondere punto per punto a Veneziani.
– Perché mai l’attuazione di un principio costituzionale – attuazione che attende da anni – non dovrebbe essere “urgente e importante”?
– Perché mai i cattolici non dovrebbero “fare la fila come gli altri”? Democrazia è quel sistema in cui tutti hanno diritti, indipendentemente dal fatto di essere maggioranza o minoranza; tutti fanno la stessa fila.
– Tutte le religioni predicano il distacco dal mondo e dal denaro; anche il cristianesimo. Eppure i cattolici chiedono soldi allo stato: ed anche molti soldi.
– Solo un ignorante può dire che il Buddhismo è una via metafisica.
– Quanti sono i cattolici “da diporto”? La stragrande maggioranza dei cattolici sono tali solo per il battesimo, ma in realtà non seguono nessuna religione.
Non occorre essere particolarmente sagaci né preparati per rispondere punto per punto ad un articolo del genere; potrebbe farlo anche un ragazzino. E dunque viene da chiedersi: come mai? Perché Veneziani usa argomenti così scandenti, che è così facile smontare? Veneziani non è, come si potrebbe pensare leggendo quell’articolo, un idiota. E’ uno dei maggiori intellettuali di destra del nostro paese. Perché allora scrive sciocchezze?
La risposta è che scrive sciocchezze proprio perché è un intellettuale di destra. Quell’articolo è un ottimo esempio di articolo di destra: basta aprire un qualsiasi giornale di destra per trovarne decine di altri esempi. Ad accomunarli sono l’uso di argomenti grossolani, il ricorso alla ridicolizzazione, l’imprecisione, una certa sciatteria di fondo. Perché? Per quel certo disprezzo della ragione che è proprio della destra. Perché presentare argomenti seri vuol dire entrare in una discussione: e riconoscere l’interlocutore. Potete immaginarvi l’intellettuale di destra come uno che, in un salotto, se ne sta in un angolo a sorseggiare del whisky e ridacchiando fa battute. Se qualcuno lo prendesse sul serio e rispondesse alle sue battute con argomenti, dimostrerebbe di non aver capito nulla. Ed otterrebbe solo altre battute, altro sarcasmo, altre palesi assurdità.
E’ appena il caso di notare che il diffondersi di questo stile è un pericolo per la democrazia. La democrazia esige la discussione pubblica dei problemi. Compito degli intellettuali – e dei giornalisti – è quello di favorire questa discussione pubblica presentando dati ed argomenti, il più possibile comprensibili e verificabili. Dati ed argomenti che saranno diversi, opposti anche, ma inseriti in una cornice comune, che è quella della ragione, e che comprende alcune semplici regole riguardanti la discussione. L’intellettuale di destra si sottrae a questa cornice comune. Rifiuta la ragione, rifiuta le regole dell’argomentazione. Ha un talento particolare per squalificare la comunicazione, ricorrendo a quelle strategia analizzate da Watzlawick ed altri nella Pragmatica della comunicazione umana: contraddirsi, dire cose palesemente insensate, rispondere in modo vago eccetera. In quello che scrive, l’atteggiamento fa aggio sull’argomento. Non gli importa spiegare perché i buddhisti e gli hinduisti gli sono antipatici e non vuole che abbiano gli stessi diritti dei cattolici. Non deve argomentare sul serio. Importa solo dire l’antipatia – e torna utile la ridicolizzazione. Del resto, diceva Giuseppe Rensi (uno dei primissimi teorici del fascismo), il prevalere di un argomento sull’altro non è legato alla forza della ragione, ma alla forza bruta. Tanto vale rinunciare del tutto ad argomentare.
Fenomenologia dell'intellettuale di destra
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Marcello Veneziani |
Lo scorso dicembre lo Stato italiano ha raggiunto con l'Unione Buddhista Italiana e l'Unione Induista Italiana una intesa che comporta la piena libertà di culto e, tra l'altro, la possibilità di riscuotere l'otto per mille. Si tratta, con ogni evidenza, di un provvedimento per il quale bisognerebbe rallegrarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose o irreligiose, poiché dà sostanza a quel principio di libertà religiosa affermato dall'articolo 19 della nostra Costituzione, senza il quale non può darsi autentica democrazia.
Ma non tutti la pensano così. Commentando la notizia in un articolo sul Giornale intitolato La mutua passa pure Buddha e Visnù, Marcello Veneziani scrive:
Proviamo a rispondere punto per punto a Veneziani.
Mille cose urgenti e importanti il Parlamento non è riuscito ad approvare. In compenso è riuscito a varare in extremis, e oggi entra in vigore, il riconoscimento di Stato del buddismo e dell'induismo.Sarà riconosciuto il loro culto, sorgerà una pagoda a Roma, saranno ammesse le loro festività e soprattutto potranno ottenere l'otto per mille.Ha vinto la laicità dello Stato, esultano; cattolici, fate la fila come gli altri. Però due tradizioni così antiche e maestose che predicano il distacco dal mondo e reputano la realtà un'illusione, che se ne fanno del nullaosta del piccolo e storto Stato italiano? Volete Buddha col sussidio statale e il certificato di Visnù rilasciato dal Comune?Capisco le religioni più legate alla storia e fiorite in Occidente, come il cristianesimo e l'ebraismo; ma il buddismo e l'induismo sono vie metafisiche, c'entrano con l'eterno, non con l'erario. Dopo la Dc avremo Democrazia Buddista e Rifondazione Bramina?Buddisti e induisti sono poche migliaia in Italia; tanti lo sono da diporto, ovvero per esotismo o terapia antistress, perché praticano lo yoga, amano i ristoranti cinesi e i buddha bar, fanno massaggi ayurvedici, agopuntura e bevono tisana. Lo Stato firma con loro un'intesa e non invece con gli islamici che in Italia sono tanti, forse troppi, e sono davvero praticanti, anche troppo, e non vaghi appassionati di narghilè e kebab.Libertà di culto, certo, ma non supermarket delle fedi e religioni passate dalla mutua. Non rovinate Buddha con le buddanate.
Panikkar e Capitini
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Raimon Panikkar |
Per Panikkar, l’essere è quello che è, e non c’è nulla da dire. Non esiste un altro essere, in base al quale criticare questo essere. “Ciò che deve essere è, dunque, subordinato a ciò che è” (1). Questo essere che è come deve essere è qualcosa che trascende le distinzioni ordinarie di bene e male. E tuttavia fonda la pace. Pace è “un benessere (star bene) nell’Essere” (2).
Un Dio unicamente trascendente, un Dio situato solo alla fine della storia, del tempo o dell’universo, è stato, per lo più, il Dio belligerante di molte religioni, nonostante le proteste dei mistici e le sottigliezze dei filosofi. Questo Dio escatologico, che accoglie solo i pochi vincitori che sono giunti alla meta, non è un Dio di pace, ma di guerra. (3)
(2) Ivi, p. 119.
(3) Ivi, p. 139.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 141.
Panikkar e Capitini
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Raimon Panikkar |
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