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Blog di Antonio Vigilante

Victory

Qualche mese fa quelli di una famosa agenda mi hanno chiesto di scrivere un articolo su Foggia – la città in cui sono nato e da cui sono andato via da qualche anno – per la loro rivista. Volevano una sorta di guida, ma viva: ed appassionata. Restammo d’accordo che ci saremmo risentiti, ma come spesso accade non ci siamo risentiti. Ed è un peccato, perché mi sarebbe piaciuto scriverlo, quell’articolo. Soprattutto in questi giorni prenatalizi. Mi sarebbe piaciuto, davvero, parlare del meraviglioso albero, pieni di luci, messo davanti alla villa comunale, per comunicare la gioia del Natale e fare comunità. Avrei detto della pista di pattinaggio, una bella novità di quest’anno, che lascia perplesso qualcuno: non è che con l’insolito caldo di questo dicembre il ghiaccio finirà per sciogliersi? Avrei detto del nuovo meraviglioso mega-centro commerciale, che ha avuto un leggero inciampo – autorizzazioni che mancano, cose così: robetta burocratica – ma che riaprirà senza alcun dubbio, e porterà lavoro a centinaia di foggiani, e tanti nuovi negozi colorati a rendere più piacevoli le vite dei foggiani. Avrei detto dell’isola pedonale piena di gente, dello struscio serale, trepido e appassionato, di una comunità che si riversa in strada per appropriarsi della città. Avrei detto. Provate a dirlo sotto Natale, che Foggia è una città brutta, anzi la più brutta città d’Italia, come disse quello scrittore famoso. E provate a parlare di statistiche, di qualità della vita: eccetera. 
Questo avrei scritto. 
Poi, avrei parlato di Victory Uwangue. Ha ventitré anni, Victory. Dovrei dire aveva, perché Victory è morta, ma dico che li ha perché Victory è qui, accanto a me, mentre scrivo. Victory è nigeriana, e lo si capirebbe dal nome, se non lo sapessimo. Quasi tutti i nigeriani che ho conosciuto avevano questi nomi: Victory, Destiny, Goodluck. Nomi di gente che vuole crederci. Tutti i nigeriani che ho conosciuto avevano storie terribili da raccontare. La storia di Victory finisce a Foggia, anzi a Borgo Mezzanone. Ufficialmente questo borgo, creato dal fascismo per attuare la sua politica dei borghi rurali, fa parte del territorio di Manfredonia, anche se dista solo quindici chilometri da Foggia. Qui Victory vive in un ghetto, in uno dei ghetti nei quali vivono – languono, lottano, soffrono – i lavoratori-schiavi che vengono a lavorare nei campi del Foggiano. 
Qui Victory sabato scorso è stata uccisa. Il suo cadavere, nudo, è stato dato alle fiamme, ma molto più probabilmente è stata bruciata viva. La foto del suo corpo nudo e semi-carbonizzato gira in rete. L’ho trovata in un blog nigeriano, ma si trova facilmente anche sui siti italiani. Nel blog nigeriano trovo tra i commenti: “They must investigate that matter. That’s if the lady is not a prostitute”. I commenti dei foggiani non sono pervenuti. I siti di informazione locale hanno dato la notizia, che però non interessa granché. Sui social è silenzio. Gli amici, per lo più gente di sinistra, discutono animatamente del nuovo governo Gentiloni e soprattutto del nuovo ministro dell’istruzione che mente sul suo titolo di studio. Sempre al ghetto di Borgo Mezzanone, e sempre la scorsa settimana, è morto bruciato un altro ragazzo di vent’anni, Ivan Miecoganuchev. La stufa ha dato fuoco alla sua capanna fatta di legno e cartone. Sono cose che succedono. Si sa, del resto, che questi stranieri fanno cose strane e terribilmente pericolose. Come quella romena – Claudia Ioana Pop, si chiamava – che quasi dieci anni fa, nel 2007, morì nel tentativo di lavarsi in una vasca per l’irrigazione, quelle cose simili a piscine che si trasformano in trappole mortali per le pareti lisce e ripide. Aveva ventisette anni e un figlio di quattro. Ricordo il suo nome perché avevo provato ad immaginarmela viva, proprio come sto facendo ora con Victory, il cui nome ricorderò tra dieci anni, e con Ivan. 
Claudia Ioana, Victory, Ivan. Tre nomi per decine di vittime senza nome, donne uccise e abbandonate ai bordi della strada, lavoratori investiti mentre cercavano di raggiungere i campi in bicicletta, uomini e donne morti sul lavoro, ragazzi morti nell’incendio delle loro capanne. Abbiamo perso, Victory. Hai perso tu, ha perso chi ti ha ucciso, ha perso chi guarda dall’altra parte. Ho perso io, che scrivo di te, e che non ho saputo fare nulla di meglio che andarmene.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 15 dicembre 2016.

Breve storia della Cucina di Stato

Pare che tutto sia cominciato con le riflessioni di Comistocle, gran filosofo di corte ai tempi del re Pekkar, della settima dinastia. Riflettendo sulla natura umana, Comistocle era giunto alla conclusione che per diventare pienamente uomini e donne, in buona salute e felici, è indispensabile mangiare bene. Aveva osservato non pochi bambini che, per colpa di una alimentazione errata, avevano sviluppato diverse deformità, mancanze intellettive, turbe caratteriali. Consultandosi con i medici di corte, era giunto ad elaborare la dieta perfetta o quasi, quella che avrebbe consentito a chiunque di sviluppare il proprio corpo e la propria mente nel modo migliore. Per una strana coincidenza, questa dieta corrispondeva quasi del tutto con la dieta della stessa corte; o, per meglio dire, con ciò che mangiava lo stesso Comistocle. Ma era una dieta diversissima dalla dieta della maggior parte della gente. Comistocle convinse dunque il re Pekkar che sarebbe stato un crimine consentire ai sudditi di continuare a mangiare i loro cibi scadenti, compromettendo non solo la loro salute, ma anche e soprattutto quella dei loro figli. Chiese dunque, ed ottenne, un decreto del re con il quale si stabiliva che da quel momento la dieta dei sudditi sarebbe diventata faccenda dello Stato. Tutti avrebbero potuto mangiare gratis alle mense del re. Anzi: tutti avrebbero dovuto farlo. E avrebbero mangiato, nelle mense del re, gli stessi cibi di Comistocle.
La cosa a Comistocle ed al re ed a tutta la corte pareva un gran bell'atto di finaltropia. Un gesto generoso che i posteri avrebbero ricordato con gratitudine. Ma accadde una cosa non prevista. Per quanto gratuite, le mense reali venivano disertate. Ai sudditi non piaceva il cibo di Comistocle, benché fosse infinitamente migliore di quello delle loro povere mense. Preferivano nutrirsi di castagne e pane nero. Presto fu necessario un nuovo bando per ribadire che mangiare alle mense pubbliche era un preciso dovere dei sudditi. Nemmeno questo bastò. Le mense si riempirono solo quando il re si decise a ricorrere all'esercito. Famiglie intere venivano prelevate e portate di forza alle mense. Le quali avevano, ormai, le grate alle finestre, e le porte erano sbarrate. Fino a quando era tempo di mangiare, nessuno poteva uscire.
Anche così, i sudditi continuarono a protestare. Molti si rifiutavano di mangiare, molti altri vomitavano subito dopo aver mangiato. Particolarmente penosa era la situazione dei cuochi reali che, dopo aver studiato per anni la cucina più raffinata, si sentivano ora terribilmente umiliati. I cibi preparati con tanta passione, tanta competenza, tanto studio, erano rifiutati come se fossero stati velenosi. Perché i sudditi li assaggiassero, occorreva ricorrere alla minaccia.
Una situazione così penosa si protrasse per secoli e secoli. Stranamente, i sudditi non si adeguarono mai alla dieta di Comistocle. Continuarono a sognare le loro castagne col pane nero, assaggiando qualcosa nella mensa reale solo sotto minaccia, e il più delle volte risputandolo via. I cuochi cominciarono presto a far porzioni più piccole, per disturbare il meno possibile, e fingevano di non vedere quando qualche suddito, invece di ingoiare, buttava in qualche sacca il cibo così amorevolmente offerto. Gli uni e gli altri erano scontenti, e le mense furono per secoli tra i posti più infelici del regno. Eppure i re, uno dopo l'altro, continuarono a considerare la mensa reale indispensabile, irrinunciabile, meritoria. Il ragionamento di Comistocle era solido, capace di resistere ad ogni smentita dell'esperienza.
Fu verso la nona dinastia che accadde qualcosa. Venne fuori un cuoco popolare, un tipo strano che cucinava castagne col pane, ma in modo più raffinato, e si mise a contestare apertamente la mensa reale. Scrisse un libro intitolato Lettera a un Cuoco di Stato in cui sosteneva che non è affatto vero che la dieta comistoclea è migliore, che anche la dieta dei sudditi, caparbiamente mantenuta nei secoli nonostante l'opposizione dei governanti, aveva le sue virtù, e che i sudditi si sarebbero sentiti estranei, quasi prigionieri nelle mense di Stato - che continuavano ad avere le grate alle finestre - se alla dieta comistoclea non fosse stata aggiunta almeno qualche castagna e qualche fetta di pane nero. Altre voci si aggiunsero alle sue. Un tale si spinse fino ad affermare che meglio sarebbe stato chiudere senz'altro le mense statali, visto che nessuno vi mangiava nulla. La reazione comune fu di sdegno. Nessuno poteva considerare seriamente la proposta di cancellare una istituzione così benefica.
Ma il disagio dei sudditi, dopo secoli di cucina di Stato, era oggettivo: e crescente. Che fare? Ci si accordò tacitamente di diminuire ancora le porzioni. Oggi, dodicesima dinastia, la mensa di Stato continua ad essere una istituzione centrale nella politica dei successori di Pekkar, ed il successori di Comistocle continuano a sostenere la solidità delle ragioni del loro illustre antenato. Ma i sudditi non mangiano, e se non fosse per quel po' di pane e castagne che riescono a buttare giù di nascosto appena usciti dalla mensa, si direbbe che siano a rischio di morire di fame. Io che scrivo queste righe, alla periferia del Regno, mi chiedo come mai ciò accada. Sommessamente, avanzo una mia ipotesi, e la affido a questa pagina nella speranza che, quando la leggerete, sarà al di là del confine. Ecco, sospetto che non si tratti in realtà di dieta, che la salute dei sudditi c'entri poco. Sospetto che da secoli la gente venga chiusa a mangiare la dieta comistoclea in mense con le sbarre alla finestra perché è così che si impara cos'è il potere.
Ora che ve l'ho detto, è bene che vada. In fretta.
Valete.

La scuola capovolta

Il mio articolo sui poteri dei presidi contiene un cenno critico alla flipped classroom che non è piaciuto ai sostenitori della metodologia: sono stato perfino espulso dal gruppo Facebook Docenti Virtuali. Cosa che, se non mi toglierà il sonno, un po' mi sorprende, sia perché mi figuro dei docenti come persone aperte al confronto, sia perché la mia critica non riguarda la metodologia in sé, ma la sua deriva.
Per flipped classroom si intende una metodologia didattica che capovolge, letteralmente, il modo tradizionale di fare scuola. Nella scuola tradizionale al mattino il docente insegna, impiegando per lo più la metodologia della lezione frontale - che ha limiti che ormai sono evidenti a tutti, o quasi - ed al pomeriggio lo studente fa il lavoro a casa: i compiti, ossia lo svolgimento di esercizi o lo studio del libro di testo. L'assegnazione di compiti a casa è molto discussa soprattutto nella scuola primaria. Come osserva Maurizio Parodi, pedagogista che ha avviato una campagna per l'abolizione dei compiti, il bambino si ritrova da solo proprio nel momento decisivo, quello nel quale deve consolidare ed applicare - cioè rendere concrete - le conoscenze acquisite. Per questo per molti bambini il momento dei compiti si risolve in una esperienza frustrante: e l'associazione dello studio con sensazioni spiacevoli può avere conseguenze non lievi sulla futura esperienza scolastica. A dire il vero il bambino non è del tutto solo: c'è sempre la mamma o qualche altro familiare ad aiutarlo. E qui c'è un'altra perplessità. A far la differenza, alla fine, è il tipo di assistenza che il bambino può avere a casa. Un bambino con una madre laureata avrà molte più possibilità di successo scolastico di un bambino proveniente da una famiglia non in grado di seguirlo adeguatamente nei compiti. E che dire, poi, di un professionista, l'insegnante, che chiede ai genitori di completare il lavoro da lui iniziato?
Con la classe capovolta lo studente non ha più compiti a casa: quello che prima faceva a casa lo fa ora a scuola. E cosa fa a casa? Segue le lezioni. Ed è qui che si appuntava la mia critica. Perché le lezioni saranno seguite, naturalmente, davanti al un computer o a uno smartphone, e consisteranno in video nei quali il docente illustra l'argomento di studio o in altri video didattici trovati in rete. Occorre precisare che il ricorso a videolezioni non è indispensabile né caratterizza la metodologia, perché a casa lo studente può anche studiare il manuale, ma di fatto la proposta di materiali video o comunque multimediali caratterizza fortemente la metodologia. Cosa c'è che non va? La mia obiezione non riguarda la perdita di contatto umano, lo smarrimento della relazione interpersonale, poiché c'è il momento successivo in classe, nel quale si spera che si recuperi in termini di relazione quello che s'è perso al pomeriggio. A lasciarmi perplesso è la riduzione, forse non inevitabile ma effettiva, del discorso culturale, affinché rientri in un video. Tutto viene semplificato, ridotto, schematizzato. Guardando i video didattici che i docenti capovolti si scambiano, ho l'impressione che si tratti di materiale che suppone in chi lo guarderà una capacità di attenzione molto labile, per non dire peggio.
Nel gruppo Facebook La Classe Capovolta, il più importante gruppo di incontro dei docenti che praticano la metodologia, una docente segnala il sito Ovo. " Qui si trova materiale utile per italiano, storia, arte, musica, ecc." Seguono ringraziamenti. Una docente scrive: "Io lo conoscevo ed è molto utile.......linguaggio semplice, associa video e relativo testo..." (sic). Ed un'altra: "Grazie mille molto interessante i video sono semplici e molto d'impatto". Semplicità ed impatto.
A chi ha buona memoria questo Ovo dirà qualcosa. Si tratta di un progetto che ha una decina di anni. Fu avviato nel 2007, dietro c'erano Trefinance, una società controllata dalla Fininvest di Silvio Berlusconi, e Nova Fronda di Antonio Meneghetti, ex frate fondatore dell'ontopsicologia, un personaggio con pose da santone di cui la magistratura si è occupata più volte. Il progetto fece scalpore, ai tempi, perché in quei video di pochi minuti sembrava prendere forma un progetto ben preciso: quello di riscrivere la storia ad uso e consumo delle nuove generazioni. Del resto, Marcello Dell'Utri lo aveva detto con chiarezza: "I libri di storia, ancora oggi condizionati dalla retorica della resistenza, saranno revisionati, se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione". Ma l'incontro tra Berlusconi e Meneghetti (scomparso nel 2013) non era solo all'insegna del revisionismo storico. Meneghetti aveva la fissa dei leader, degli esseri superiori che riescono a far prevalere la loro volontà. E l'idolatria della leadership è uno dei punti cardine dell'ideologia berlusconiana. Nel caso di Ovo, tuttavia, più che di formare una nuova generazione di leader, si trattava di contrastare quell'egemonia culturale della sinistra che tanto infastidiva Dell'Utri, e di farlo con la consapevolezza dei cambiamenti culturali e tecnologici in atto. Se la sinistra ha il controllo delle case editrici, la destra userà il web, i computer, i telefonini. E la comunicazione rapida, essenziale, efficace. Mettendo a frutto anni di esperienza televisiva e pubblicitaria.
A distanza di dieci anni, le pillole di Ovo diventano strumenti didattici all'avanguardia. Pier Cesare Rivoltella, docente alla Cattolica di Milano che è tra i principali riferimenti italiani dei docenti capovolti, riprende il concetto di microlearning, che spiega come segue: "Se io ho il mio cellulare e ascolto il podcast di una lezione universitaria sul tram, è evidente che quella lezione non potrà durare venti minuti, venticinque minuti, trenta minuti. Ma neanche dieci". Cinque minuti di lezione, da ascoltare sul tram. Come uno spot pubblicitario: nulla più.
Resta da chiedersi perché seguire una lezione universitaria in tram. Non ho l'ideologia dello studio faticoso, che richiede disciplina e sofferenza. Sono persuaso che sia compito di chi insegna rendere l'apprendimento quanto più possibile una esperienza positiva, perfino gioiosa. Ma resta una esperienza che ha bisogno dei suoi tempi e dei suoi spazi: come tutte le cose importanti. Non si studia tra la lettura di un sms e la fermata del tram. Si studia prendendosi il tempo necessario e concentrandosi. Si studia, soprattutto, andando a fondo nelle cose. Le dosi omeopatiche di cultura generano solo una ignoranza piena di presunzione. Il rischio è quello di una scuola che, nel tentativo disperato di inseguire la società, smarrisce quello che è il suo compito: educare al pensiero rigoroso, all'approfondimento dei problemi, all'analisi attenta, alla concentrazione, che è una questione esistenziale e non solo metodologica. Intelligenza è guardare dentro. Se si resta alla superficie, si educa alla stupidità.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 3 settembre 2016.

I nuovi poteri dei presidi, la nuova impotenza dei docenti

G. ha ottenuto una cattedra grazie alla chiamata diretta, con esame del curriculum. Non conosceva né il preside né la scuola. E dunque questa cosa della chiamata diretta non dev'essere così terribile, conclude sul suo profilo Facebook.
G. è giovane, colta, brillante. Le piace insegnare, ed ai suoi studenti piace il suo modo di insegnare. E verrebbe dunque da darle ragione: questa cosa no, non dev'essere così terribile. Ma c'è un particolare della faccenda che mi impedisce di partecipare al suo ottimismo. Il suo incarico, quello che ha ottenuto grazie al suo curriculum, è triennale. Tre anni di insegnamento: e poi? Poi dipende da te, certo. Può essere che quella scuola non ti piaccia, che tu voglia cambiare città o semplicemente scuola. Ma dipende soprattutto dal preside. E' il preside che dopo tre anni decide se è il caso che tu rimanga in quella scuola o debba cercarti un altro posto per insegnare.
Non è difficile immaginare le implicazioni di questo sistema. Abbiamo una nuova classe di docenti la cui sorte dipende interamente dai presidi. Sono assunti direttamente dal preside e il preside stesso può mandarli via se non piacciono più. Che ne sarà della loro libertà, della loro indipendenza, del loro spirito critico? Le cronache scolastiche degli ultimi tempi ci hanno consegnato l'aggettivo contrastivo, associato ai docenti. L'aggettivo, guarda caso, è balzato fuori da una slide di un corso della Associazione Nazionale dei Presidi. Il contesto era: "mano libera nei confronti dei docenti contrastivi". Uno dei nuovi poteri dei presidi garantiti dalla riforma. Chi sono i docenti contastivi? Quelli che si oppongono. Quelli che hanno un'idea di scuola diversa rispetto a quella del loro preside, o che magari hanno qualche perplessità riguardo al modo in cui vengono spesi i soldi. Certo, non manca qualche docente contrastivo per temperamento e vocazione, ma nel complesso per la scuola italiana che ci siano docenti contrastivi è più un bene che un male. Vuol dire che le procedure vengono sottoposte a verifica, che c'è dibattito, confronto, dialettica. Vuol dire che c'è democrazia.
Ora, nei confronti dei docenti contrastivi la mano non è libera: è liberissima. Il docente contrastivo poteva trovarsi emarginato, più o meno mobbizzato, ma nessuno poteva davvero impedirgli di parlare e di mettere a verbale le sue dichiarazioni. Aveva tutte le garanzie della legge. Adesso quelle garanzie restano, formalmente. Ma mentre sempre più si riduce l'ambito di competenza del Collegio dei docenti, ossia l'organo che gestisce democraticamente la scuola (un solo esempio: l'animatore digitale e i membri del team per l'innovazione sono stati scelti direttamente dai presidi), la sorte professionale dei nuovi docenti è legata a doppio filo alla volontà dei presidi. Ogni contrastività, ogni opposizione alla politica del preside costerà non solo l'emarginazione e la mobbizzazione, più o meno pesante. Costerà la cattedra su quella scuola. I presidi potranno contare su Collegi dei docenti sempre più perfettamente allineati, almeno su quelle poche cose di sua competenza (per il resto, farà da solo). Se allarghiamo lo sguardo, questo dirigente statale le cui dimensioni sembrano essere cresciute a dismisura, torna a farsi piccino: perché non è, a sua volta, che una pedina, uno strumento nelle mani di un potere più grande. Dare potere ai presidi è un modo, per il Ministero, per controllare la scuola. Se controlli un preside che controlla la scuola, hai controllato la scuola. I poteri che il governo dà ai presidi sono poteri che dà a sé stesso. Nella politica di allineamento, che si sta chiaramente delineando, il preside non è che un esecutore, cui si chiede di adeguarsi alle politiche dall'alto e rendersi garante della loro applicazione.
La professione dell'insegnante sta cambiando in modo talmente rapido da lasciare sconvolti. Tra i nuovi poteri dati ai presidi c'è anche questo: di decidere in quale direzione deve andare la professione docente. Dimenticatevi la libertà di insegnamento. Ora il modo di insegnare sarà deciso da questo nuovo, singolare mercato. Saranno i presidi a decidere quali competenze sono importanti. C'è il preside che chiede che i candidati si presentino con un video a figura intera; e si commenta con malizia: vorrà vedere se il candidato, o più probabilmente la candidata, ha belle gambe. Sfugge la cosa più grave: quel preside ha deciso che saper stare davanti ad un video è una competenza-chiave, e in base a quella sua convinzione - discutibilissima - deciderà chi assumere e chi no. E' una dei profili di maggior successo, e bisogna ammettere che qui il ministero c'entra poco. Molto si deve alla cosiddetta flipped classroom, che si è diffusa dal basso, e che ha trasformato il modo di intendere la professione docente. Basta lezioni frontali: e questo va benissimo, sono decenni che lo dice tutta la pedagogia più avvertita. Ma cosa mettiamo al posto delle lezioni? Ed è qui che la metodologia, che può avere applicazioni interessantissime, spesso scade in qualcosa che rischia di essere perfino peggio della lezione frontale. Agli studenti, impegnati al pomeriggio secondo la logica capovolta, i docenti propongono video da guardare comodamente a casa. Video che sono di due tipi: o prodotti dal docente stesso, o trovati in rete. Il docente dunque diventa un produttore di video didattici o una sorta di deejay didattico, che mixa e propone video prodotti da altri. E non è detto che questo secondo caso sia peggiore, perché per quanto sappia usare gli strumenti informatici, sia telegenico ed abbia una bella voce, un docente difficilmente supererà i professionisti della divulgazione televisiva. Il docente videogenico, produttore di materiali didattici informatici, è uno dei profili vincenti. Si integra alla perfezione nel Piano Nazionale Scuola Digitale, che è come dire l'autostrada della scuola renziana. Un altro profilo di buon successo è il docente bilingue: servirà per il CLIL, ossia l'insegnamento di una disciplina in una lingua straniera; non proprio un'autostrada, ma una strada rispettabile e redditizia. La sua competenza naturalmente dovrà essere adeguatamente certificata, perché nell'epoca della selezione tramite curriculum conta solo quello che puoi certificare. La corsa alle certificazioni è già iniziata, ed apre un mercato significativo, alimentato anche dal bonus di cinquecento euro per la formazione dei docenti.
Quale spazio resterà per la sperimentazione di una scuola dal basso, diversa da quella proposta/imposta dal ministero? Che ne sarà della libertà di insegnamento? Che ne sarà dello studio intenso, profondo, rigoroso di un testo, in una scuola che va verso la divertente divulgazione audiovisiva? Che ne sarà della scuola come palestra di critica sociale? Che ne sarà della democrazia, delle scelte condivise, della collegialità? Si dirà che è da tempo che la democrazia scolastica è in crisi. E' vero. I collegi dei docenti sono, in molte scuole, penosi happening e psicodrammi nei quali si approva qualsiasi cosa pur di andarsene a casa e farla finita. Quanto alle assemblee degli studenti, in molte scuole (la maggior parte di quelle cui ho insegnato) semplicemente non si tengono: si va a casa, se va bene i rappresentanti restano per una mezz'ora a chiacchierare tra di loro. Ma quando c'è poca democrazia, o la democrazia funziona poco, bisogna chiedersi come fare affinché ci sia e funzioni. Non togliere anche quel poco di democrazia che c'è.
Si assiste con impotenza a questo nuovo scenario. La scuola che abbiamo frequentato come studenti non c'è più. La scuola nella quale abbiamo insegnato per anni non c'è più. E questa potrebbe essere una buona notizia, perché la scuola che abbiamo frequentato come studenti aveva molti mali, tutt'altro che lievi, e questi mali sono rimasti nella scuola in cui si siamo trovati a lavorare come docenti. Ma lo scenario della nuova scuola che si sta delineando suscita preoccupazione. L'impressione è che stiamo assistendo al passaggio dall'istruzione all'intrattenimento di massa.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 31 agosto 2016.

25 agosto, giovedì

Siedo sul balcone. Davanti ho la valle, di là dalla valle il paese. Quasi tutte le case sono spente, qualcuna ancora s'aggrappa all'ultima luce. Non un solo cane abbaia, nulla parla. Dietro le case il cielo. Due stelle verticali, una rosseggia, l'altra è fredda. Altre stelle sparse a caso. Respirano, ansimano.
Mentre la cagna che vive con noi raspava nei cespugli, prima, ho pensato a me vecchio. Alla vita che ti fa man mano più solo, più sopravvissuto. E poi uccide anche te.
Guardo le stelle  con il peso di questa condanna: della solitudine, della morte. Sento la mano fredda della notte che mi attraversa da parte a parte, e so che vivere è lasciarsi abitare dal nulla. 
Quando anche questa casa non sarà più, avrò dentro questo balcone sul cielo, sulle stelle, sul nulla.  

Le donne viennesi e il burkini

Se volessimo individuare il momento - il tempo e il luogo - più alto della civiltà europea contemporanea, pochi luoghi potrebbero sembrare più adatti della Vienna dell'inizio del secolo scorso. E' il tempo e il luogo della psicoanalisi di Sigmund Freud, della grande musica di Brahms, Mahler, Schoenberg, della grande scrittura di Hofmannstahl e Kraus, della grande pittura di Klimt e della Secessione viennese. Una civiltà raffinatissima, razionale, ottimistica. Una civiltà che come poche altre, nella storia, tiene in conto il teatro, la scrittura, l'arte, la musica.
Ora, leggiamo nell'autobiografia di Stefan Zweig, uno dei grandi figli di quella civiltà, questo passo che riguarda le donne viennesi di quegli anni:

Che le ragazze anche nella più calda estate giocassero al tennis con abiti corti o peggio a braccia nude, sarebbe stato considerato scandaloso, e se una signora ben educata incrociava i piedi in società, ne erano offesi i buoni costumi, perché avrebbero potuto apparire sotto l'orlo della veste i suoi malleoli. Persino agli elementi naturali, al sole, all'acqua e all'aria, non era lecito sfiorare la pelle nuda delle donne. Esse nuotavano a fatica con pesanti costumi, coperte dal collo al tallone, e nei collegi e nei conventi le ragazze, perché dimenticassero di avere un corpo, dovevano persino fare il bagno in lunghi camici bianchi. Non è leggenda né esagerazione che morissero allora in tarda età donne del cui corpo, all'infuori del marito, dell'ostetrico e di chi ne lavava la salma, non erano mai stati veduti neppure le spalle o i ginocchi. (S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano 1954)

Prima di giudicare la civiltà altrui dagli abiti indossati dalle donne, sarebbe cosa buona ricordare che era questa la condizione femminile in uno dei momenti più alti della cultura e civiltà europea. Non per rivendicare quella condizione, ma per riflettere sul fatto che, per quanto la cosa possa sembrarci strana, in alcuni contesti sociali e culturali uomini e donne - anche colti, razionali, evoluti  - possono trovare assolutamente normale che una donna faccia il bagno interamente coperta. E quando smettono di considerarlo normale, non è spesso perché la cultura ha aperto loro la mente, ma perché i cambiamenti economici hanno travolto le vecchie forme di vita.

La dimostrazione dell'esistenza di Dio


Guarda questa pietra. Ad essere precisi, dovrei dire pietruzza. Sassolino, a voler essere buoni. Certo non sasso: sasso è eccessivo. Eppure il biglietto che l'accompagna la chiama senz'altro sasso. Ed a ragione. Perché questa pietruzza o sassolino non è una pietruzza qualsiasi. Leggi bene. E' un "Sasso della grotta ove si rifugiò in Egitto la Sacra Famiglia". Vogliamo negargli lo status di sasso? Giammai: tanto più che questo mirabile reperto, che si trova oggi in una teca a palazzo Pfanner, a Lucca, dimostra l'esistenza di Dio. 
Chiudi gli occhi e seguimi. Siamo in Egitto, siamo in una grotta. Ecco qui Giuseppe e Maria. Sì, Giuseppe ha il mantello e il bastone e Maria è bionda con gli occhi azzurri ed il manto immacolato. E' giovane, mentre Giuseppe mostra il triplo dei suoi anni. Poi c'è il bambino, anzi il Bambino, anche lui, anzi Lui, biondo con gli occhi azzurri e paffutello anzi che no. Dunque Giuseppe e Maria sono in questa grotta con Gesù. Che fanno? Direi che Maria sta cucinando, se la cosa non sembrasse blasfema. Cucinava, Maria? Certo la sacra famiglia (la Sacra Famiglia) mangiava, ed essendo poveri certo non avevano la cuoca. Ma non si può escludere che scendesse qualche angelo a sbrigare la faccenda, o che le pietanze comparissero miracolosamente sulla tavola. Dunque Maria non cucinava, pregava ardentemente Dio o leggeva qualche libro rilegato in marocchino, magari le bozze in anticipo del Vangelo di Luca. Giuseppe invece lavora: a lui lavorare era concesso, è perfino il protettore dei falegnami. Era lì, allora, a piallare una tavola di legno. Finché la pace della grotta viene turbata da un urlo. E' Giuseppe. All'urlo non segue una bestemmia, perché Giuseppe è San Giuseppe e non bestemmia. La Madonna lo guarda con sguardo interrogativo, epperò pieno di amore - di un amore, sia chiaro, privo di qualsiasi concupiscenza, sia perché Maria è vergine (è Vergine) e non pensa a queste cose, sia perché Giuseppe va per la cinquantina e non è quello che si dice un bell'uomo. Si guarda i poveri sandali, Giuseppe, e ne estrae una pietruzza. Poi la mostra a Maria, sorridendo. Maria risponde al sorriso, pacificata. Giuseppe riprende il lavoro, non prima però di aver preso un biglietto, di avervi scritto "Sasso della grotta ove si rifugiò la Sacra Famiglia" e di averlo riposto in un canto della grotta, pensando già a quando, secoli dopo, il sassolino, promosso a sasso, sarebbe diventato una preziosa reliquia, dimostrazione infallibile dell'esistenza di Dio. 
E veniamo alla dimostrazione. 
Alcuni malnati sostengono che Dio non è. Se Dio non è, il mondo non è stato creato, ma ha cause meramente fisiche. Se Dio non è, le specie animali non sono state create da Dio; la vita è nata grazie a processi chimico-fisici, e le specie si sono evolute secondo le ben note leggi della selezione naturale. La vita si è sviluppata in forme sempre più intelligenti, fino a giungere all'essere umano, l'essere più evoluto ed intelligente di tutti, il risultato di milioni di anni di selezione. 
Ora, se così fosse, se cioè davvero la specie umana fosse il risultato di una evoluzione di milioni di anni, non si spiegherebbe la spaventosa idiozia di chi crede che quella pietruzza possa provenire dalla grotta egiziana della Sacra Famiglia. Se una pietruzza del genere esiste - accompagnata da quel biglietto, voglio dire - è perché l'essere umano è radicalmente, disperatamente, irrimediabilmente idiota. Sia chiaro: non è, quella pietruzza, l'unica dimostrazione. Basterebbe prendere un pezzo qualsiasi della storia sacra per dimostrare lo stesso assunto. Il fatto che un coacervo di idiozie ed assurdità come il cristianesimo abbia ormai duemila anni dimostra abbondantemente l'idiozia umana. Se non vi basta, aprite a caso un libro di storia. O un giornale.
Dunque: l'essere umano è idiota. Scemo, se preferite. Coglione, se gradite questa sfumatura. Questa coglionaggine è incompatibile con la selezione naturale. Non è credibile che la natura in milione di anni abbia selezionato una specie di coglioni. Logica vuole che le cose siano andate diversamente. E precisamente, come racconta la Bibbia. Un essere umano così idiota non può che essere l'opera di un Dio quale è quello (Quello) che compare nella Bibbia. Un Dio bizzoso, rissoso, umorale, illogico, violento. Un degno padre (Padre) di un tale figlio. 
Dio è, perché un essere umano così idiota non può che venire da lì (da Lì). E quella pietruzza, seu sasso, ce lo dimostra in modo inconfutabile.

Raca!

Sono finiti i lavori per l'autostrada Ss77 "Val di Chienti" che va da Foligno a Civitanova. E bisogna inaugurarla. Il vescovo di Foligno è già pronto con i ferri del mestiere, quando Renzi lo gela: niente benedizione religiosa. Mi costa davvero molta fatica riconoscere qualche merito a Renzi, ma in Italia quando un politico dice no a un vescovo c'è sempre da aprire una bottiglia di spumante, magari d'annata. Ci resta male, il vescovo - che si chiama Gualtiero Sigismondi - e piagnucola. Lui che con ogni probabilità nella sua vita non ha toccato non dico una zappa, ma una chiave a brugola, ha anche l'improntitudine di parlare del "sudore della fronte di chi l'ha realizzata", l'autostrada, manco fosse stato lì, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto ad asciugarlo, quel sudore. Ma se le parole sconclusionate del vescovo di Foligno fanno sorridere, si ride alla grande leggendo quelle a supporto del vescovo di Macerata, Nazzareno Marconi. Il quale si lancia in una distinzione tra la visione della benedizione che ha il mondo laicista, "teologicamente ignorante", e quella cattolica, e chiude con: "Che Dio ci salvi dai cretini, in particolare dai cretini che hanno potere".
Ora, quale appartenente al mondo laicista, o più banalmente come persona che non appartiene alla setta cristiana, dovrei essere anch'io teologicamente ignorante, ma non lo sono fino al punto di ignorare quel passo del Vangelo secondo Matteo in cui Gesù, o chi per lui, dice:

Voi avete udito che fu detto agli antichi: "Non uccidere: chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale"; ma io vi dico: "chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: 'Raca' sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: 'Pazzo!' sarà condannato alla geenna del fuoco."
Raca. E che vuol dire raca? Lo lascio dire a San Girolamo, il traduttore della Vulgata:

Hoc verbum proprie Hebraeorum est: RACA enim dicitur κενὸς, id est, inanis aut vacuus: quem nos possumus vulgara iniuria, absque cerebro, nuncupare.
In altri termini, raca vuol dire cretino.  Ci sarebbe, a dire il vero, da notare che cretino propriamente deriva da cristiano, ma dubito che il monsignore volesse dare a Renzi del cristiano. Cretino sta proprio per inanisvacuus. Ora, ci sarebbe da prendere questo monsignore e portarlo al tribunale, giusto per mettere in pratica una volta tanto in Vangelo, ma i giudici hanno già il loro bel da fare: e una risata è più che sufficiente per questo pastore di pecore cristiane e "studioso" che non ha troppa memoria del Vangelo.

Allahu Akbar

Allahu Akbar. Nel mio studio su Gandhi ho cercato di mostrare l'importanza che nel suo pensiero ha l'idea di Dio come Daridranarayana: Dio come povero. E' il rovesciamento di quella idea di Dio che, in campo hinduista, si trova nella Bhagavad-Gita, libro che pure Bapu considerava fondamentale per la sua formazione spirituale, etica e politica. Dio è povero, è debole, è umile. Dio è negli intoccabili, che non a caso Bapu chiamava harijan, figli di Dio. Dio non è grande, Dio è piccolo. Dio è nelle cose piccole, e credere in Dio significa prendersi cura delle cose piccole. L'idea non è una creazione di Gandhi: l'ho trovata in Vivekananda, un pensatore che andrebbe riscoperto, ma forse si potrebbe risalire più indietro. Dio è grande: su questa convinzione si regge tutta l'arte occidentale; senza questa convinzione non avremmo il duomo di Monreale, Santa Maria Novella, San Pietro: eccetera. Dio è grande, e dunque bisogna onorarlo con la grande architettura, con la grande arte, con la grande musica. Ma Dio è grande vuol dire anche glorificare la potenza, la violenza, l'imposizione. Il Dio grande è sempre, anche, il Signore degli eserciti della Bibbia, il Dio assassino che guida i massacri e le crociate. Bisognerebbe cominciare a pensare che Dio è piccolo e sta nei piccoli. E che le pratiche religiose sono pratiche di attenzione e di cura verso ciò che è piccolo, debole, indifeso.

Razzismo: cosa può fare la scuola


La tragedia di Fermo è una tragedia annunciata. Da anni stiamo assistendo ad una sistematica azione di imbarbarimento della vita pubblica da parte di politici, giornalisti, opinionisti, che ha reso pubblicamente tollerabile ciò che altrove susciterebbe scandalo: il dileggio pubblico, il discorso di odio, la violenza verbale verso il diverso; una violenza che è inevitabilmente premessa alla violenza fisica. Un segnale inquietante sono stati gli insulti reiterati al ministro Kyenge. Il fatto che un persona nera, e per di più donna, facesse parte del governo ha fatto venire allo scoperto quel misto di crassa ignoranza, razzismo e fascismo di cui è composto buona parte del fondo - propriamente: la feccia - della sottocultura italiana. Quel che è disperante, è la difficoltà di contrastare il razzismo montante. E' noto il bassissimo livello culturale degli italiani, l'incapacità della maggioranza della popolazione di orientarsi nel mondo in cui vive (secondo l'indagine PIAAC dell'OCSE meno di terzo degli italiani hanno le conoscenze e le competenze necessarie per vivere in una società complessa). Un cittadino ignorante è un elettore ignorante, e un elettore ignorante elegge una classe di politici rozzi, che manipolano le paure popolari, che alimentano il razzismo, che affrontano problemi complessi ricorrendo a misere semplificazioni. Un circolo vizioso che è difficilissimo spezzare. 
Da insegnante, mi chiedo cosa può fare la scuola. Provo a dare qualche risposta, con la consapevolezza che non esistono soluzioni semplici, perché la scuola stessa - e questo fa parte del processo di imbarbarimento cui ho accennato - è sempre più indebolita, depotenziata, delegittimata, ridotta a logiche di mercato che nulla hanno a che vedere con l'educazione e la formazione critica dei cittadini. 
In primo luogo, la scuola può evitare di essere razzista essa stessa. L'accusa di classismo, rivolta alla scuola italiana, risale almeno alla Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana. Ed è una accusa tutt'altro che ideologica, che coglie un fatto oggettivo. Basta entrare in un qualsiasi liceo o in un qualsiasi istituto professionale. L'affermazione che i licei sono scuole esclusivamente borghesi può forse essere discussa: troverete sempre il figlio di operaio che ha fatto il classico o lo scientifico ed è lì a dimostravi che non è così. Ma è piuttosto improbabile il contrario: l'istruzione professionale e quella tecnica sono prevalentemente riservate ai ceti economicamente svantaggiati, a quello che una volta si chiamava proletariato. Secondo il rapporto ISTAT La scuola e le attività educative (2012). "I risultati scolastici sono correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine: quelli meno soddisfacenti si riscontrano più di frequente nelle famiglie in cui la persona di riferimento è operaio (il 41,3% ha conseguito il giudizio “sufficiente”), lavoratore in proprio o in cerca di occupazione (37% in entrambi i casi)". Ora, questi dati si incrociano in modo eloquente con quelli riguardanti gli studenti stranieri. Secondo il rapporto del MIUR Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi, relativo al 2013/2014, solo il 3,8% degli studenti nati all'estero sceglie il Liceo classico, contro un 39,5 % che sceglie un professionale e il 38,1% che sceglie un istituto tecnico. Nel sistema scolastico italiano gli stranieri si collocano dove si collocano i proletari. In quella fetta di sistema scolastico che fin dall'inizio è stata pensata per formare il braccio della società, non la mente né la classe dirigente. Benché questo suo classismo sia stato denunciato da tempo, la scuola italiana non riesce ad uscirne. 
Non è, bisogna dire, tutta colpa sua. Molto conta la percezione sociale dell'istituzione scolastica, dell'importanza dello studio, la propensione ai lavori intellettuali, l'influenza della famiglia e delle sue aspirazioni. Ma è innegabile che c'entri anche il lavoro di orientamento dei docenti. Chi scrive negli anni Ottanta, alla fine della scuola media, fu orientato verso l'istituto professionale, nonostante una chiara, evidentissima propensione per gli studi umanistici. Era difficile, a quei tempi, pensare un percorso diverso per il figlio di un operaio. La mia esperienza di docente mi porta a ritenere che a distanza di qualche decennio queste dinamiche classiste siano ancora ben radicate in molti contesti. 
Non si può dire che le scuole non facciano il possibile per accogliere gli studenti stranieri. Spesso, a dire il vero, fanno anche l'impossibile, con le scarse risorse di cui dispongono: ma non è detto che si muovano nella direzione giusta. Molto spesso, l'unica preoccupazione è quella di mettere lo studente in grado di conoscere la lingua italiana. In molte scuole occuparsi degli stranieri vuol dire esclusivamente organizzare corsi di italiano per stranieri. Se lo studente è particolarmente in difficoltà, gli si può mettere la nuova etichetta di BES, alunno con bisogni educativi speciali, e gli si offre un comodo salvacondotto, che a dire il vero permette anche ai docenti di rilassarsi un po'. Cosa manca? Manca la differenza. E' un percorso a senso unico, che porterà lo studente a italianizzarsi, nella migliore delle ipotesi, ma senza che la scuola abbia preso nulla da lui, dalla sua cultura, dalla sua identità. Manca lo scambio. Non è detto naturalmente che accada sempre. Non mancano esperienze di integrazione reale, non mancano forme di scambio e di arricchimento. Ma mi pare che la visione dominante, nonostante le decine di volumi di pedagogia interculturale che finiscono ogni anno sugli scaffali delle librerie, sia quella. Il crocifisso alle pareti è il simbolo di una anacronistica chiusura identitaria, l'ora di religione costringe fuori dall'aula gli studenti musulmani o comunque non cristiani, mentre un'ora di storia delle religioni aconfessionale o di etica civica potrebbe essere occasione di confronto e di scambio tra culture.
La chiusura della scuola italiana non è solo confessionale. Più in generale, è semplice miopia provincialistica. Si può uscire dal sistema scolastico italiano senza aver mai sentito nemmeno nominare capolavori della letteratura universale come il Mahabharata, ignorare tutto della straordinaria cultura cinese, non sentirsi minimamente ignoranti se non si sa chi è Murasaki Shikibu. Nella scuola italiana si studia la cultura italiana e un po' della cultura europea, tutto il resto non interessa. Il messaggio implicito è che tutto ciò che non è italiano o europeo è ignoranza e barbarie.
E veniamo al punto decisivo: lo sciovinismo. Uno sciovinismo soft, sia chiaro, non siamo mica ai tempi del fascismo. Ma innegabile. A scuola si entra gradualmente, dolcemente nella rassicurante narrazione degli italiani "brava gente", più portati per fare l'amore che per la guerra, il popolo che ha civilizzato l'Europa e il mondo con Dante e Petrarca, Leonardo e Lorenzo il Magnifico. Non si mancherà di vantare la grandezza della cultura europea di un Erasmo o di un Comenio. Lo studente sarà un po' confuso quando si ritroverà di fronte all'olocausto, che fortunatamente riceve a scuola tutta l'attenzione che merita, e che è un pozzo di barbarie aperto nel bel mezzo dell'Europa; ma nessuno gli parlerà - o gli parlerà con i toni necessari: non come si spiega un paragrafetto del libro di storia - del terribile genocidio compiuto dai belgi in Congo, o delle atrocità del colonialismo italiano, della vergogna dello schiavismo, della violenza e della distruzione che l'Europa ha portato nel mondo in nome della civilizzazione.
Uscire da questa narrazione è il meglio che la scuola possa fare per combattere il razzismo. La visione scolastica, che se ne sia consapevoli o meno, è ancora quella dell'uomo bianco, e segnatamente del borghese bianco. La scuola può con assoluta buona fede affermare i principi della solidarietà, della fratellanza, dell'umanesimo, trasmettendo al contempo una visione che esclude o pone ai margini della civiltà tutto ciò che è fuori dall'Europa, così come può ignorare o minimizzare il grido delle vittime di ieri e di oggi, quando sono vittime del lato oscuro dell'occidente. e' giunto il momento di fare i conti con la nostra ombra, con il nostro passato violento, guardare coraggiosamente nei nostri limiti: del resto, è quanto ha fatto la migliore cultura europea del Novecento, dolorosamente consapevole dell'intreccio di grandezza e miseria che caratterizza la storia del nostro continente. Ma non si tratta solo del passato. Una delle accuse che gli studenti rivolgono più frequentemente alla scuola è quella di non metterli in grado di leggere il presente. Ed hanno le loro ragioni. Ci si difende ripetendo il mantra che studiare il passato è indispensabile per capire il presente. Che è vero, ci mancherebbe: ma non sufficiente. Per capire quello che accade in Medio Oriente fa sicuramente bene conoscere la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, ma occorre anche conoscere la storia della formazione dello stato di Israele, la storia recente dell'Iran, con il colpo di stato del '53, e le guerre contro l'Iraq, e così via. Un lavoro che si fa sporadicamente, magari a ridosso dell'ennesima strage, e che dovrebbe essere invece costante, organico, centrale. Ogni giorno bisognerebbe analizzare quello che accade a livello internazionale, indagarne le cause, ascoltare più voci, anche leggendo più giornali. Ogni giorno in classe bisognerebbe sfogliare Le Monde, il New York Times, il China Daily, il Times of India. Costruirsi, ogni giorno, uno sguardo ampio, generoso, capace di apertura critica, di analisi profonda, di valutazione imparziale. Un difficile lavoro politico - ma insegnare è sempre un lavoro politico - per superare l'Italietta ignorante che legge la società complessa del terzo millennio con la profondità delle cartoline africane dell'Italia fascista.   

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali l'8 luglio 2016.

Luca Volontè e la fiducia nel genere umano

La prima volta che ho sentito nominare Luca Volontè è stato otto anni fa. Mia sorella aveva partorito un bambino, Davide, con una gravissima malattia genetica, la sindrome di Potter. Una malattia che non dà scampo. I medici avevano chiesto ai genitori l'autorizzazione per sottoporlo a dialisi, loro si erano presi un giorno di tempo per documentarsi - nulla sapevano della sindrome di Potter - e il medico si era rivolto al tribunale per far togliere loro la potestà genitoriale ed ottenere il ricovero senza il loro consenso. La cosa aveva suscitato un comprensibile dibattito, con toni qua e là accesi. Ognuno, come succede, diceva la sua. Qualcuno era a favore, qualcuno contro. Poi arrivò Volontè. Già il titolo del suo articolo (su Liberal: ma oggi si fatica a trovarne tracce in rete) la diceva lunga sui toni: L'incredibile cinismo di quei genitori di Foggia. C'è questo bambino, dice, che è nato senza reni e che "vuole scalare il mondo". E' una sciocchezzuola, basta un trapianto, ed ecco che no, il povero Davide non può vivere, perché i genitori vogliono farlo fuori. "I genitori vogliono consegnarlo invece alla morte, interrompere le cure e lasciarlo morire... lui che vuole vivere". E poi amplia lo sguardo: il pasticciaccio brutto di questi due genitori che vogliono uccidere il figlio sacrificandolo al "dio consumistico della perfezione" non è che la manifestazione della crisi morale dell'Europa, dovuta, naturalmente, all'abbandono dei buoni principi cristiani. E in pieno delirio evocava l'eugenetica, Binding e Hoche, il nazismo, per concludere poi: "Siamo proprio sicuri di aver fatto bene a vietare la caccia agli stregoni?".
L'articolo delirante di uno che tocca temi delicatissimi senza nessuna cognizione di causa. L'articolo crudele di una persona che addita al pubblico disprezzo una coppia di genitori che stanno soffrendo per un figlio destinato a morire, nonostante tutte le polemiche, nonostante tutti i sacrosanti principi cattolici. L'articolo di uno pseudo-intellettuale figlio di Comunione e Liberazione pronto a passare come un carro armato su una tragedia privata per i suoi scopi polemici. Ma era solo un articolo dei tanti. Era intervenuto, per dire, anche sul caso Welby, il nostro Volontè - "se lui ritiene di voler dare un taglio alla propria vita può suicidarsi con l'aiuto della moglie, ma questo non ha niente a che fare con la legalizzazione dell'eutanasia che è un omicidio sul quale la nostra cultura giuridica non può essere d'accordo " - e dopo la sua morte aveva chiesto l'arresto del medico che lo aveva aiutato a liberarsi dal suo incubo quotidiano. Chiamato in giudizio per diffamazione, la fece franca grazie all'immunità parlamentare. Quando si dice assumersi la responsabilità delle proprie idee.
Ora, la mia fiducia nel genere umano mi porta a credere - a sforzarmi di credere - che in ciascuno di noi ci sia qualcosa di buono, magari ben nascosto. Perfino in Luca Volontè. Avevo letto con sincera speranza il suo interesse per un paese lontano come l'Azerbaijan. "Parte dall'Azerbaijan l'integrazione nel mondo musulmano", scriveva recentemente, riferendo di un riunione della Alleanza delle Civiltà - una iniziativa delle Nazioni Unite voluta da Zapatero per favorire il dialogo tra mondo occidentale e mondo islamico. Che bello, pensavo, Volontè s'è convertito! Volontè è diventato democratico e aperto! Volontè riferisce addirittura - lui - del lavoro della riunione per contrastare crimini d'odio e hate speech. Tutto è bene quel che finisce bene.
Ma mi ero illuso, forse. E' di oggi la notizia che il nostro ex onorevole è indagato dalla magistratura con l'accusa di aver intascato dal governo dell'Azerbaijan una tangente di più di due milioni di euro. Soldi che sarebbero serviti ad orientare il voto del Consiglio d'Europa sul rapporto Strasser sugli 85 prigionieri politici dell'Azerbaijan, che fu bocciato grazie al voto determinante dei rappresentanti del gruppo Popolari-Cristiano Democratici, di cui il nostro era presidente. Un uomo politico di un paese che prende soldi per fare gli interessi di un altro paese. Un venduto, un traditore. Questa l'accusa.
Ma io, ripeto, ho una fiducia caparbia nel genere umano, e sono sicuro che il nostro Volontè è innocente, perseguitato da giudici che non capiscono e non rispettano la sua conversione ed il suo sincero impegno per il dialogo tra civilità.
Se poi così non fosse, sono sicuro che saprà riabilitarsi. Magari dietro le sbarre di una prigione.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 25 giugno 2016.

Quando la BIbbia insegna l'odio

Meno di un mese fa, il 28 maggio scorso, il parroco di Decimoputzu (Cagliari), don Massimiliano Pusceddu, ha tenuto una omelia che ha fatto e fa discutere. Ecco la sintesi del suo discorso nel titolo del Fatto quotidiano: "'Gli omosessuali meritano la morte'. L'omelia del parroco contro le unioni civili". Parole che indignano: ho letto sui social network commenti di fuoco, e non pochi chiedono che il parroco venga incriminato. Certo, si tratta di hate speech, ed appare ancora meno tollerabile all'indomani della strage di Orlando. Ma c'è un particolare che a molti sfugge: le parole incriminate sono una citazione di San Paolo. Ecco esattamente cosa ha detto il parroco:
Noi abbiamo la Parola di Dio, la Bibbia è la Parola di Dio, no? E allora dalla Parola di Dio dobbiamo partire perché non devono essere parole nostre, ma dobbiamo predicare quello che è scritto qui, questa è la Parola del Signore e che noi siamo chiamati a predicare. Allora cosa dice la Parola di Dio? Voglio leggervi solo un passo della Lettera di San Paolo apostolo ai Romani, perché secondo me questo passo vale più di tante prediche fatte e che si possono fare, ma è un passo molto chiaro per leggere questi tempi che stiamo vivendo oggi, questo passo di San Paolo è un passo profetico. Dalla Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani, siamo al capitolo primo, vi leggo direttamente dal versetto 26: "Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami, infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura, similmente anche i maschi lasciando il rapporto naturale per la femmina si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri commettendo atti ignominiosi, maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la persecuzione dovuta al loro cambiamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata, ed essi hanno commesso azioni indegne. Sono colmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, pieni di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità. Diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore e senza misericordia, e pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa".

Si tratta di un passo iniziale della Lettera ai Romani, un testo fondamentale per il cristianesimo, denso di profondità dottrinale e di spiritualità, fonte di ispirazione per i più raffinati teologi (è appena il caso di ricordare L'Epistola ai Romani di Karl Barth, uno dei capolavori della teologia del Novecento). Ma si tratta anche, come si vede dal testo citato dal parroco, di un testo intriso di violenza, in particolare contro i pagani, di cui parla quel passo. Una violenza verbale che, passato qualche tempo e conquistato il potere, diventerà violenza reale. I pagani sono stati perseguitati dai cristiani con una violenza non inferiore a quella subita dagli stessi cristiani; il loro culto è stato proibito, i templi demoliti con uno zelo non troppo diverso da quello dei fanatici attuali del cosiddetto Stato Islamico. La figura di Ipazia, la filosofa e matematica pagana squartata da una folla cristiana, è il simbolo tragico di queste violenze sulle quali cala ancora un velo pesante e difficile da scostare.
La maldestra omelia del parroco - davvero "l'ultimo dei sacerdoti", secondo la sua definizione che mi sento di condividere - solleva un problema reale: quello della violenza nella Bibbia. Il prete ha citato San Paolo. Avrebbe potuto citare il Levitico: "Chiunque abbia giaciuto con un uomo come si giace con una donna, hanno compiuto tutti e due un'abominazione; siano messi a morte" (20, 13). E, già che c'era, avrebbe potuto continuare a leggere la Parola di Dio. "Chiunque commetta adulterio con una donna sposata, chiunque commetta adulterio con la donna del suo prossimo, siano messi a morte l'adultero e l'adultera" (20, 8). L'elenco delle persone da mettere a morte è abbastanza lungo: c'è anche chi, preso da incontenibile passione, faccia l'amore con la sua donna mentre lei ha le mestruazioni. Messi a morte entrambi, lui e lei.
Mettere in pratica la Parola di Dio oggi significa riempire le nostre strade e le nostre piazze di lapidazioni: qui un'adultera, lì una strega, lì un quindicenne che ha maledetto suo padre o sua madre (anche per questo è prevista la pena di morte). Non credo che l'ultimo dei sacerdoti voglia davvero questo, né credo che lo vogliano quelli che ascoltavano la sua omelia contro gli omosessuali senza battere ciglio. Come tutti, il parroco usa la Bibbia fin quando gli fa comodo, prende quello che è utile ad alimentare i suoi pregiudizi, le sue fobie, le sue piccinerie, e ignora il resto. I cattolici vivono in questa ambiguità. E' evidente che la Bibbia dice molte cose inaccettabili. Non parlo di inaccettabilità per la ragione; parlo di inaccettabilità morale. La Parola di Dio, qua e là sublime, qualche volta dice cose che offendono profondamente la nostra sensibilità morale. I cattolici e i cristiani in generale si difendono dicendo che per la sensibilità dell'epoca quelle parole così dure, quelle leggi feroci rappresentavano comunque un progresso. Una giustificazione molto discutibile, per diverse ragioni. Perché il popolo ebraico, guidato da Dio, è talmente rozzo da progredire attraverso l'omicidio, anzi lo sterminio, mentre dall'altra parte del mondo gli indiani, con buddhismo e jainismo, affermano il valore della stessa vita animale? Si prenda Mosè. Nel libro dei Numeri si arrabbia di brutto con i comandanti del suo esercito, che hanno appena sterminato i madianiti, uccidendo tutti gli uomini, bruciando le città, razziando cose ed animali e riducendo in schiavitù le donne e i bambini. Che hanno fatto di male? Non hanno ucciso le donne e i bambini. E sentite Mosè: "Ora uccidete ogni maschio tra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si siano unite con un uomo le lascerete vivere per voi" (31, 17). Non è difficile immaginare cosa significasse lasciar vivere per loro le bambine, perché di bambine si tratta. C'è una sola definizione per chi in guerra comanda di massacrare delle donne e dei bambini: criminale di guerra. Ma questo criminale di guerra è, al tempo stesso, l'uomo di Dio che ha guidato il popolo ebraico verso la terra promessa.e il passo dimostra che c'era, in quella situazione, chi aveva una sensibilità morale migliore di quella dell'uomo di Dio, pur nella ferocia. Nessuna pedagogia divina, dunque.
Mi pare che la violenza della Bibbia sia uno dei nodi che il cattolicesimo deve affrontare oggi. Anni fa fece rumore la presa di posizione di Enrico Peyretti, tra i protagonisti dalla nonviolenza italiana e del cattolicesimo di base, che sul Foglio ("Mensile di alcuni cristiani torinesi") parlò apertamente di dissociazione morale dai passi violenti della Bibbia. Ma fu un rumore - non un vero scandalo - che durò poco, e poi si spense. E il problema resta. La Bibbia è scomoda non solo per la violenza che la abita, ma anche perché rischia facilmente di ritorcersi contro chi la usa per i propri scopi. Prendiamo questo parroco, ultimo dei sacerdoti. Cita la Lettera ai Romani per attaccare gli omosessuali, accomunati agli antichi pagani. Bene. Ma andiamo indietro di qualche riga, nel testo di San Paolo. Leggiamo: "Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili" (1, 22-23). Sono sempre i pagani, colpevoli questa volta di idolatria, di venerare statue invece del Dio vivente. Ora, l'ultimo dei sacerdoti parla avendo alle spalle ben due statue: una madonna con bambino ed un angelo. Molto probabilmente San Paolo, se avesse assistito alla scena, si sarebbe arrabbiato di brutto, ed avrebbe associato il nostro ultimo dei sacerdoti alla brutta genia pagana contro la quale si scaglia. Sfogliamo ancora a ritroso la Bibbia. Prendiamo il Vangelo di Matteo, 23, 1-14:
Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì" dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.

Dunque: non fatevi chiamare maestri, non fatevi chiamare padre. Il nostro parroco di Decimoputzu, pur essendo l'ultimo dei sacerdoti, ha il diritto di essere chiamato don. E don viene da dominus: signore. Per quanto sia l'ultimo, non manca di farsi chiamare signore. Fa parte di una organizzazione nella quale molti si fanno chiamare padre ed il cui capo ha l'appellativo di papa, che vuol dire appunto padre. Una organizzazione i cui rappresentanti più potenti vestono in modo sgargiante, perfino bizzarro, sono molto ricchi e potenti, e reclamano i posti d'onore in tutte le manifestazioni pubbliche. C'è qualcuno davvero così distratto da non accorgersi che è esattamente della Chiesa che sta parlando Gesù in questo passo? Basta davvero il rituale ipocritamente umile della lavanda dei piedi per credere che la Chiesa sia qualcosa di diverso dalla struttura sacerdotale dei farisei? La descrizione è talmente precisa, da inquietare un non credente: si ha l'impressione che quell'uomo sapesse davvero cosa sarebbe successo, quale struttura di potere sarebbe stata edificata sulla sua croce. Ora, se il nostro ultimo dei sacerdoti volesse prendere sul serio la Bibbia, piuttosto che prendersela con gli omosessuali dovrebbe smetterla di farsi chiamare don, togliersi di dosso gli abiti sgargianti che tanto impressionano la gente, uscire da una struttura sacerdotale che pontifica sul bene e sul male ben sicura nel suo benessere economico e nei suoi privilegi, e magari trovarsi un lavoro.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 13 giugno 2016.


Perché dico no al bonus per i docenti

Sul Corriere della Sera di ieri Attilio Oliva scrive: "C'è ormai evidenza empirica da tante indagini internazionali che, a parità di contesti ambientali e socioeconomici, scuole simili danno risultati molto diversi: evidentemente la variabile che fa la differenza è la qualità professionale di chi la dirige e di chi vi insegna. Ciò significa che migliorare la selezione degli insegnanti e dei presidi dovrebbe essere l'obiettivo primario, ma fino ad oggi sostanzialmente trascurato" (1). Chi è Attilio Oliva? Presidente della associazione TreeLLLe, di cui è cofondatore insieme a gente Fedele Confalonieri e Marco Tronchetti Provera, viene da Confindustria, di cui è stato presidente della Commissione Scuola dal '96 al 2000. TreeLLLe è una associazione - una lobby, dice qualcuno - che rappresenta il punto di vista del mercato sulla scuola; ed è una voce che, sui decisori politici, conta oggi più di quella degli insegnanti. Si sta facendo la scuola che vuole la Confindustria, non la scuola che vogliono i docenti, gli studenti, i genitori. E' inevitabile che chi viene da Confindustria e ragiona con le logiche del mercato voglia portare queste logiche anche nella scuola. C'è da chiedersi però se questa logiche non rischino semplicemente di distruggere la scuola, di farne nulla più che un'appendice del mercato, una istituzione che socializzi al mondo economico, rinunciando definitivamente alle sue pretese di formazione integrale.
I Decreti Delegati del '74 hanno portato nella scuola italiana una logica importantissima: quella della collegialità. La logica della collaborazione, del confronto, della gestione comune della scuola. Quello che sta accadendo oggi è lo smantellamento di questa logica democratica. Il collegio dei docenti, organo di gestione democratica e condivisa della scuola, viene sempre più svuotato e privato di poteri, che vanno invece al preside; ed i docenti vengono messi l'uno contro l'altro, divisi in bravi e meno bravi, in docenti da premiare e docenti da umiliare pubblicamente.
Secondo la logica di Confindustria il bonus dovrebbe sortire l'effetto di attirare verso la professione docente i migliori. Gli effetti saranno probabilmente opposti. I docenti della scuola italiana di oggi sono, con ogni probabilità, i migliori di sempre. Prima bastava la laurea, per insegnare; oggi raramente è sufficiente. Chi arriva ad avere una cattedra ha quasi sempre, oltre alla laurea, corsi di perfezionamento, specializzazioni, a volte perfino il dottorato di ricerca. Molti hanno fatto due anni di SSIS, al Scuola di specializzazione per l'insegnamento. Per la prima volta i docenti della scuola italiana si trovano ad affrontare la sfida dell'individualizzazione dell'insegnamento: devono fare una didattica diversa per lo studente con il sostegno, per lo studente dislessico, per chi ha un bisogno educativo speciale. Può essere che non lo facciano benissimo, ma lo fanno. Si trovano ad affrontare una sfida difficile con strumenti anche strutturali spesso assolutamente insufficienti. Eppure i docenti hanno uno status di gran lunga inferiore a quello di un tempo, sono sempre più figure socialmente irrilevanti, il loro sapere e le loro competenze sono ogni giorno messi in discussione, e spesso proprio dalla classe politica. Invece di riconoscere la qualità del lavoro del docente, si progetta di aumentare il suo orario lavorativo. Si dice che i docenti lavorano poco. Nessuno però si sogna di contestare l'orario di lavoro di un medico o, per restare nel campo dell'istruzione, di un docente universitario. Se diciotto ore di insegnamento sembrano poche, è perché non si è consapevoli del carattere qualitativo, altamente professionale, del lavoro del docente. E se nella società non è diffusa questa consapevolezza, non sarà certo una mancetta distribuita a qua e là a migliorare le cose. Cominci la classe politica, piuttosto, ad affermare pubblicamente il valore del lavoro dei docenti. Si dica ad una società che ci crede sempre meno che il lavoro educativo e culturale rappresenta la base di una autentica democrazia: e si agisca di conseguenza. Si faccia sfilare in prima fila, nel giorno della festa della Repubblica, non l'esercito - una istituzione di cui una democrazia può fare a meno, come dimostra il Costa Rica - ma la scuola: un esercito festante di bambini e di maestri, piuttosto della tristezza di divise e carri armati. Restituiamo agli insegnanti il rispetto che meritano: che vuol dire anche da loro la possibilità ed il diritto di stabilire da sé, da protagonisti, cosa dev'essere una buona scuola, non farlo decidere ai manager di Confindustria. Quello che sfugge a chi pensa di migliorare la scuola premiando i migliori è che una scuola è un sistema. Io entro in una classe nella quale entrano, ogni giorno, altri docenti; una classe che sta in una scuola in cui ci sono altre classe in cui entrano altri docenti. La qualità del mio insegnamento nella mia classe non è il risultato soltanto della mia preparazione, della mia passione, della mia volontà di lavorare bene. E' il risultato di quello che fanno gli altri docenti nella mia classe, di quello che fanno gli altri docenti nelle altre classi, di quello che fa il preside. E ancora: di quello che è stato fatto in passato. Ci sono scuole in cui anche il migliore dei docenti possibili avrebbe enormi difficoltà ad insegnare. Sono scuole nelle quali si sono attivati, da anni, circoli viziosi: livellamento in basso, rinuncia alla qualità, abbassamento delle richieste per attirare gli studenti ed aumentare le iscrizioni. Ci sono invece scuole in cui anche l'insegnante meno preparato o meno appassionato riesce a dare il meglio, perché sostenuto da un sistema che funziona, dal lavoro collegiale, da circoli virtuosi, da dinamiche positive.
Quale impatto avrà la distribuzione dei bonus sul sistema-scuola? Nella visione della Confindustria, dovrebbe attivare un processo di competizione virtuosa. E' molto probabile che accada il contrario. Le scuole sistematicamente disfunzionali si riconoscono per il riconoscimento che da sempre viene dato a docenti privi di reali qualità professionali, ma abili nel gestire le relazioni sociali e vicini alla presidenza. Queste persone, che da anni gestiscono funzioni strumentali, commissioni, ruoli di responsabilità, hanno da sempre un guadagno accessorio cui si aggiungeranno, ora, i soldi del bonus. Gli altri resteranno a guardare, scuotendo il capo: come sempre. Nelle scuole che funzionano il bonus sarà anche più dannoso. Una scuola che funziona, funziona perché è una comunità. Funziona perché si lavora, e bene, insieme. Funziona perché non si ragiona in termini di migliori e di peggiori, ma di valorizzazione di tutti. Cosa può fare il docente Tizio, cosa può dare alla scuola il docente Caio? Ognuno offre alla scuola quello che può, e la scuola si arricchisce grazie a questa differenza. Il bonus giunge ora a dire che questa comunità è fatta di docenti bravi e di docenti meno bravi. Crea un primo e un secondo livello, anche nella percezione degli studenti e delle famiglie. Esalta gli uni ed umilia gli altri. Spezza la comunità ed innesca le dinamiche individualistiche e disfunzionali delle scuole peggiori.
Più che distribuire mancette, il governo farebbe bene a valorizzare il lavoro dei docenti occupandosi della loro retribuzione generale e del contratto, che è fermo da anni. Ma non solo. Si sta selezionando in questi giorni la nuova classe docente. Un lavoro delicatissimo, cruciale per avere, domani, una scuola valida. Ma chi seleziona, oggi, i nuovi docenti? Il bando per la scelta dei commissari indicava alcuni titoli di preferenza, come l'abilitazione all'insegnamento universitario. Bene: gente preparata per scegliere i nuovi docenti. Ma quanto sarà pagato un commissario con un profilo professionale così alto? Meno di due euro all'ora. Molto meno di una colf e di un venditore di caldarroste. E per giunta non potrà usufruire dell'esonero dall'insegnamento. Chi sta dunque selezionando i nuovi docenti? Chi pensa che il suo lavoro e la sua professionalità valgano meno di due euro all'ora. Traete voi le conclusioni. C'è un modo semplice per sfuggire a queste logiche individualistiche e competitive: rinunciare al bonus. Non intascarlo. Dichiarare collegialmente, prima che venga fatta l'attribuzione, che chiunque sia individuato come destinatario del bonus rinuncerà ai soldi e li metterà a disposizione della scuola. Si costituirà così un fondo cassa che potrà essere usato in diversi modi: per acquistare materiale didattico, per dare una borsa di studio agli studenti in difficoltà, per finanziare progetti degli studenti. O, magari, per sostenere economicamente i docenti che sceglieranno di scioperare. In questo modo un provvedimento che ha lo scopo evidente di dividere una classe di lavoratori sortirà l'effetto contrario di rafforzarla e di renderla più compatta.

(1) A. Oliva, Bonus ai docenti. Assegnarli bene migliora la scuola, "Corriere della Sera", 1 giugno 2016, p. 27.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 2 giugno 2016.

La pace di Piero


Guardate questa foto. Seduti sull’erba ci sono, tra gli altri, tre pregiudicati. Il primo è l’uomo al centro, seduto in una posa giovanile che gli suscita un visibile imbarazzo. Si chiama Aldo Capitini. Durante il fascismo è finito in galera per antifascismo. Con Guido Calogero è stato il teorico del movimento liberalsocialista, ma è noto soprattutto come colui che ha introdotto in Italia la nonviolenza. Per la polizia politica, che lo ha sorvegliato per tutta la vita, è un misantropo. La sua filosofia sostiene che per portare nella nostra vita l’infinito – quell’infinito che la religione chiama Dio – non abbiamo che un modo: amare infinitamente. Amare infinitamente l’altro essere umano, il tu, ma anche l’animale, anche la pianta. In politica, sostiene che il potere non dovrebbe essere di alcuni, ma di tutti. La democrazia dei partiti non è sufficiente. Occorre una democrazia reale, effettiva, piena, che dia ad ognuno il potere di decidere, di scegliere, di partecipare in modo consapevole e concreto alla gestione della cosa pubblica. La chiama omnicrazia. 
L’uomo con gli occhiali alla sua sinistra è Danilo Dolci. Per i magistrati italiani, un “individuo con spiccata attitudine a delinquere”. Aldo e Danilo si sono conosciuti nel 1952. Danilo viveva allora in un piccolo e poverissimo paese della Sicilia, Trappeto. Aveva ventisette anni, e si era trasferito lì per aiutare la gente a migliorare. Un giorno lo chiamano perché un neonato sta male. La madre non mangia da giorni, non può allattarlo. Corre a comprare del latte in polvere, ma quando torna il bambino è morto. Di fame. Decide, allora, di fare un gesto clamoroso. Digiuna. Si rifiuta di mangiare per protesta. Non mangerà fino a quando la Regione Sicilia non farà qualcosa per aiutare quei disperati. Lo prendono per matto, pensano che sia una sceneggiata che finirà dopo due giorni, ma lui va avanti. Giorno dopo giorno. Diventa evidente che si sta lasciando morire. E la Regione cede: fa quello che avrebbe dovuto fare molto prima; lo fa perché costretta da quella che un po’ retoricamente potremmo chiamare la forza della nonviolenza. In galera Danilo ci finisce nel ’56, per aver organizzato lo sciopero alla rovescia di Partinico. Per chiedere lavoro, aveva portato i disoccupati del paese a lavorare, in segno di protesta, in una trazzera, una strada di campagna abbandonata. Era prontamente intervenuta la polizia. Danilo e gli altri naturalmente non avevano opposto alcuna resistenza, ma l’affronto era sufficiente per portarlo all’Ucciardone con le manette ai polsi.
Alla destra di Aldo c’è un giovane con la camicia scura. E’ Pietro (o meglio: Piero) Pinna. Anche lui ha visto la galera. Quando gli è giunta la chiamata per il servizio militare, si è rifiutato. Era il 1948, l’Italia era appena uscita dalla guerra. Piero sa che per uscire davvero dalla guerra bisogna non prepararsi alla prossima guerra. Disobbedisce, e viene punito. La condanna è a diciotto mesi di carcere complessivi. 
Piero, che è morto ieri l’altro, 13 aprile, è stato il principale collaboratore di Capitini, una presenza fondamentale per la creazione della Marcia Perugia-Assisi, per il Movimento Nonviolento, da Capitini fondato nel 1961, e per la rivista Azione Nonviolenta, di cui è stato il direttore responsabile fino alla sua morte. Nel ’60 Piero raggiunge Danilo per aiutarlo nella sua opera in Sicilia; e così Danilo ne parla in una lettera ad Aldo: “gli vogliamo già un grandissimo bene: è proprio limpido, di cristallo, di grande valore, come me lo avevi descritto”. Ed è questo, in effetti, l’aggettivo che ti veniva in mente, quando lo ascoltavi parlare: limpido. Ed un altro: umile. Non era un intellettuale, non seguiva teorie, non era uso a raffinare le sue armi dialettiche. Seguiva una intuizione morale semplice, ma potente. Era guidato dall’idea di ciò che è giusto, e vi restava fedele con una coerenza incrollabile. Ma senza fanatismo, seguendo quella che Aldo chiamava “logica dell’aggiunta”: io faccio così perché lo ritengo giusto; se qualcuno è persuaso come me, mi segua pure, ma non cerco di imporre a nessuno questa mia persuasione. 
Aldo aveva una sua idea, tanto bella quanto difficile. Diceva che esiste una cosa che si chiama compresenza. O meglio: la pensava, ma la sua esistenza – il modo della sua esistenza – andava pensata in un certo modo, che costituiva l’aspetto più difficile e più affascinante del suo pensiero. Per spiegarla, è bene lasciare la parola a lui. “Ho insistito per decenni ad imparare e a dire – scrive in un suo testo autobiografico – che la molteplicità di tutti gli esseri si poteva pensare come avente una parte interna unitaria di tutti, come un nuovo tempo e un nuovo spazio, una somma di possibilità aperta per tutti i singoli, anche i colpiti e annullati nella molteplicità naturale, visibile, sociologica. Questa unità o parte interna di tutti, la loro possibilità infinita, la loro novità pura, il loro ‘puro dopo’ la finitezza e tante angustie, l’ho chiamata compresenza”. Compresenza che vuol dire, anche e soprattutto, che i morti non sono andati, non sono esseri ormai ridotti e nulla, e non sono nemmeno anime salve in un paradiso come altra dimensione, ma sono presenze ancora operanti in noi, accanto a noi. Presenze che possiamo avvertire quando siamo in un valore: la bellezza, la verità, la giustizia. 
Quando lo conobbi, Piero mi fece uno scherzo bonario. Mi lesse un passo di un libro di Capitini. Mi chiese se ero d’accordo con quello che scriveva l’autore. Io ci pensai un po’, poi risposi che ero d’accordo solo in parte. Lui scoppiò a ridere. Quel passo l’avevo scritto io. Era un passo che riguardava la compresenza. Confesso che l’idea, che è anche e soprattutto una pratica, non cessa di inquietarmi. Non so cedere, non so abbandonarla. Ma so una cosa. Se penso ora a Piero, se penso ad Aldo, se penso a Danilo; e ancora: se penso a Fulvio Cesare Manara e Nanni Salio, che sono scomparsi di recente, o ancora a Lanfranco Mencaroni ed Alex Langer, ed a tanti altri; se penso a loro, mi capita realmente di sentire la loro presenza, qui ed accanto, operante. Mi succede di avvertirli come una forza che continua ad agire nella coscienza, ed attraverso la coscienza si fa storia. Li avverto come nessi ancora vivi, radici che danno linfa vitale. Voci che parlano ancora, e che mi aiutano a sentirmi meno solo. A fare della mia esistenza una cosa corale, per usare un aggettivo che Aldo amava molto. 
Nella serie di fumetti Las puertitas del Sr. López, degli argentini Carlos Trillo e Horacio Altuna, López è un impiegato non troppo diverso dal nostro Fantozzi, vessato dai superiori ed incapace di ribellarsi; buono, ma di una bontà debole, rinunciataria. Ma c’è una cosa che lo salva. Quando non ne può più, il signor López apre una porta – spesso quella del bagno – e si ritrova in un altro mondo. Un mondo meraviglioso, perfetto, in cui tutto è bello, vero, autentico. Il mondo in cui vorremmo, dovremmo vivere. Alla fine di ogni striscia ritorna alla realtà, ma con dentro un po’ della luce di quel mondo altro. Mi capita di pensare la presenza (e ora dovrei dire: compresenza) di Piero, Aldo, Danilo, Fulvio, Nanni e molti altri come una simile uscita di sicurezza. Una porta che si apre su un’altra Italia. Un’Italia che abbiamo perso, che abbiamo lasciato scivolare ai margini, dando il potere a mafiosi, corruttori, violenti, ma che tuttavia non ci lascia, continua a starci accanto, come una possibilità di liberazione, una via d’uscita possibile, praticabile. Basta che quella porta sia anche solo leggermente socchiusa, per sperare. Per sapere che c’è un’alternativa. L’importante è non lasciare che si chiuda. Lavorare affinché resti almeno un po’ aperta: che vuol dire, fuori di metafora, mantenere la memoria, e continuare in ciò che è giusto, per usare le ultime parole di Alex Langer.

Pubblicato su Gli Stati Generali.

La cultura della repressione

Questa mattina le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nella mia classe quinta, mentre stavamo parlando di Martin Heidegger. Irruzione è un termine forte, ma esatto in questo caso: nessuno ha bussato e chiesto il permesso. Hanno svolto un controllo antidroga facendo passare tra i banchi un pastore tedesco, poi sono andati via. A mani vuote, come si dice. Non è la prima volta che succede, naturalmente, anche se è la prima volta che succede a me. E’ successo, qualche giorno fa, al liceo Virgilio di Roma, e la cosa è finita sui quotidiani nazionali, perché il Virgilio è un liceo molto ben frequentato. E’ successo qualche giorno prima al Laura Bassi di Bologna, anche lì con molte polemiche. E’ successo e succede quotidianamente in decine di istituti tecnici e professionali, che fanno poco notizia perché non sono così ben frequentati come il liceo Virgilio di Roma. E due anni fa, a Terni, un docente è stato sospeso dall’insegnamento per essersi opposto all’ingresso delle forze dell’ordine in classe. 
Quelli che sono favorevoli a queste incursioni ragionano come segue: spacciare è un reato, e il reato è un male, e va perseguito; se uno è a posto, nulla ha da temere. Diamo per buono questo ragionamento, ed esaminiamone le conseguenze. Se è così, allora è cosa buona e giusta che le forze dell’ordine facciano irruzione nelle abitazioni private. Sarebbe un modo efficacissimo per combattere il crimine. Controlli a tappeto, a sorpresa, nelle case di tutti. Poliziotti, carabinieri, cani antidroga. In qualsiasi momento aspettatevi che qualcuno bussi alla vostra porta. Che un cane fiuti tra le vostre cose. Se siete a posto, non avete nulla da temere. E perché non estendere i controlli anche nei luoghi di culto? Sì, lo so, molti di voi stanno pensando alle moschee: e la cosa a molti non dispiacerebbe. Ma io penso alle chiese. Immaginate un’irruzione delle forze dell’ordine in una chiesa, durante un rito. I cani tra i banchi che annusano. Cinque minuti e tutto è finito. Se qualcuno ha della droga, lo si porta via. E amen, come si dice. Non vi piace l’idea? Perché? Perché nel primo caso si tratta di un luogo privato, nel secondo caso si tratta di un luogo sacro, direte. E la scuola che luogo è? Io che vi insegno, la considero al tempo stesso un luogo privato – una casa – ed un luogo sacro. Il più sacro dei luoghi, perché è quello in cui si formano gli uomini e le donne di domani. Ma, direte, la scuola è un luogo dello Stato, ed è bene che le forze dell’ordine dello Stato controllino un luogo dello Stato. E’ cosa loro, per così dire. Bene, concedo anche questo. Ed anche in questo caso, vediamo le conseguenze. Il Parlamento è un luogo dello Stato. E’ il luogo più importante dello Stato. E’ lo Stato. Che succederebbe se delle forze facessero irruzione in Parlamento con cani antidroga? Sarebbe una cosa sensatissima, perché in Parlamento si fanno leggi che riguardano la vita di tutti, ed è assolutamente vitale per la salute della nostra democrazia ed il futuro dello Stato che chi fa le leggi sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Eppure se succedesse una cosa del genere, sarebbe un grande scandalo politico. Perché? Per lesa maestà. Perché è umiliante per un senatore essere perquisito, annusato. Sospettato di essere un drogato, o peggio uno spacciatore. 
E veniamo al dunque. Quando io vengo a casa tua – perché la scuola è la casa degli studenti – e ti sottopongo a perquisizione, io ti sto dando diversi messaggi. Il primo è che ti considero una persona poco raccomandabile. Non è una questione personale: può essere che tu sia a posto, ma è poco raccomandabile la categoria cui appartieni. Il fatto stesso che si facciano controlli antidroga è una conseguenza dell’infimo status degli adolescenti nella nostra società. E’ risaputo che l’alcol fa in Italia diverse migliaia di morti e causa tragedie terribili. Eppure la vendita di questa sostanza stupefacente pericolosissima è consentita. Lo Stato consente la vendita di alcolici, per giunta con il suo monopolio, mentre i Comuni promuovono apertamente il consumo di vino ed altri alcolici con apposite manifestazioni locali. Il consumo di alcolici è consentito perché è cosa da adulti. E’ una abitudine diffusa tra persone perbene, stimabili, con un buono status sociale. La droga, che fa meno morti dell’alcol, è invece roba da adolescenti, da ragazzetti, da soggetti con uno status marginale: dei minus habentes. E’ significativo che il consumo e lo spaccio di hashish e marijuana siano perseguiti con molto più zelo del consumo e dello spaccio di cocaina, una sostanza molto diffusa tra soggetti dotati di uno status anche considerevole, come professionisti e politici. Non è la sostanza stupefacente il problema. Se così fosse, l’alcol sarebbe proibito. Il problema è chi consuma, non cosa consuma. 
Il secondo messaggio è che la scuola è un posto in cui non ti puoi sentire come a casa. Per quanto ti stimi poco, non verrei mai a perquisirti a casa, a meno che non abbia un mandato. Ma a scuola sì. A scuola ti tengo d’occhio. Rispondendo alle polemiche dei genitori per i controlli antidroga al liceo Laura Bassi di Bologna, il procuratore aggiunto Valter Giovannini ha dichiarato:”trova ancora spazio l’arcaico convincimento ideologico che l’università e più in generale gli istituti scolastici godano di una sorta di extraterritorialità“. Nessuna extraterritorialità. Non siete a casa vostra, siete in un posto in cui possiamo entrare e uscire quando vogliamo. Possiamo perquisirvi, possiamo farvi annusare dai nostri cani. Siete sotto il nostro controllo. Del resto, non sono gli adolescenti di continuo sotto il controllo dei professori? Non sono di continuo osservati, richiamati, sanzionati se non si comportano come si deve? Ecco dunque il poliziotto ed il carabiniere che vengono a ribadire il concetto, nel caso in cui non fosse abbastanza chiaro. La scuola è un luogo in cui siete controllati e controllabili, perquisiti e perquisibili. Non è una casa della cultura e dell’educazione, come qualcuno potrebbe dire retoricamente. Non ha nulla di sacro. E’ una istituzione che raccoglie – concentra – dei minus habentes, e non è escluso che concentrarli per controllarli sia il suo scopo principale. E’ un messaggio rivolto a tutti, ma forse c’è un terzo messaggio rivolto ad alcuni. Può essere una coincidenza, ma in molte delle scuole, anzi delle classi perquisite c’erano studenti appartenenti ai collettivi studenteschi. 
Se non è solo una coincidenza, allora il terzo messaggio è questo: vi controlliamo tutti, ma in particolare teniamo d’occhio voi che fate politica, voi dei collettivi, voi che vi definite comunisti o anarchici; rientrate nei ranghi, che è meglio per voi. E lei, professore, torni pure a parlare di Martin Heidegger. Non è successo niente.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

Nell'Egitto di al-Sisi la libertà di pensiero si paga con il carcere



Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio Isacco. Quando tutto è pronto per il sacrificio – Isacco ha portato anche sulle sue spalle la legna che sarebbe servita per il suo olocausto – e la mano del padre sta per scannare il figlio, Dio interviene. “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo figliuolo, l’unico tuo!” (Genesi, 22, 12). E per non restare privo d’un sacrificio, Dio fa comparire un ariete, che viene sacrificato al posto del ragazzo. Per ricordare questo episodio biblico, non dei più luminosi, ogni anno si celebra nel mondo musulmano la “festa del sacrificio”, Id Al-Adha. Si prende un animale, lo si sgozza e lo si lascia dissanguare, a maggior gloria di Dio. Può essere un montone o una pecora, una mucca, un cammello. “Milioni di innocenti creature saranno condotte al più orribile massacro compiuto da esseri umani per dieci secoli e mezzo. Un massacro che si ripete ogni anno a causa dell’incubo di un uomo giusto riguardo al suo bravo figlio”, ha scritto sul suo profilo Facebook ad ottobre dello scorso anno la scrittrice egiziana Fatima Naoot. E per queste parole il 28 gennaio è stata condannata a tre anni di carcere con l’accusa di aver disprezzato l’Islam, di aver diffuso odio settario e di aver attentato alla pace pubblica. 
Fatima Naoot, già candidata al parlamento, è poetessa e scrittrice, traduttrice (ha tradotto tra l’altro Virginia Woolf) e giornalista, nota per le sue prese di posizione in favore delle minoranze del paese, come quella copta. Durante il processo non ha negato di aver scritto quel post, ma ha rigettato l’accusa di aver voluto offendere l’Islam, sostenendo che la religione è solo un pretesto per giustificare il gusto di uccidere animali. La poetessa è stata condannata in base all’articolo 98 del Codice Penale egiziano, che così recita: “Chiunque sfrutti la religione per promuovere ideologie estremiste attraverso la parola, gli scritti o in altro modo, con il fine di fomentare la sedizione, di denigrare o disprezzare qualsiasi religione divina o i suoi aderenti, sarà punito con il carcere da sei mesi a cinque anni, o al pagamento di una multa di almeno 500 sterline egiziane”. Una norma che ha lo scopo di combattere il fondamentalismo e lo hate speech religioso, e che nell’Egitto di oggi – l’Egitto nel quale un giornalista coraggioso come Giulio Regeni viene ucciso dopo essere stato orribilmente torturato – finisce invece per colpire la semplice espressione di opinioni non conformiste. 
Intervistata il 30 gennaio dall’emittente egiziana CBC TV, la scrittrice ha dichiarato che la legge contro la blasfemia, che doveva servire a proteggere i cristiani dagli attacchi dei fondamentalisti islamici, è diventata un cappio al collo per gli stessi cristiani e per gli intellettuali progressisti. Ed ha aggiunto: “Lo Stato sta combattendo i terroristi, ma non il terrorismo. Il terrorismo è una ideologia. Il mio imprigionamento è terrorismo. L’imprigionamento di Islam Behery è terrorismo. L’imprigionamento di chiunque esprima la propria opinione è terrorismo”. 
Islam Behery, citato da Naoot, sta scontando la pena di un anno di carcere nella prigione di Tora in base allo stesso articolo del Codice penale. Studioso dell’Islam con una laurea all’università di Wales, Behery conduceva un programma televisivo di grande successo presso il canale televisivo Al Kahera Wal Nas, ripreso sul suo canale YouTube, nel quale parlava di un Islam purificato dai suoi aspetti violenti. Gli hadith, le narrazioni dei fatti e dei detti di Muhammad che costituiscono la seconda fonte dell’Islam dopo il Corano, parlano di un Profeta che sposa una bambina ed ha rapporti sessuali con lei. Che pensare di un uomo di Dio che compie un crimine del genere? Come conciliare questo crimine con l’altezza morale che il Profeta mostra in molti passi del Corano? Per Behery bisogna porre in questione l’attendibilità degli hadith, se si vuole liberare l’Islam dai suoi aspetti oppressivi e violenti. Se non si compie questa operazione, sarà inutile la lotta contro contro il Califfato. Ridiscutere l’autorità degli hadith vuol dire estirpare la radice del fondamentalismo. Una posizione coraggiosa, che ha suscitato le ire di Al-Azhar, l’Università del Cairo che rappresenta la più importante autorità culturale del mondo sunnita, che ha chiesto ed ottenuto la sospensione del programma di Behery. Il processo invece è stato avviato in seguito alla denuncia di un semplice cittadino. Dopo la condanna, l’intellettuale egiziano ha commentato ironicamente: “Molte grazie al presidente Abdel-Fattah El-Sisi ed alla sua rivoluzione religiosa… Sono grato per la libertà di espressione in Egitto”.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 28 febbraio 2016.