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Blog di Antonio Vigilante

Georges Etiévant, Dichiarazioni

Etiévant in una stampa popolare

Un vero duro, Georges Etiévant. Il 16 gennaio del 1898 aggredisce con ventidue coltellate un poliziotto, altre sedici le riserva ad un collega che corre a soccorrerlo. Lo portano al posto di polizia, ma si dimenticano di perquisirlo: c’è ancora tempo per un colpo di pistola al secondo agente. Ha trentatré anni. Lo condannano a morte, con pena commutata nei lavori forzati a vita. Gli è andata bene. O male, dipende dai punti di vista. Morirà non troppo tempo dopo.
Un vero filosofo, Georges Etiévant. Qualche anno prima, nel 1892, aveva rubato della dinamite che serviva al più famoso Ravachol. Al tribunale che lo processa presenta una dichiarazione difensiva che è, in realtà, una durissima accusa. Questo giovane tipografo la sa lunga: contesta il diritto stesso di giudicare. Il diritto, si sa, ha una sua rozzezza; per funzionare ha bisogno di categorie che all’occhio del filosofo appaiono fragili, evanescenti. Perché un contratto sia valido, occorre che vi siano dei soggetti, e che questi soggetti restino uguali a sé stessi nel tempo. Perché mai, altrimenti, dovrebbe obbligarmi un contratto, se a firmarlo è stato uno che non sono io – e cioè: un io che non è il mio io attuale? Il diritto ha bisogno del soggetto; ma la filosofia sa che il soggetto è finzione. Il diritto ha bisogno, per giudicare, della responsabilità e della libertà. Anch’esse finzioni. L’imputato Etiévant ha le sue ragioni: quel che facciamo non è che il risultato di ciò che abbiamo percepito e delle reazioni che queste percezioni hanno suscitato in noi. Ho ucciso. Perché? E’ sorto in me un odio, che ha le sue cause. Certo, avrei potuto resistere a quell’odio. L’avrei fatto senz’altro, se avessi avuto in me una forza capace di resistere; se non l’ho fatto, evidentemente quella forza non l’avevo: e di ciò che non ho, non posso essere responsabile. Ecco dunque l’assurdo di ogni tribunale. Per giudicare un uomo, accusa Etiévant, bisognerebbe conoscere alla perfezione le percezioni che hanno agito su di lui e le reazioni che esse hanno suscitato; bisognerebbe, in altri termini, essere quell’uomo. Nessuno può giudicare un altro. Aggiungerei che nemmeno noi stessi siamo in grado di giudicarci, perché il nostro essere ci accade come, fuori di noi, accade la pioggia o il vento.

Le false domande del burocrate ministeriale

Da qualche anno nella mia pratica di insegnamento (ossia: nella mia pratica didattica ed educativa) faccio uso della maieutica reciproca di Danilo Dolci. In concreto, vuol dire che appena possibile metto le sedie in cerchio e pongo ai miei studenti un tema di cui discutere (spesso lo propongono loro). Le regole semplici della maieutica reciproca vogliono che il conduttore del seminario favorisca la discussione senza assolutamente imporre il proprio punto di vista, o orientarla in una direzione a lui gradita. E' questa, mi pare, la più grande difficoltà della maieutica reciproca a scuola. Essa richiede una ridefinizione del ruolo del docente. Abituato da sempre a far lezione, deve ora ridursi, farsi da parte: far parlare gli studenti. Non moralizzare, non giudicare. Se sente cose mal argomentate, può invitare ad argomentare meglio; se sente elogiare la mafia, può invitare a spiegare meglio perché la mafia è una cosa buona: ma senza emettere giudizi o condanne.
Alla maieutica reciproca corrisponde una particolare concezione della scuola e dell'educazione. Per la prima, mi piace l'espressione scuola conviviale, pensando sia al Convivio platonico che ad Illich. Quanto alla seconda, confesso che abolirei il termine stesso, sostituendolo con la parola sinagogia, che vuol dire educarsi insieme. Ritengo, infatti, che si abbia il diritto di educare qualcuno ad una sola condizione: quella di lasciarsi al contempo educare. L'educazione non è un'azione che un soggetto compie su un oggetto, ma un movimento comune di due o più soggetti.

L'inferno e l'ossessione della violenza


André Gonçales, L'Inferno
Una delle domande più tormentose della filosofia - che è la disciplina che si occupa delle domande tormentose: e che è, per questo, una disciplina in via di estinzione - può essere così formulata: ammesso che si riesca a capire, per qualche via, cos'è il bene, ed a distinguerlo nettamente dal male, per quale ragione dovremmo fare il bene e non fare il male? Perché, insomma, dovremmo essere buoni?
Un primo modo per rispondere a questa domanda consiste nel dire che chi fa il bene è felice, mentre chi fa il male si condanna all'infelicità. E' quello che sostiene Socrate nel Gorgia platonico: "Io dico che chi è onesto e buono, uomo o donna che sia, è felice, e che l'ingiusto è malvagio e infelice" (470E; trad. G. Reale). Una tesi che contesta con veemenza il sofista Callicle, per il quale bene è "lasciar crescere i propri desideri il più possibile" (491E) e "togliersi il gusto di tutto ciò di cui continuamente gli possa venir voglia" (492A), fare quello che si vuole senza curarsi del bene e del male.

Materialismo mistico

Se dovessi sintetizzare con un'espressione la visione cui sono giunto, nessuna mi sembrerebbe più efficace di questa (pur con i limiti di tutte le definizioni): materialismo mistico. Materialismo, perché non credo in nessuna essenza o sostanza spirituale. Non credo in Dio, non credo nell'anima, non credo negli angeli e nei demoni. Credo che la cosiddetta materia sia tutto quel che c'è, e che il pensiero non sia che un suo epifenomeno, ed in nessun modo una sostanza separata ed autosufficiente. Non credo nella vita dopo la morte, nel paradiso e nell'inferno; non credo nemmeno nel karma e nella rinascita.
D'altra parte, sono ben lontano dal considerare la materia al modo del senso comune: come la solidità delle cose, la pesanteur - il corpo, anzi i corpi. A voler essere paradossali, si potrebbe dire che la materia non è nulla di materiale, senza per questo diventare qualcosa di spirituale. La base materiale delle cose è sostanziata di vuoto. Vuoto è gran parte dell'atomo, vale a dire la struttura di tutto quello che esiste. Ogni cosa che vediamo è tessuta di vuoto. Ogni scena che vediamo non è che una interpretazione dovuta alla opacità dei nostri organi di senso. Vedo questa scrivania, questo muro, questa finestra, l'albero sul balcone e le rondini che volano nel cielo di giugno perché non sono in grado di percepire l'autentica struttura delle cose, vale a dire gli atomi. Se potessi farlo, nulla più di tutto questo esisterebbe. Scomparirebbe il mondo, ma scomparirebbe anche l'io. Perché l'io non è che il correlato del mondo. L'io esiste come soggetto che percepisce il mondo; la materialità delle cose, comunemente intesa come solidità e forma, è la membrana esteriore che lo sorregge e gli permette di esistere. 
Ecco dunque la base più solida del misticismo. Non Dio, non una qualsiasi entità spirituale trascendente, ma la stessa base delle cose, la natura vuota della materia. Considerare l'essere vuoto delle cose suscita un grande terrore. L'io si ritrae con spavento. Oltre questo spavento, c'è la liberazione.