At

Blog di Antonio Vigilante

Liberatore V.

Il vento di marzo porgeva al fiuto dei signori il profumo dei tempi nuovi e sibilava sulla schiena curva dei cafoni con una carezza gelida, presagio di sventura, di un volgere ancora più triste di quella faccenda affannosa e senza grazia che era ed è lo stare sulla terra, lo stare nella storia. Aggrappati al monte con la tenacia e l’energia degli organismi primitivi, chiusi nel carcere delle quattro vie d’un borgo che si palesava cacato dal nulla - più delle altre vie e città e volti, voglio dire -, i cafoni assistevano da sempre al naturale svolgersi degli eventi con la pazienza e l’indifferenza degli animali da cortile; epperò qualcosa quell’anno stava cambiando, e te ne accorgevi da una parola in più nel parlare essenziale delle donne, da una nota più lunga, più ansiosa quando chiamavano i bambini, da un innaturale affrettarsi all’uscita dalla chiesa. I ritmi avevano subito qualche cambiamento appena percettibile, l’usata trama del vivere mostrava qualche tema nuovo, e qua e là compariva un lieve strappo, un tratto liso, mentre i signori, chiusi nelle giamberghe, sembrano risplendere più che mai nella natura loro - che era, indefettibilmente, di due generi: austeri, impassibili e lontani alcuni come statue, grassi, rosei e gioviali come porcelli gli altri. I primi ai cafoni mettevano una paura fottuta, roba da scappar via alla fontana, da abbassare lo sguardo come vergini, da farsi muti come pesci. Gli altri stavano tra i cafoni come cani da guardia tra le pecore al pascolo, di tutto lieti, allegri come lo stare al mondo fosse una festa, fraternamente ironici coi cafoni, delle cui mogli sorelle e figlie non disdegnavano di apprezzare le cosce e le zinne. D’un genere suo, anzi privo di qualsivoglia genere, unico nel suo esser-così, era Liberatore.