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Blog di Antonio Vigilante

L'altro nell'io

IL PROBLEMA di Shinran: come è possibile, attraverso la pratica dell’io, sradicare l’illusione dell’io? Come può un io salvarsi dall’io?
La soluzione di Shinran è nell’abbandono ad Amida. E’ Amida che compie l’opera, è la forza dall’esterno che irrompe ed opera la conversione. La pratica lascia il posto alla fede.
Ma è, questa, una soluzione? Se l’io è io, e null’altro che io, sono possibili atti che non siano egoistici? Non sarà anche il voto ad Amida un atto egoistico? Può l’io affidarsi all’altro, restando io?

Due forme

DUE forme di dolore, due forme di gioia.
Il piccolo dolore e la piccola gioia appartengono all’io: sono la frustrazione per le aspirazioni insoddisfatte o la gioia per le aspirazioni realizzate. In entrambi i casi l’io è chiuso in sé, ferito e rancoroso o soddisfatto e pieno di vigore.
Il grande dolore e la grande gioia spingono l’io verso il suo oltre. Nel grande dolore non è questa o quella aspirazione che viene frustrata, ma è la vita stessa, nella sua totalità, che si mostra impossibile. L’io vacilla, tutte le certezze che ci trattengono nel regno dei nomi e delle forme si fanno evanescenti: manca letteralmente la terra sotto ai piedi. Si brancola nel buio, persi nell’indistinto. Il mondo si fa sogno ed incubo, le cose intangibili, l’altro distante ed ostile. Non c’è via, non c’è salvezza. Tutto trema ed è pronto a disfarsi.
E’ quando questo disfacimento giunge a compimento che il grande dolore si apre alla grande gioia. Nella quale, pure, resta una traccia del dolore da cui proviene, del nulla da cui scaturisce e che l’informa di sé. E’ una gioia ebbra, materiata di lacrime e di abbandono, che ha la durezza del distacco e della decisione: un attimo prima di spegnersi nella pace.

Il paradigma dell'imbuto e il paradigma della situazione

Un paradigma ben consolidato in campo educativo è quello dell’imbuto. Che se ne sia consapevoli o meno, si pensa che il compito di chi educa sia quello di selezionare, tra i comportamenti dell’educando, gli unici che sono degni di restare, e di far in modo che gli altri scompaiano. All’inizio c’è un soggetto con una molteplicità di modi di essere, alla fine c’è un soggetto che è adatto ad entrare in società, che si è lasciato alle spalle ogni sgradevolezza. Tra l’inizio e la fine – tra la bocca larga dell’imbuto e la sua uscita stretta – c’è l’azione di modellamento dell’educazione, la cui essenza è quella di vietare alcune cose e di permetterne altre.

Dio che non è

SE gli uomini conoscessero Dio, ne avrebbero orrore. Lo maledirebbero, cercherebbero di nascondersi dal suo sguardo, custodirebbero le parole per impedire la loro caduta nello spazio in cui Dio accade. Perché Dio è la morte, la negazione, la mancanza, l’assenza. Dio è un segnale di oltrepassamento: ovunque tu sia, non sei in Dio; e Dio è il non-essere che ti dice che ovunque tu sia, non sei.
Non c’è ateismo che nello stare; ovunque uno sia in pace con sé stesso, Dio non è. Quando la guerra comincia, il Dio che non è nientifica e libera, l’abisso si spalanca, la parola si spacca, nome e forma cedono all’ignoto. Non c’è più un qui, un quando; non c’è ateismo né fede. Solo Dio, che non è.