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Blog di Antonio Vigilante

In margine a un concerto

Qualche giorno fa ho provato un brivido sentendo le note e i ritmi a me ben noti di una tarantella garganica in un ambiente inusuale, un teatro di Siena, e in un contesto non meno inusuale: prima di quelle note, di quei ritmi, avevo ascoltato musica nordafricana, mediorientale, balcanica, yiddish, spagnola, francese. Ho avuto la netta sensazione che fosse quello il contesto più vero: che quella musica fosse parte integrante di quel discorso. Si trattava di un concerto di Ginevra Di Marco accompagnata dalla Orchestra Multietnica di Arezzo, che da più di dieci anni porta avanti una ricerca musicale che fa dialogare la musica popolare europea con quella del Mediterraneo e araba.
Ho letto molto, ultimamente, di Dariush Shayegan, un filosofo iraniano scomparso lo scorso anno che per tutta la vita si è occupato del dialogo tra il mondo musulmano e quello occidentale. La sua tesi è che le società tradizionali, e quella islamica soprattutto, si trovano in una condizione paradossale, che chiamava entre deux: non possono più vivere nel loro tradizionale mondo culturale, ma non riescono ancora a vivere nel mondo occidentalizzato. Sono bloccati tra il non più e il non ancora, e questa situazione di impasse genera l'ideologizzazione dell'islam (che ha dato origine alla rivoluzione iraniana) e il terrorismo.

Il vangelo leghista

Le parole del cattolicissimo ministro della famiglia Lorenzo Fontana sul mirabile accordo tra razzismo istituzionale leghista e cattolicesimo - "Ci accusano anche da ambienti cattolici, ma la nostra azione politica sull’immigrazione si ispira al catechismo. ‘Ama il prossimo tuo’ ovvero in tua prossimità e per questo dobbiamo occuparci prima dei nostri poveri" - possono indignare solo chi crede che il cristianesimo e il cattolicesimo posino su principi sani, santi e giusti. Chi, come chi scrive, è convinto del contrario, si scopre con qualche ribrezzo d'accordo con il ministro (che, sia chiaro, sul piano dell'esegesi neotestamentaria ha l'autorevolezza di una marmotta). In effetti il Vangelo dice più o meno questo. Interrogato da uno scriba sul "primo di tutti i comandamenti", Gesù risponde che è amare il Signore con tutto il cuore; "il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Marco, 12, 31). Si tratta di una citazione da Levitico, 19, 18:
וְאָהַבְתָּ לְרֵעֲךָ כָּמוֹךָ
...e ama il tuo prossimo come te stesso.
La parola ebraica tradotta con "prossimo" è רֵיעַ, che indica una persona con cui si abbia familiarità: può indicare un amico, un fratello, un vicino. Il comandamento dunque non ha a che fare con un amore universale, qualcosa di simile alla metta buddhista, ma riguarda una sfera molto più limitata. Fontana ha ragione fin qui. Ha torto nel far corrispondere la figura del prossimo con quella del connazionale. Se prossimo è chi mi è vicino, anche fisicamente, allora può esserlo anche il mio vicino di casa straniero, o lo straniero che abita nel mio stesso quartiere, o gestisce il negozio sotto casa. Si può dire che l'etica del Vangelo (e del Levitico) più che un'etica dell'amore dell'Altro (la maiuscola va di gran moda) sia un'etica di buon vicinato. Non è una critica: c'è un gran bisogno di rapporti di buon vicinato.

La libertà di culto non vale per i satanisti?


Qualche giorno fa, a margine della risibile polemicuccia italiota riguardo le presunte invocazioni a Satana al festival di Sanremo, con immancabile presa di posizione del ministro dell'Interno, mi son chiesto sul mio profilo Facebook: "Ma esattamente perché le sette sataniche dovrebbero essere un problema? Non è grave che un ministro attacchi pubblicamente gli appartenenti ad una credenza religiosa? Che sarebbe successo se avesse detto che i protestanti, gli ebrei o i neocatecumenali sono un problema da combattere? Perché in questo paese non è possibile essere satanisti?".
Il mio post ha inquietato assai alcuni bravi senesi, che improvvisandosi piccoli inquisitori di provincia hanno gridato allo scandalo per le mie parole di gravità inaudita, incompatibili con il mio ruolo di docente nel liceo cittadino. Quelle parole, dicono, dimostrano che il sottoscritto non può avere "le qualità morali richieste per un ruolo delicato come il suo quale quello di formare le giovani menti". Per questi Torquemada in sedicesimo io avrei violato l'articolo 415 del Codice Penale: "Altrimenti, quando un domani troveremo tombe sfregiate, cadaveri vilipesi, animali trucidati per le strade, non vi lamentate".
Non è naturalmente il caso di difendersi da questa accuse deliranti. Ci sarebbe da scrivere qualcosa su un certo ambiente provinciale che si scandalizza ogni tre per due, per il quale tutto ciò che esce dalla sacra triade Dio-Patria-Famiglia è eresia e fa sudare le mani e tremare le gambe, ma magari un'altra volta. Voglio scrivere due o tre cose sulla faccenda del satanismo e della libertà religiosa, che davvero mi sta a cuore.
Dunque: non hanno i satanisti diritto di seguire le loro credenze? Non è il satanismo un credo come un altro? La libertà di culto deve trovare un limite preciso nel solo satanismo?

La scuola e il vuoto

Le parole del ministro Bussetti sulle scuole del sud - "Vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Lavoro, impegno, sacrificio" - sono una bestialità ed offendono lo straordinario lavoro quotidiano di migliaia di docenti meridionali. Bisogna dire però che la domanda del giornalista cui rispondevano è non meno bestiale: "Cosa arriverà di più qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord? Più fondi?". Un giornalista che peraltro non aveva ascoltato, a quanto pare, quello che Bussetti aveva detto solo qualche secondo prima, e cioè che non esistono scuole del nord e scuole del sud, ma solo scuole italiane. Con buone ragioni. Ho insegnato per più di dieci anni in scuole del sud, dalle medie ai professionali e ai licei, e da qualche anno insegno in Toscana. Dove ho trovato scuole che hanno problemi gravissimi e che si trovano a fronteggiare problemi di forte disagio sociale senza avere i fondi necessari per acquistare anche quel minimo di strumentazione informatica richiesta dalla svolta digitale della scuola italiana.
Ma quella domanda rappresenta una bestialità soprattutto perché riduce i complessi problemi della scuola ad una semplice questione di fondi. Che la scuola abbia bisogno di investimenti è ovvio. Investimenti sulle strutture, che cadono a pezzi; investimenti sulla valorizzazione dei docenti, che sono malpagati e sempre meno socialmente apprezzati; investimenti nella sperimentazione educativa e didattica. Ma è ingenuo e superficiale ritenere che basti dare più soldi alle scuole per superare i numerosi gap del nostro paese, e non solo del sud.

Sentire l'universo

"Sentire l'universo attraverso ogni sensazione. Che importa allora che ciò sia piacere o dolore? Se si ha la mano stretta da un essere amato, rivisto dopo lungo tempo, che importa se stringe forte e fa male?"

Simone Weil, Quaderni, vol. I, Adelphi, p. 229.

Una città che non sa sognare i propri figli

"Ciascuno cresce solo se sognato". E' il bellissimo verso conclusivo di una poesia di Danilo Dolci, che compendia con straordinaria efficacia tutto il suo impegno educativo e sociale. E che vale, da solo, più di qualche tomo di pedagogia, una disciplina che oscilla tra un vacuo moralismo e una non meno vacua ricerca del nuovo. Vuol dire, quel verso, che non puoi educare nessuno se non hai la capacità di interpretare le sue possibilità; se non sai vedere nel ragazzino rozzo e violento di oggi la persona onesta, buona, pacifica che potrà essere domani. Diseducare è invece prendere il dato attuale e considerarlo definitivo.
La figura di Dolci sta uscendo da qualche anno dall'oblio nel quale era precipitata dopo la sua morte, nel 1997, e quel verso è oggi perfino un po' abusato. Ma non è un male. Basterebbe, da solo, ad avviare una discussione pubblica sull'educazione. Non è forse vero che educare significa sognare quello che saranno i nostri figli? E siamo davvero capaci di farlo? Sappiamo sognare le nuove generazioni?

Dopo Dio, dopo Auschwitz

Sull'Attacco di venerdì Michele Illiceto ha ricordato le inquietudini della teologia e della filosofia dopo Auschwitz. Il dilemma, per chi crede, è: o Dio avrebbe potuto salvare gli ebrei, ma non ha voluto farlo, o avrebbe voluto farlo, ma non ha potuto. Dio, dunque, è buono ma impotente oppure potente ma non buono. Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il melangolo) non ha dubbi: un credente non può assolutamente rinunciare a pensare che Dio sia buono. E se non ha aiutato, dunque, è perché non poteva: perché era debole. "Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza", scrive Jonas, che sa bene di allontanarsi da una tradizione ben consolidata che enfatizza la forza e l'efficacia dell'intervento divino. L'alternativa è, per lui, rifugiarsi nell'incomprensibilità e nel mistero.
Mi sembra interessante provare a percorrere l'altro sentiero, che Jonas scarta subito: che Dio sia potente, ma non buono. Se si legge il libro di Giobbe, quello che emerge è proprio il profilo di un Dio che, più che non buono, è al di là sia del bene che del male, un Dio la cui potenza non è limitata da nessuna concezione etica, da alcun obbligo morale. Proviamo a pensare che Dio non sia buono né cattivo. Il che significa che è indifferente alla vicenda umana, poiché definiamo buono o cattivo solo ciò che è in relazione con noi. Pensiamo, come faceva Epicuro, che Dio, se pure c'è, sia indifferente all'essere umano.
Non è difficile intuire che questo sentiero conduce oltre il cristianesimo, poiché essere cristiano significa credere che Dio ha sacrificato sé stesso per la salvezza dell'uomo. Ma non è un sentiero che conduce oltre la religione. Non tutte le religioni ritengono che Dio sia buono o che sia un essere personale (per dirla tutta, non tutte le religioni credono in Dio). Il Taoismo, ad esempio, caratterizza il Tao in un modo che non ha nulla a che fare con un Dio personale e buono, così come non ha nulla di personale o di etico il Brahman dello hinduismo. Se Dio è qualcosa di trascendente, possiamo considerare Dio l'universo, con la sua inconcepibile vastità, con i suoi infiniti misteri, con le sue leggi che sfidano la logica e il senso comune. Ma un tale universo è freddo e distante. Che farci?

Un contesto di degrado

Un bambino massacrato di botte dal compagno della madre per aver rotto, giocando, la testiera del letto. Il brutale assassinio di Cardito suscita rabbia, indignazione, incredulità. La difesa dei bambini non è nemmeno un principio di civiltà: è qualcosa di più arcaico, iscritto nella nostra stessa natura di mammiferi, la protezione a tutti i costi dei cuccioli che accomuna noi, scimmie dotate di ragione e di cultura, con i cani, i gatti, i maiali. Ma noi siamo, appunto, esseri culturali, ed in nome della cultura spesso siamo più violenti degli animali. E' quello che accade con i bambini. Nel paese che s'indigna per la tragedia di Cardito la violenza sui bambini è ampiamente praticata, e perfino teorizzata. E' il paese in cui un ministro dell'Interno può twittare senza suscitare alcuno sconcerto: "Educazione civica in classe, e se non basta anche due ceffoni a casa da mamma e papà". Una frase che avrebbe comportato le immediate dimissioni in paesi come la Svezia nei quali per uno schiaffo a un bambino si finisce in galera, e che invece nel nostro paese suscita approvazione.
Non c'è nessun'altra categoria sociale nei cui confronti sia consentito lo schiaffo. Se un giudice, prima di emettere sentenza, schiaffeggiasse un pluriomicida, la cosa sarebbe considerata una grave violazione dei suoi diritti. Al bambino basta molto meno per essere umiliato: perché il danno maggiore, nello schiaffo, non è il dolore fisico, ma l'umiliazione. Il senso di impotenza, l'essere in balia dell'arbitrio altrui. La negazione del diritto al rispetto, che è riconosciuto a chiunque, ma non al bambino. Un bambino schiaffeggiato impara molte cose. Impara che la violenza è una cosa accettabile, che picchiare qualcuno può essere un buon modo di affrontare i problemi relazionali. Impara che il più forte ha ragione. Impara che il dialogo, la ragione non servono. E no, non impara a star buono: perché la rabbia repressa viene sfogata appena fuori casa, su persone o cose, con atti che verranno riportati ai genitori, causando nuova violenza, e dunque nuova rabbia, in un circolo vizioso terribile.