Blog di Antonio Vigilante

Empatia verso gli animali e violenza

Alessia Parrino, dottoranda presso l'Università di Padova, mi ha scritto chiedendomi una intervista consistente in una sola domanda per la sua tesi di dottorato. La domanda è la seguente: "How in your opinion, educate children to feel (or to improve, or to increase) empathy toward animals could prevent antisocial and violent future behaviour?". Quella che segue è la mia risposta.

La domanda contiene un implicito: che educare i bambini all'empatia verso gli animali prevenga i comportamenti violenti in futuro. Si tratta di una affermazione che non è possibile dare per scontata, e che va analizzata. In passato, uno degli argomenti in favore di un migliore trattamento degli animali era che la violenza sugli animali porta prima o poi alla violenza sugli esseri umani, e che dunque educare al rispetto per la vita animale - pur essendo questa priva di diritti - può tornare a vantaggio dell'umanità. La tesi opposta a questa sostiene, invece, che la violenza contro gli animali ha una funzione catartica, serve a scaricare una violenza che altrimenti si indirizzerebbe verso l'essere umano. E' la tesi che sostengono coloro che difendono spettacoli come la corrida. Si tratta di due tesi che hanno in comune la constatazione di un certo livello di violenza presente nell'essere umano, che secondo i primi va contrastata incoraggiando la gentilezza anche verso gli animali, mentre per i secondi va manifestata in qualche modo. 
La questione conduce dunque ad una seconda domanda: l'essere umano è violento? Si tratta di una questione che fa tremare i polsi a filosofi, antropologi, sociologi e psicologi. Proverò ad azzardare una risposta senza alcuna pretesa di offrire nulla più che una ipotesi sulla quale lavorare. 
Una cosa che è facile osservare è che, se la violenza è sempre stata presente nelle società umane, varia sensibilmente la quantità di violenza. Ci sono società ossessionate dalla violenza e società più o meno pacifiche. Ci sono epoche durante le quali popoli interi si sono massacrati ed epoche nelle quali essi sono riusciti a convivere. Il che vuol dire che non esiste una natura umana immutabile, e che l'essere umano può assumere forme e volti diversi nelle diverse sue espressioni storico-culturali. Perché alcuni di questi volti sono più violenti di altri? Le variabili decisive a mio avviso sono due. La prima è l'economia. Sappiamo che le società di caccia e raccolta sono (o meglio: erano, poiché ormai sono quasi del tutto scomparse) società quasi egualitarie, nelle quali i conflitti, mai del tutto assenti, vengono gestiti in modo meno cruento che in società considerate più avanzate. Quella in cui viviamo è probabilmente, invece, la società più violenta che sia mai esistita, una società fondata sulla competizione per il possesso di beni e risorse materiali, che produce guerre, morte e distruzione sotto l'apparenza del benessere. La seconda variabile è la cultura, ed in particolare la religione, che considero il fatto più rilevante della vita culturale di un popolo. Una religione può educare alla compassione o, al contrario, spingere alla guerra ed allo sterminio dello straniero. E' evidente che credere in un Dio concepito come Signore degli Eserciti non favorisce le tendenze nonviolente e la comprensione dell'altro. 
Economia e cultura/religione sono in strettissimo rapporto tra di loro. Non ritengo la religione una semplice sovrastruttura dell'economia, ma è innegabile che dietro molte convinzioni, miti, figure religiose vi siano precisi rapporti economici e di potere. Una società violenta è caratterizzata da una struttura relazionale piramidale, cui corrisponde una visione del mondo ugualmente verticale. Il mondo viene pensato con un alto ed un basso, ed una gran quantità di confini, linee di separazione, muri. Una di queste linee di separazione - forse quella decisiva - è quella tra umano e non umano. Una separazione che poi tende a riproporsi nel mondo umano, con la distinzione tra chi è pienamente umano e chi è quasi-animale (una distinzione che serve ad identificare l'altro massacrabile). Se le cose stanno così, i due problemi della violenza contro gli esseri umani e della violenza contro il non umano sono strettamente legati. C'è una prima separazione, che è quella tra umanità e natura, con quest'ultima che è oggetto di sfruttamento, e ci sono infinite altre separazioni nel mondo umano. E' una intera realtà materiata di violenza, asimmetria, sfruttamento. E' il dominio di alcuni su altri che si esprime in mille forme, e che distrugge ugualmente umani, non umani ed ambiente. 
La domanda iniziale può dunque essere riformulata così: educare all'empatia verso gli animali può servire ad avere una società meno violenta? Si può rispondere affermativamente, ma ad alcune condizioni. Quando parliamo di animali, tendiamo a riferirci ai cosiddetti animali da compagnia: cani e gatti, soprattutto. Mi è capitato di chiedere a degli studenti di scuola secondaria se gli animali hanno diritti. Quasi tutti, nei diversi incontri, hanno risposto di sì. Una certezza che poi è diventata problematica quando ho chiesto se allora hanno diritti anche i ragni o le formiche. Vivendo con un cane, so quale rapporto straordinario è possibile creare con un animale capace di comunicare con una intensità ed una profondità che spesso sono negate a noi umani, e mi sembra che la presenza di un cane nella vita di un bambino possa aiutarlo notevolmente nella sua crescita affettiva. Ma è insufficiente portare alcuni non umani dalla nostra parte, e lasciare tutti gli altri al di fuori del cerchio della rispettabilità etica. Quello che ci occorre è uno sguardo che consideri con rispetto ogni essere vivente: qualcosa come il "rispetto per la vita" di cui parlava Albert Schweitzer. Rispetto, sì, anche per il ragno e lo scarafaggio. Un rispetto fondato sul fatto che ogni vivente vuole vivere, dice sì alla vita. 
Se un bambino comprende che nessuna vita, nemmeno quella che occorre dolorosamente sopprimere (perché anche solo coltivare una pianta vuol dire scegliere di sopprimere alcune vite), è priva di valore, e se impara a cogliere il valore non in qualità come la ragione o l'intelligenza, ma in questo fondo vitale, in questa tensione verso la sopravvivenza, è probabile che sia più difficile che nella sua mente si imponga lo schema piramidale del dominio. Quella di cui abbiamo bisogno per uscire dalla violenza è una Weltanschauung orizzontale, aperta, fraterna, che sostituisca la dimensione dello stare-accanto a quella del dominare-su. Educare in senso autentico vuol dire immettere fin da subito il bambino in questi rapporti liberati dal dominio, aperti, fraterni. Senza questa pratica sinagonica (nel senso dell'educarsi insieme, syn) più che pedagogica, una educazione al rispetto della vita non umana sarebbe completamente inutile, come sarebbe inutile qualsiasi forma di educazione civica.