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Blog di Antonio Vigilante

Una nuova scena di meraviglia e di amore


Nel 1739 il gesuita francese Guillaume-Hyacinthe Bougeant (1690-1743) pubblicò un Amusement philosophique sur le langage des bêtes che, com'è chiaro fin dal titolo, voleva essere null'altro che un divertissement, ma che finì per procurargli guai. Sosteneva, il gesuita, che gli animali non sono le macchine che pensava Cartesio; che con ogni evidenza sono dotati di sensibilità e di ragione, senza che tuttavia sia possibile riconoscere loro il possesso di un'anima, ché l'ortodossia non lo consente. Per salvare - così almeno credeva - l'ortodossia, se ne uscì con una tesi bizzarra: gli animali ospitano i dèmoni che ab origine si sono ribellati a Dio, in attesa dell'ultimo giudizio. Quando un animale muore, il dèmone ospitato in esso passa nel corpo di un'animale della stessa specie o di una specie diversa.
La tesi evidentemente non scandalizzava solo le nobildonne, che si ritrovavano a dover sospettare che il cane che avevano in salotto ospitasse lo spirito di un dèmone, se i suoi superiori lo mandarono a La Fleche a schiarirsi le idee per qualche tempo. Il libro ad ogni modo ebbe successo, e fu tradotto in Germania ed Inghilterra. Qui finisce tra le mani del reverendo John Hildrop (1682–1756), educato ad Oxford e rettore di What, presso Ripon (Yorkshire): il quale, indignato più la superficialità con cui il francese aveva affrontato un tema così delicato, scrive una risposta. Nascono così i Free Thoughts upon the Brute-creation; or, an Examination of Father Bougeant's Philosophical Amusement, che costituiscono uno dei documenti più interessanti della riflessione cristiana sul mondo animale nell'Europa del Settecento.
Hildrop non si limita a negare la tesi di Bougeant. Rivendica la razionalità degli animali ed il possesso da parte loro di un'anima, anche se diversa da quella umana. Gli animali sono decaduti dal loro stato di perfezione originaria per colpa del peccato dell'Adam, che ha compromesso l'armonia dell'intero universo. In origine, l'Adam faceva da ponte tra Dio ed il mondo naturale, era il canale attraverso il quale la vita e la felicità divine passavano negli animali e nelle piante. Con il peccato questo canale di è interrotto, e tanto l'uomo quanto l'animale sono decaduti. Ma Dio promette la salvezza. Come è possibile pensare che l'animale, che è caduto per colpa dell'uomo, non sia ristabilito insieme all'uomo nella perfezione originaria? L'apocatastasi ricondurrà l'intero universo al suo stato d'origine. Ogni essere vivente, dunque, partecipa della salvezza, ed è qui ed ora degno di rispetto, sia perché eterno come l'essere umano, sia perché è incolpevole del suo stato attuale di decadenza.

Traduco da: John Hildrop, Free Thoughts upon the Brute-creation; or, an Examination of Father Bougeant's Philosophical Amusement, R. Minors, Bookfeller and Stationer, London 1742, pp. 75-77.

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Il disordine e la confusione, la vanità e la miseria possono derivare dalla onnipotente Fontana dell'ordine, della verità e dell'amore? Non dobbiamo piuttosto dire che noi siamo in uno stato preternaturale, che i mali che soffriamo sono accidentali, la conseguenza fatale della trasgressione dei nostro primo genitore, spinto dalla tentazione di uno Spirito malvagio a violare tutte le leggi della giustizia, della verità e dell'ordine? E possiamo immaginare che questo stato violento ed innaturale durerà per sempre? Lo stato dell'intera creazione è così deplorevolmente miserabile da non ammettere alcun rimedio, alcuna speranza di salvezza? Gli eterni fini della saggezza infinita, dell'amore, del potere saranno interamente sconfitti dalla malizia degli spiriti malvagi e dalle infermità di fragili creature? Questo non vuol dire attribuire troppo alle creature e derogare dall'infinita saggezza, divinità e potere del Creatore? Questo non significa di fatto affermare che il Creatore, il padre della misericordia, il Dio di ogni compassione, le cui misericordie sono su tutte le sue creature, non vglia o non possa condurre ad effetto gli scopi eterni del suo amore infinito? Che il Diavolo è più potente nel distruggere, che Dio nel creare? E dopo tutto, quale difficoltà c'è nel comprendere, o quale possibile pericolo nell'affermare, che tutta la creazione inferiore, che è decaduta insieme al nostro primo genitore, e soffre per la nostra trasgressione, alla fine verrà ripristinata nella sua primigenia felicità, e passerà dalla presente schiavitù della corruzione alla gloriosa libertà dei figli di Dio? E perché (come San Paolo dice al re Agrippa, Atti XXVI, 8) ritenere incredibile che Dio faccia ciò, soprattutto quando la Ragione e la Natura dichiarano che un tale rinnovamento non è solo possibile ma probabile, e la Rivelazione dichiara che è certo? Quanto alle meravigliose opere del Signore (disse il saggio figlio di Sirach, XVIII, 6), non c'è nulla da togliere da esse, né nulla da aggiungere, né se ne può trovare il fondo. Nulla può essere aggiunto alla loro perfezione originaria, né può riuscire a distruggerle, né può l'intelligenza umana comprendere il loro Fondo essenziale e la loro Radice nel Mondo Archetipico, in cui (nonostante ogni violenza o disordine accidentale nella loro presente forma esteriore) esse sono fisse in modo immutabile nel loro proprio rango ed ordine, nel quale esse saranno al tempo dovuto ristabilire da Dio nello splendore e nella dignità della loro prima creazione.
E questo, Madame, ci apre una nuova scena di meraviglia e di amore, meritevole della più seria attenzione di una mente razionale e religiosa. Ci sarà una universale Restituzione di tutto ciò che è caduto con la trasgressione dell'Adam; tutto ciò che è andato perso nel primo Adam sarà rinnovato nel secondo Adam: ci saranno nuovi cieli e una nuova terra, che saranno la dimora della giustizia. Dio lo ha chiaramente ed abbondantemente promesso per bocca di tutti i suoi santi profeti fin dall'inizio del mondo: Atti III, 19, 20, 21; Isaia LXV, 17, LXVI, 22; 2 Pietro, III, 13; 1 Corinzi, XV, 21, 22; Apocalisse, XXI, 1. E se l'intero mondo materiale sarà ripristinato nella sua primitiva perfezione, se ci sarà un rinnovamento della faccia della terra, Salmi CIV, 30, ci sarà di conseguenza un rinnovamento di tutti i suoi poteri seminali, di tutte le varie produzioni di frutti, fiori, animali, e tutti i diversi abitanti delle diverse parti della natura. Tutta la discordia degli elementi, tutta la malignità delle creature cesseranno interamente. Tutta la Natura si libererà della corruzione, della deformità, dell'oscurità, della confusione del suo presente stato, e sarà ripristinata nella purezza, nello splendore, nella bellezza della sua prima creazione.

[Nell'immagine: particolare dell'antiporta del volume.]

La bestemmia più grave

C'è una bestemmia molto più grave di qualsiasi vignetta di Charlie Hebdo, una bestemmia che colpisce al cuore qualsiasi religione. E' la bestemmia per la quale Gesù Cristo è stato mandato sulla croce dagli ebrei. E' la bestemmia per la quale ad Al-Hallaj i musulmani fecero subire, nell'ordine, i seguenti supplizi: amputazione delle mani e dei piedi, crocefissione, decapitazione. E dopo morto diedero il suo corpo in pasto alle belve. 
La colpa di Cristo e di A-Hallaj, "Cristo dell'Islam", è quella di aver detto: "Io sono Dio." La colpa di aver superato quell'alienazione religiosa che fa credere che Dio sia qualcosa che può essere creduto, o che dev'essere pregato, e non qualcosa che si può essere. Che si deve essere. Che da sempre siamo.
Dalla bestemmia del Cristo i cristiani - la cui stessa esistenza è una bestemmia - si sono difesi facendo del Cristo un altro Dio, un altro Altro da venerare: un'altra via di alienazione religiosa
Quei pochi che hanno capito, sono diventati a loro volta bestemmiatori. Ed hanno subito a loro volta il supplizio - come Margherita Porete - o l'hanno evitato per poco, come Meister Eckhart. Si venera il Cristo crocifisso, evitando di prendere la croce (o prendendola in senso penosamente metaforico: sopportare i dolori, e sciocchezze simili). Su questo equivoco si fondano due millenni di alienazione religiosa occidentale.

Razzismo standard

A proposito di vignette vigliacche. Uno dei tanti fascisti di Facebook pubblica un vecchio manifesto fascista dal contenuto inequivocabilmente razzista: un uomo nero che violenta una donna bianca e la scritta Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia. Segnalo la cosa a Facebook, che mi risponde che il contenuto non è stato rimosso perché hanno riscontrato che rispetta i loro Standard della comunità.
Leggo questi Standard della comunità:
Facebook non consente i contenuti che incitano all'odio, ma attua una distinzione tra contenuti seri e meno seri. Se da un lato incoraggiamo gli utenti a mettere in discussione idee, eventi e linee di condotta, non consentiamo la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia.
Poiché il manifesto è inequivocabilmente razzista ed inequivocabilmente incita all'odio contro i neri, bisogna dedurne che per Facebook si tratta comunque di un contenuto "meno serio".
Intanto a Foggia una giornalista de l'Unità viene processata per aver commentato criticamente su Facebook un manifesto di una scuola per estetiste, che mostrava una bambina bionda, intenta a truccarsi, e la scritta Farò l'estetista. Ho sempre avuto le idee chiare.


Nous sommes Charlie Hebdo?

Lo Spirito Santo, il Figlio ed il Padre presi in una relazione non proprio spirituale. E' una delle vignette di Charlie Hebdo che hanno preso a circolare dopo il massacro di ieri. Suscitando sconcerto in non pochi cattolici che fino a poco prima erano pronti a dire "Je suis Charlie Hebdo", e che si sono ritrovati invece a reclamare la censura e ad affermare i limiti della libertà d'espressione. Perché sì, la satira è importante, e rivendichiamo tutti il libero pensiero come conquista dell'Occidente, ma il Figlio che prende lo Spirito Santo nel didietro...
I soggetti che oggi sono Charlie Hebdo sono abbastanza male assortiti. Ci sono i laici, gli atei, i difensori del libero pensiero: ma ci sono anche gli islamofobi, gli xenofobi, i fascisti alla Salvini. Questo singolare assortimento è una conseguenza dell'ambiguità stessa della satira, che può essere due cose diverse; o meglio: avere due valenze politiche. A fare la differenza è il tipo di gruppo sociale contro cui si scaglia. La satira ha una funzione progressiva, positiva, liberatrice quando si scaglia contro gruppi potenti, dominanti, in grado di imporre la propria volontà anche con la forza, anzi con la violenza. Una satira del genere è sempre giustificata, anche quando è blasfema, anche quando ridicolizza i valori più sacri. Diversa è la satira che si dirige contro gruppi minoritari, deboli, socialmente discriminati. Formalmente sempre di satira si tratta; ma in questo caso è satira vigliacca. E' una satira che ha una lunga tradizione, dalle vignette del fascismo e del nazismo fino a quelle della Lega Nord.
Ora, nel caso delle vignette contro il cattolicesimo la questione è semplice. I cattolici rappresentano un gruppo potente, che in un paese come il nostro ha anche gestito direttamente il potere, attraverso il suo partito di riferimento: e lo ha fatto nel modo che sappiamo, ossia usando come mezzi di governo la corruzione, le stragi, la collusione con la mafia. Ogni satira contro il cattolicesimo è un atto di libero pensiero. Più complessa è la faccenda per quanto riguarda l'Islam. Perché i musulmani sono, al tempo stesso, un gruppo debole ed un gruppo forte. In Italia ed altrove, i musulmani rappresentano una minoranza cui spesso si negano diritti elementari, come quello di avere un luogo in cui pregare; una minoranza guardata con sospetto, spesso calunniata, culturalmente e socialmente marginalizzata. Ma l'Islam è anche quello dei terroristi che, come è accaduto ieri, vendicano con il sangue le offese alla loro religione. Terroristi che naturalmente non rappresentano l'Islam, e che tuttavia uccidono chi ha offeso l'Islam. E' per questo che le vignette contro l'Islam sono al tempo stesso un atto di coraggio e di vigliaccheria, una manifestazione al tempo stesso di libero pensiero e di xenofobia. Il fatto che i vignettisti di Charlie Hebdo siano stati massacrati, e che dunque appaiano come martiri del libero pensiero occidentale contro il fondamentalismo islamico, avrà l'effetto di attenuare quell'ambiguità, proprio mentre, per effetto di quello stesso massacro, i musulmani europei si troveranno ad essere ancora più fragili e marginalizzati.

Aggiornamento: Ma essere Charlie Hebdo non vuol dire anche essere Naji al-Ali? A quanto pare no.

Virtualizzare l'esperienza

In un post di qualche mese fa, Roberto Cotroneo denunciava il crollo della qualità fotografica dovuto all'uso delle fotocamere dei cellulari, sia per i limiti intrinseci dello strumento, sia per il ricorso massiccio alle modifiche a posteriori, che per lo più producono foto pacchiane. Il post ha suscitato, com'era prevedibile, un mare di polemiche e di obiezioni, sintetizzabili in uno dei primi commenti: "La 'bella foto' è nella sensibilità di chi scatta". Cosa incontestabile. Si possono fare belle, bellissime foto con una fotocamera giocattolo, come la Lomo, o con la fotocamera di un iPhone. Il problema però è proprio "la sensibilità di chi scatta". 
Da qualche mese ho la fortuna di vivere in una città bellissima, meta di turisti provenienti da tutto il mondo. Da qualche mese li osservo, i turisti. Ci sono quelli che arrivano in fila indiana, seguendo la guida con l'ombrello alzato, ed hanno l'aria un po' stanca ed un po' smarrita: come se quello fosse un lavoro, l'adempimento di un compito, più che un piacere. Ci sono quelli che invece arrivano a gruppi di due, di tre, di quattro. Più liberi, più interessati, più rilassati. Tutti hanno in comune però una cosa: scattano fotografie. Scattano fotografie a più non posso. Cosa assolutamente normale, si dirà. Chiunque in vacanza scatta fotografie: ed era così anche quando c'erano le fotocamere analogiche, e bisognava comprare la pellicola e poi pagare lo sviluppo e la stampa (e buona parte delle foto erano da buttare). Ma c'è ora, mi sembra, qualcosa di diverso. Un tempo prima si guardava, poi si fotografava. Oggi mi pare che le cose si siano invertite: prima si fotografa, poi si guarda. Anzi, l'impressione è che, dopo aver fotografato, non si guardi nemmeno. Che si preferisca guardare il duomo di Siena o piazza del Campo non direttamente, ma attraverso lo schermo del proprio cellulare; come se questo sguardo altro, questo sguardo tecnologico e virtuale, avesse un valore maggiore. L'occhio cattura la scena e la manda alla propria memoria personale. L'occhio della fotocamera del cellulare cattura la scena e la manda a Facebook: ossia alla nostra nuova memoria collettiva. Si verificano così due cose. La prima è che la nostra esperienza viene virtualizzata. Una volta c'era l'esperienza di piazza del Campo, oggi c'è l'{esperienza di piazza del Campo}. La seconda è che questa esperienza virtualizzata è immediatamente una esperienza sociale. Naturalmente anche le vecchie fotografie analogiche venivano socializzate: l'album fotografico veniva mostrato ad amici e parenti. E tuttavia restava una cosa soprattutto personale, così come personali erano i ricordi. Ora invece quello che ho {visto} dev'essere immediatamente visto anche da altri, diventare parte di un patrimonio comune di cose {viste}. Quel che perde in intensità, l'esperienza - l'{esperienza} - lo conquista in orizzontalità. E' come se il soggetto, al contatto con una qualsiasi realtà, se ne ritrasse quasi, e la toccasse attraverso il filtro dello schermo; e immediatamente deponesse poi il peso di questa {realtà} colta attraverso lo schermo, depositandola nell'{esperienza} collettiva. Per avviare lì un discorso sul mondo che è evidentemente più sostenibile dell'esperienza del mondo.

3 gennaio, sabato

Nell'autobus. Due ragazzine sui vent'anni, sedute di fronte ad una vecchia. Una delle due le rivolge la parola: "Signora, che bella quella sciarpa". La signora ha una sciarpa orribile con tutti i colori dell'arcobaleno. "Ah, grazie". "Dove l'ha comprata?". "Al mercato del mercoledì". E cominciano la conversazione. Che strano, penso: una ragazzina parla con una vecchia. Perché? Ipotizzo: magari vuol fare pratica dell'italiano (ha un marcato accento inglese). Poi mi correggo: ma certo, sarà dei mormoni, sta cercando nuovi adepti. Ma no - dice una parte di me o un altro io in me o un ha-shatan interiore - sei troppo cinico e vedi il male ovunque. Metto a tacere il foro interiore, che comincia ad essere affollato, concentrandomi su due ragazze ed una bambina che parlano albanese. Cerco di capire cosa si dicono, ma la mia conoscenza dell'albanese non è granché. Riconosco solo il bukur che la bambina ripete più volte. Bukur: bello. Guardo un po' fuori dal finestrino la campagna senese. Già, bello. Bukur, shumë bukur. Finché, per quel singolare meccanismo che ci porta a fare attenzione alle cose per noi significative anche quando stiamo pensando ad altro, colgo l'espressione "chiesa mormone". La ragazza ha scoperto le carte, e sta spiegando alla vecchina che la loro chiesa si trova in un certo posto, dopo averle lasciato degli opuscoli.
Giunge la loro fermata. Le due ragazze (solo ora vedo che hanno sul petto un tesserino della chiesa) mandano baci alla vecchina ed escono in fretta, con l'espressione di chi ha appena compiuto una rapina. La vecchia, fino ad un attimo prima sorridente, ha ora il viso stanco. Sembra affranta, per un attimo ho l'impressione che stia per avere un attacco di panico. Si toglie il cappello di lana, respira. Tutto torna normale. Normale.
Normale: che qualcuno rivolga la parola ad un estraneo solo per usarlo; questo, nella nostra società, è normale. Rivolgere la parola ad un estraneo solo per parlare con lui, senza alcun altro fine, penso, sarebbe una cosa davvero rivoluzionaria. Chiedere della sciarpa, e dei figli, e di tutto quanto il resto, solo per conoscere, per stringere legami, per gettare ponti oltre le mura del nostro io. Ma, ecco, se lo facessimo, pure useremmo l'altro: ci servirebbe per fare la rivoluzione. E il mondo torna a sembrarmi un groviglio, mentre salto giù dall'autobus e mi avvio verso casa.

Ancora, ancora, ancora

Nulla è più irreligioso del desiderio di immortalità personale.
Prendiamo il signor X. Ha superato da poco i quarant'anni, ed il corpo glielo ricorda in ogni istante. Per gran parte della giornata è concentrato sui dolori: il mal di schiena, il dolore allo stomaco, il mal di testa, la pressione che non va. Eccetera. La sua giornata è scandita dall'assunzione delle medicine. La pillola del mattino, le gocce di prima di pranzo, e così via. Ed ecco la signora Y. Un tempo era bella, molto bella. Non lo è più da molto tempo. Gli anni l'hanno sformata, ingrossata, spenta. Ma lei non lo sa: si sforza di non saperlo. Continua a credersi una bella donna, appena un po' invecchiata. A volte però la sorprende uno specchio meno pietoso degli altri. Si osserva con stupore, come se quella che si trova davanti fosse un'altra persona. Distoglie lo sguardo, poi torna a fissarlo sullo specchio, come ipnotizzata. Poi piange. Il signor Z non ha di questi cedimenti. Se lo specchio gli rimanda un'immagine poco piacevole, vuol dire che è ora di tornare dal chirurgo estetico. Il suo corpo non è un dato, ma un progetto. Come tutta la sua vita. E' un uomo teso verso il successo, l'affermazione personale, il denaro.
Il signor X, la signora Y, il signor Z pensano ogni tanto alla morte. Ne sono spaventati, atterriti. Ognuno di loro spera che la morte sia solo un inciampo temporaneo; ognuno di loro crede nella vita eterna, anche se ognuno di loro, per questa cosa straordinariamente importante, sacrifica una porzione irrilevante del proprio tempo.
Gli acciacchi del signor X, la tristezza della signora Y, l'arrivismo del signor Z meritano l'immortalità? Quale Dio è abbastanza compassionevole da rendere eterne queste miserie? Non è ridicolo, oltre che irreligioso, anche solo pensare di meritare l'immortalità (perché, naturalmente, de te fabula narratur).
Ma non è tutto qui. Il signor Y va al lavoro alle sette del mattino. Per giungere alla fermata dell'autobus attraversa una strada che sale lungo una collina, affiancata da altissimi pini. E' l'ora dell'alba. E lui si ferma un attimo a guardare il sole che colora il mondo. E il mondo gli sembra bellissimo, e per un attimo non ha alcun dolore. La signora Y ha una figlia di otto anni. Ha degli occhi neri straordinariamente intensi ed un sorriso dolcissimo. Il signor Z una volta era in treno, annoiato, e leggeva il giornale. Ad una fermata è venuta a sedersi di fronte a lui una ragazza sui vent'anni. Z le ha lanciato uno sguardo distratto, poi un secondo sguardo più attento. E infine si è ritrovato a guardare davvero. Smarrito, si è accorto che quella ragazza era qualcosa che non avrebbe potuto comprare; che quella presenza era fuori dal suo mondo, era la porta di accesso ad un altro mondo. Fuori la campagna correva, innevata. E il sole splendeva sulla neve.
La morte non è solo la nostra fine - la fine della nostra misera persona. La morte è, per noi, la fine del mondo. Quando moriamo, si spegne per noi l'alba sulle colline, il sorriso di un bambino, la sorpresa di una presenza. La morte di ogni essere umano è la morte del mondo intero. C'è un desiderio di immortalità più puro, che consiste in questo: desiderare che sia eterno il mondo; desiderare di essere - ancora, ancora, ancora - uno sguardo sul mondo. E' un desiderio che non sa che farsene della promessa religiosa di un paradiso. Non desidero alcuna ricompensa per i miei presunti, improbabili meriti. Non voglio uno scialbo giardino nel quale cantare le lodi al Signore. Voglio questo mondo. Voglio in eterno - ancora, ancora, ancora - osservare quest'alba, e questo sorriso, e questa presenza. L'eterno ritorno nietzscheano è l'unica concezione religiosa (perché di religione si tratta) adeguata a questo desiderio più puro, l'unica che scaturisca non dal dire di sì a sé stessi, ma dal dire di sì al mondo.

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