Blog di Antonio Vigilante

Tutti cercano la vita, tutti hanno paura della morte

Alcuni anonimi hanno creato un gruppo in difesa della sperimentazione animale scegliendosi come nome nientemeno che Resistenza Razionale. Nel loro blog trovo un articolo sul "cortocircuito logico dell'antispecismo" cui proverò a rispondere, non prima però di aver fatto qualche osservazione preliminare. Gli autori del blog, che preferiscono restare anonimi per via, dicono, delle minacce degli animalisti, scrivono: "Noi siamo assolutamente persuasi di avere dalla nostra i fatti scientifici, e con strumenti del genere nelle mani si vince sempre". Una convinzione piuttosto ingenua, sia perché si può discutere a lungo di cosa siano i fatti scientifici, sia soprattutto perché le questioni morali non sono riconducibili ai fatti scientifici, qualunque cosa siano.
Secondo l'autore o gli autori dell'articolo, l'affermazione da cui partono gli antispecisti è la seguente: "Chi vi da diritto di disporre della vita degli animali? Sono uguali a noi." Ora, l'obiezione è semplice. Come sono gli animali? Come si comportano? Quali sono le leggi di natura? Semplice:
Ebbene sì: qualsiasi essere vivente, animale o vegetale, in natura è profondamente egoista, crudele, cinica, razzista e specista. Qualsiasi essere vivente, compreso l’uomo. In natura. Cioè prima della civiltà. 
Per cui la conclusione è semplice: se l'uomo è come gli animali, allora dovrebbe comportarsi come loro, e dunque distruggere le altre vite senza porsi alcun problema etico; se si pone problemi etici, è perché invece si distingue nettamente da loro: "solo ammettendo che l’uomo sia diverso abbiamo il diritto di essere noi a decidere cosa è giusto, e solo con la presunzione di essere superiori possiamo pensare che questa decisione sia giusta".
C'è qui il rovesciamento - o meglio: il tentato rovesciamento - di un argomento frequente di coloro che sono contrari alla sperimentazione animale. E cioè: si ricorre alla sperimentazione animale perché si ritiene che gli animali siano simili agli esseri umani (altrimenti le conclusioni degli esperimenti condotti su di loro non sarebbero estensibili agli esseri umani); ora, se gli animali sono simili agli esseri umani, allora hanno anche lo stesso diritto al rispetto dell'integrità corporea: e dunque la sperimentazione è sbagliata.
Consideriamo ora l'affermazione di partenza. In che senso i sostenitori dei diritti degli animali - antispecisti o animalisti - affermano che "gli animali sono uguali a noi"? La questione è posta fin dalle prime pagine di Liberazione animale di Peter Singer, uno dei testi fondamentali del movimento per i diritti degli animali. Alla fine del Settecento comparve in Inghilterra un libro intitolato A Vindication of the Rights of Brutes. Ne era autore il filosofo Thomas Taylor e voleva essere una satira della Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft. Il ragionamento era semplice: se le donne rivendicano dei diritti, perché non dovrebbero farlo le bestie? Su quali basi si sostiene l'uguaglianza di uomini e donne? E' evidente, osserva Singer, che non si tratta della loro uguaglianza reale. Uomini e donne sono fisiologicamente diversi. Cosa vuol dire allora che sono uguali? La domanda riguarda ogni altro genere di uguaglianza riguardante gli esseri umani. Quando affermiamo che gli esseri umani sono uguali "senza distinzioni di razza, sesso o religione", stiamo sostenendo che tutti gli esseri umani sono effettivamente identici? No, evidentemente, se parliamo appunto di distinzioni. Ed in cosa consiste allora l'uguaglianza? Come scrive efficacemente Singer, essa è "un'idea morale, non un'asserzione di fatto":

Il principio dell'uguaglianza degli esseri umani non è una descrizione di una pretesa uguaglianza reale: è una prescrizione sul modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere trattati. [1]
Affinché due esseri abbiano gli stessi diritti non occorre dunque che siano identici. Occorre tuttavia che abbiano comunque qualcosa in comune. Sembra piuttosto arduo sostenere l'uguaglianza tra esseri umani e pietre, ad esempio. Se si afferma che gli animali hanno diritti come gli esseri umani (e non, evidentemente, tutti gli stessi diritti), è perché c'è qualcosa che i primi ed i secondi hanno in comune. Di cosa si tratta? Una prima risposta è: la capacità di soffrire. Un cane o una scimmia soffrono come un essere umano. O meglio: è difficile sapere se la sofferenza è esattamente la stessa, perché nella percezione della sofferenza nel caso dell'essere umano intervengono elementi che possono non essere presenti nell'animale. Che un animale soffra, tuttavia, è innegabile. E sappiamo per esperienza che la sofferenza è un male. Ma la soppressione della vita animale diventa accettabile, se fatta con metodi non dolorosi? E: gli esseri viventi non dotati di sistema nervoso non hanno alcun diritto alla vita? Un criterio diverso è quello che si trova in testi scritti molti secoli prima che si cominciasse a parlare di animalismo ed antispecismo: i sutra buddhisti. Nel Dhammapada si legge (verso 129):

Sabbe tasanti dandassa
sabbe bhayanti maccuno
attanam upamam katva
na haneyya na ghataye.


Tutti hanno paura del bastone
tutti temono la morte.
Facendo un confronto con se stessi
non si colpirebbe e non si ucciderebbe. [2]

La cosa che accomuna tutti gli esseri viventi - che si tratti di un essere animale, di un cane o di una pianta - è il fatto di evitare la morte e di cercare la vita. Come dice un verso successivo (131), tutti gli esseri sono "in cerca di felicità". In termini nietzscheani, potremmo dire che ogni essere vivente esprime un sì alla vita. E' facile osservare in natura questa ricerca della vita: si pensi al modo in cui le piante si sporgono verso la luce o si adattano per sopravvivere anche in condizioni difficili. Di fronte a questo sì alla vita, che è lo stesso che muove l'essere umano, è doveroso il rispetto. Che vuol dire, in concreto, considerare vandalismo la distruzione gratuita ed evitabile di qualsiasi essere vivente.
Si dirà - ed è quello che dice l'autore dell'articolo - che in natura ogni vita, affermando sé stessa, lo fa a scapito delle altre vite. In natura nessun essere vivente esprime rispetto per il sì alla vita di altri esseri viventi. E' una convinzione che si può discutere. Non mancano, da Kropotkin a Danilo Dolci, coloro che hanno considerato il mondo naturale ed animale come un campo di grandi insegnamenti morali. Una cosa è certa: in natura la violenza su altre vite è normalmente finalizzata alla sopravvivenza. Il leone sbrana la gazzella se ha fame. Un leone sazio è pacifico, come sanno quelli che lavorano nei circhi (di cui auspico la rapida scomparsa, nella loro forma attuale). La distruzione della vita, dunque, non è gratuita ed evitabile. Ed è esattamente questo che i difensori dei diritti degli animali chiedono. Non di evitare la distruzione di qualsiasi vita animale, ma di evitare ogni distruzione di vita animale gratuita ed evitabile. Per alimentarsi occorre uccidere: non si sfugge. Ma, si dirà, non è dunque giusto allevare, uccidere e mangiare animali per soddisfare il bisogno primario della sussistenza? Qui entra in gioco l'altro criterio, quello della sofferenza. Tutti gli esseri viventi cercano la vita, tutti cercano di sfuggire alla morte. Alcuni, però, a differenza di altri hanno la capacità di soffrire. Potendo scegliere quale vita distruggere per soddisfare il bisogno primario si alimentarsi, è doveroso scegliere la vita che non è capace di sofferenza. Si può obiettare che qui è all'opera un criterio ancora antropocentrico: si salva l'animale perché ha qualcosa che lo accomuna all'essere umano, mentre si condanna la pianta che è più lontana dall'essere umano. E' una obiezione seria, anche se al senso comune può sembrare provocatoria, perché siamo abituati a percepire le piante come quasi-cose. In mancanza di altri criteri per distinguere la vita sacrificabile da quella non sacrificabile, mi pare però che questo sia un criterio ragionevole.
Un'ultima osservazione. Nelle specie animali è molto raro che gli scontri tra i singoli individui siano mortali. La violenza interspecifica è in genere frenata da meccanismi di pacificazione. Quando nello scontro diventa evidente chi è il più forte, ad esempio, l'altro si sottomette, e lo scontro finisce. Nella specie umana questi meccanismi non funzionano. Se dicessi che la specie umana nel corso della sua vita sulla terra si è massacrata da sola, direi il falso, perché per la gran parte della sua vita sulla terra la specie umana si è espressa in società di caccia e raccolta che erano sostanzialmente pacifiche, e certo non conoscevano lo sterminio. Gli esseri umani si massacrano da qualche secolo. Da quando, diciamo, hanno introdotto l'agricoltura, la proprietà, lo Stato. Forse anche la religione.
Perché gli esseri umani si massacrano? Una risposta plausibile è la seguente. Il nemico, che viene massacrato, in virtù della sua differenza (di etnia, di religione, di ideologia ecc.) non è più percepito come un appartenente alla stessa specie. E' come se non fosse più un essere umano, ma un animale. In questo senso la violenza interspecifica diventa violenza intraspecifica.
Se le cose stanno così, abbiamo una ragione in più per considerare urgente la questione della violenza sulle specie animali. Non è escluso che qui sia la chiave per risolvere anche il problema della violenza sull'essere umano.


[1] P. Singer, Liberazione animale, tr. it., il Saggiatore, Milano 2010, p. 21. Corsivo nel testo.
[2] Traduzione di Luigi Martinelli: Dhammapada, Mondadori, Milano 1990.